Nell’estate rovente in corso, ancora e come sempre a pagare un prezzo ancora peggiore degli umani sono gli animali. Non solo i viaggi della morte verso i macelli diventano quell’inferno in terra che a loro regolarmente destiniamo, né, nel silenzio generale, ci arrivano certo dei report su quanto avviene nei laboratori di vivisezione, che l’epidemia Covid pare avere ulteriormente legittimato in nome della presunta salvaguardia della salute umana. Ma l’homo sapiens non ha remore neppure davanti a quei cani e gatti e altri ancora che gli piace tanto definire d’affezione, e di cui, in difesa del diritto inalienabile alle vacanze, semplicemente si libera. Ci sono i numeri a metterci davanti alla realtà e ci sono i filmati in rete a informarci delle modalità: i numeri sorprendono, ma, per loro stessa natura, non smuovono emozioni. Lo fanno però le immagini di quegli animali da compagnia, i migliori amici dell’uomo trattati come oggetti da lasciare in discarica, perché hanno perso la loro utilità, non servono più e sono anzi divenuti un ingombro: occupano tempo e spazio che si preferisce dedicare ad altro.
Ignobili i comportamenti immortalati
dalle riprese visibili in rete: a Castel Volturno un pastore
tedesco viene scaricato in un luogo assolato e lui, quando l’auto si muove,
cerca invano per un breve tratto di seguirla. Il filmato si interrompe e il
resto è lasciato all’immaginazione.
Da Foggia arriva il
breve report di un altro abbandono, reso se possibile ancora più tragico dalla
presenza di un bambino: quella che si suppone sia la madre scarica il cane, usa
il guinzaglio per legarlo a un palo e si allontana, mentre il bambino scoppia
in un pianto dirotto, che non ha il potere di smuoverla: lui si dispera e lei
neppure si ferma per calmarlo.
In entrambi gli episodi sconvolge
lo strapotere dell’umano verso il cane, di cui si può fare quello che si
vuole. E angoscia l’assenza di qualsivoglia forma di empatia: la
sofferenza dell’animale non viene colta o, se lo è, non origina reazioni
conseguenti. Il bambino in lacrime poi parla di molto altro ancora: lui soffre
per la separazione e forse sente in sé, oltre al proprio dolore, il riverbero
di quello di lui. Quello che non può sapere è che, intanto, sta introiettando
una lezione tossica: l’insensibilità della madre farà scuola, perché lei, per
il suo stesso ruolo, è un modello di vita, i suoi insegnamenti sono legge
morale ed entreranno nel patrimonio esperienziale del figlio. Se è vero che
l’empatia si forma soprattutto sulla scorta di modelli di comportamenti
empatici offerti dagli adulti di riferimento, il tracollo educativo dovrebbe
essere sotto gli occhi di tutti: il bambino imparerà che quello che lui prova,
il suo dolore, è fuori luogo, non ha diritto di cittadinanza perché l’adulto
(che le cose le sa) gli sta insegnando che è questo il modo in cui si trattano
i più deboli. Disastro educativo, se per educazione si intende
prima di tutto e sopra tutto il rispetto per gli altri: le conseguenze sarà il
futuro a mostrarle: e, se andranno nella direzione di un indurimento del cuore,
dell’indifferenza verso chi ci chiede comprensione e aiuto, ben poco ci sarà da
meravigliarsi. Certa è in ogni caso la portata traumatica di esperienze del
genere: nei racconti degli adulti ritornano, con tutta la veemenza di ciò che è
incistato nella mente come nel corpo, episodi dell’infanzia marcati da una muta
sofferenza davanti a un proprio animale maltrattato, abusato, abbandonato da un
genitore, e dal cupo senso di disperazione davanti alla propria impotenza.
Ferite dell’anima, infettate o meno da successive esperienze, ma sempre capaci
di lasciare segni indelebili e di mantenere in vita un dolore pronto a
riesplodere quando i ricordi, ricacciati nel profondo, riemergono perché
sollecitati da qualche circostanza.
L’idea di abbandonare un animale non si
materializza dal nulla
Un docufilm dal titolo più che
emblematico, Not a time for children, Non è un tempo per bambini (e
chi potrebbe negarlo?), riporta interviste in una Ucraina dalle
immense sofferenze storiche, che l’attuale situazione riporta alla luce: una
donna molto anziana nel ripercorrere i ricordi di una vita a partire
dall’inizio della seconda guerra mondiale nel suo paese, parla di tutte le
atrocità viste nel corso della sua storia personale. Ma è nel momento in cui
racconta della fuga della sua famiglia sui carri, mentre il loro cane Rex
cercava faticosamente di seguirli correndo e lei e il fratellino imploravano
inutilmente il padre di portarlo con loro, è in quel momento che una
disperazione incontenibile la invade. Rex viene investito e ferito e piange
sdraiandosi a morire ai lati della strada: settant’anni anni e tanti ignominie
viste dopo, non hanno cancellato la potenza disperante di quell’avvenimento,
inizio della fine di ogni illusione.
Ecco, ciò che la guerra aveva reso
un’esperienza generatrice di una sofferenza devastante per due bambini, vittime
precoci di tanti orrori, oggi si ripete serenamente nella civilissima e
pacifica (?) Italia decine di migliaia di volte in una sola estate, non sulla
scorta di un cataclisma, ma di una ottusa egoistica insofferenza a una
convivenza venuta a noia, al mantra del “liberati da tutto quello che limita
la tua libertà”, inno al diritto all’egocentrismo più sfrenato.
Da quale stordimento della sensibilità
prende forma questa crudeltà? L’abbandono è solo l’ultimo atto di un
rapporto squilibrato, le cui fondamenta affondano in una svilita considerazione
del nonumano: troppo spesso l’uomo, nella sua dilagante concezione
antropomorfa, non riesce a vedere l’animale come soggetto portatore di diritti
da rispettare. Il cane, il gatto, il criceto, il furetto (!), il pitone (!!) e
tutti gli altri, vengono scelti con la superficiale noncuranza che si dedica
alle cose, a cui viene riconosciuto solo un valore monetizzabile: li si
considera poi proprietà personale, come per altro bene indicano gli
appellativi “padrone” o “proprietario” con cui si continua a
designare il proprio ruolo rispetto ad un animale. Se questo è il punto di
partenza, tutto il resto è consequenziale: si è proprietari di cose e, se si
tratta di esseri viventi, di schiavi: delle une e degli altri si fa ciò che si
vