mercoledì 27 gennaio 2021

la paesitudine applicata al tempi del Covid-19

 

Il paese inesistente - Franco Arminio

 

Quando ci fu il terremoto ogni sera stavamo in televisione, e questo ci sembrava strano. C’era quasi un senso di contentezza: finalmente si occupano di noi. In Italia i paesi esistono come luogo della sciagura, il paese è semplicemente lo sfondo. La loro vita quotidiana non interessa a nessuno, a cominciare da chi li abita. Questo volevo dire quando ho scritto: qui se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto.

In questi giorni ho ascoltato in Parlamento i discorsi fatti dai parlamentari che dovevano decidere se dare o meno la fiducia al Governo Conte. Sono state due giornate dedicate all’aritmetica, non potevo aspettarmi attenzione per l’orografia. E infatti nessuno ha parlato di montagne. A un certo punto qualcuno ha citato Taranto. Non mi pare di aver sentito altri nomi di luoghi, sicuramente non ho sentito nomi di paesi o di zone geografiche: mi sarebbe piaciuto che qualcuno citasse la Barbagia o l’Aspromonte, le valli bresciane o le colline marchigiane. Niente, le persone che parlano in Parlamento sembrano venire tutte dallo stesso luogo, una città senza nome e senza lingua: la città della politica. Il futuro della politica è coniugare la cura del mondo e la cura dei luoghi. Il pianeta e il piccolo paese. Vorrei capire dove sono nate e dove vivono le persone che ho ascoltato in Parlamento nel gennaio 2021, nei giorni in cui le persone non si possono baciare, non si possono stringere la mano. Se qualcuno di loro è nato o vive in un paese se lo è sicuramente scordato. Se la politica deve rappresentare le persone e i loro problemi perché nessuno rappresenta le persone i problemi dei paesi? Andare in Parlamento significa occultare la propria paesanità? Ma se è così è un atteggiamento provinciale. Se uno pensa che citare l’America sia più importante che citare le valli di Comacchio non ha capito niente del futuro che ci aspetta. La modernità non sarà mai più la fuga dall’arcaico, ma un sapiente intreccio di quello che siamo stati e di quello che vorremo diventare. E questo intreccio in ogni luogo assume un colore diverso. Ai politici di governo e di opposizione bisogna ricordare che i soldi da spendere per fronteggiare la crisi pandemica non si spenderanno in astratto, nella città astratta della politica, ma in posti che hanno storie diverse e che sono abitati da persone e da piante e da animali. Sono terre dove non sappiamo se può piovere a oltranza per tre giorni o per trenta giorni, sono luoghi dove bisogna valutare lo stato delle acque e della terra. La terra è un’altra cosa di cui si parla poco in Parlamento, come se fossimo tutti avvocati e architetti. Il formaggio, la farina, l’insalata, le uova: nessuno le ha sentite queste parole nei giorni della fiducia al governo. Forse l’oggetto della fiducia dovrebbe essere la realtà, ci vorrebbe un patto per la realtà, un bene in cui siamo immersi e che sta velocemente evaporando, come se tutti stessimo traslocando nell’irreale. Perfino la pandemia, con le dolorose conseguenze che produce, rischia di diventare uno sfondo a cui ormai ci siamo abituati e qualcuno potrebbe avere la tentazione di non rimuoverlo più questo sfondo, magari ne viene qualche guadagno alla propria carriera. L’irrealtà è il grande cancro dello spirito con cui ci troviamo tutti a combattere. Nominare i luoghi è un esercizio fondamentale non solo per i politici. Come è bello dire Luca, Carmela, Antonio, Patrizia, così è importante dire Roghudi, Senerchia, Perugia, Biella. Solo qui sappiamo nominare le cose, non su Marte, non sul pianeta parlamentare.

da qui

 

 

IL CANTIERE DELLA FIDUCIA - Franco Arminio

 

Scrivo da anni sulla questione dei paesi. Ogni volta che lo faccio, cerco sempre di partire dalla visione di un luogo. Per questo motivo, sono andato a Santomenna. Non arriva a 400 abitanti, sta in un punto della provincia di Salerno che sembra allontanarsi da tutti gli altri e va a posarsi al confine con l’Irpinia e la Basilicata. Ai tempi del terremoto del 1980, Santomenna faceva parte di una trilogia di paesi totalmente distrutti perché assai vicini all’epicentro. Gli altri due sono Castelnuovo di Conza e Laviano. Santomenna ora potrebbe essere l’emblema dello spopolamento dell’Italia interna. Non solo perché ha perso tanti abitanti. È uno spopolamento radicale: non ci sono vacche e non ci sono pecore, non si fa il formaggio come ancora avviene a Laviano. C’è solo un tabacchi, un piccolo negozio di alimentari e un bar. Il paese è stato tutto ricostruito, le case sono esposte al sole, l’aria è pulita, potrebbe essere un bel luogo per riposarsi. Invece, qui non ci sono “azioni in corso”. Le persone che vogliono parlare con qualcuno scendono in basso dove passa la strada e dove ci sono la chiesa, il Comune e qualche panchina. Piccoli gruppi di persone. Una volta ne trovi tre, un’altra cinque. Gli altri sono in casa, sono quasi tutti anziani. Santomenna ha tutte le carte in regola per essere definito un paese della bandiera bianca, cioè un posto che sembra arreso. Ovviamente, il sindaco non gradirà questa descrizione, ma per me il paese è interessante proprio per il fatto di essere così spoglio, essenziale. L’errore da non fare è considerare Santomenna un posto arretrato. Si può parlare piuttosto di un ritmo, di un’atmosfera che varia da luogo a luogo, ma senza pensare che un luogo sia più avanti di un altro. Il primo lavoro da fare per dare valore ai paesi è guardarli bene, guardarli uno per uno, sentirli, ascoltarli. Per fare buone strategie di sviluppo, bisogna partire dall’idea che la prima infrastruttura su cui lavorare è la fiducia. In questi anni, ai paesi la fiducia nessuno è riuscita a darla. Per questo sono cresciuti gli scoraggiatori militanti. La loro egemonia culturale è diventata così grande che spesso arrivano a eleggere anche i sindaci, votati per i sogni che non fanno. Lo scoraggiatore è diventato, in molti paesi, l’unica figura di successo, l’unica che vede confermate le sue visioni. La sua frase bandiera “qui non c’è niente” viene confermata ogni volta che un negozio chiude, che un ragazzo parte. Le politiche fatte per contrastare lo spopolamento dell’Italia interna sono state piuttosto fallimentari. Lo strumento attualmente in esercizio, la Strategia Nazionale delle Aree Interne, somiglia molto a una sceneggiatura a cui si lavora alacremente, ma il film fatica a cominciare. Eppure è sicuramente un’azione ben concepita e abbiamo anche la fortuna di avere un ministro di riferimento per quelle aree, che è competente e volenteroso. Allora perché non accade niente che ci dia entusiasmo? Perché anche nel tempo del Covid-19 non si riesce a dare quella spinta ai paesi che servirebbe molto all’Italia intera? Il motivo principale è una sorta di miopia geografica. L’Italia, nazione di paesi e di montagne, ha dato le spalle ai paesi e alle montagne. Si fanno politiche focalizzate sui centri urbani e sulle pianure. C’è di mezzo ovviamente l’opportunismo degli esponenti politici che tendono a occuparsi di luoghi che hanno più peso elettorale. C’è, ancora di più, un retaggio culturale che non va via: paesi significa mondo rurale, mondo rurale significa miseria, dunque il paese è il luogo della sfiducia più che il luogo dell’opportunità. Lo stiamo vedendo benissimo in questi mesi in cui il distanziamento fisico, che nei paesi è facile da mantenere, non si è tramutato nell’avvio di politiche per ridistribuire gli italiani sul territorio. Usando un linguaggio medico, in un momento in cui il mondo è diventato un gigantesco ospedale, si può dire che abbiamo una malattia circolatoria: nel caso dei paesi una malattia anginosa, si soffre perché arriva poco sangue; nel caso delle aree urbane si è prodotta una malattia emorragica, come se si fosse rotto un aneurisma. Davanti a problemi di questo tipo, è evidente che bisogna intervenire subito e bisogna chiedere conto alla politica della sua miopia: come si fa a non vedere problemi come questi? La risposta sta nel fatto che non se ne curano più di tanto anche le persone che abitano nei luoghi malati. Nessuno ha mai chiesto un blocco totale di certe aree quando si toccano determinati livelli di inquinamento. Nei paesi accade una cosa che si può riassumere così: qui se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto. Paesani e cittadini sono accomunati dalla scarsa attenzione ai luoghi in cui abitano. In questi decenni, i legami sociali si sono allentati, è venuta fuori una malattia che io chiamo autismo corale. Nella prima stagione del Covid, l’autismo corale si era un poco allentato: eravamo distanziati ma in un certo senso più vicini. Ora il distanziamento fisico e quello spirituale procedono appaiati. La gravità dell’epidemia, ovviamente, oscura la vicenda dei paesi, la fa apparire come trascurabile. Tra l’altro, nessuno si ribella. La leva fondamentale del cambiamento dovrebbero essere i ragazzi, ma l’età più fertile è stata bonificata dalle passioni collettive. Anche le politiche per le aree interne non sembrano molto attente alle esigenze giovanili. La strategia delle aree interne dovrebbe diventare la strategia per i ragazzi e le ragazze dei paesi, la strategia della fiducia. Un paese dove qualcosa si muove deve essere connesso con quello dove non si muove niente: bisogna far migrare la fiducia, finanziare gli spostamenti di chi innova, la voglia di far conoscere il buono che c’è, di portarlo dove l’insuccesso è diventato una vocazione. Si tratta di aprire da subito un grande cantiere per passare dalla comunità-pozzanghera alla comunità-ruscello. I paesi come luogo di incubazione di un nuovo umanesimo, l’umanesimo delle montagne.

da qui




 

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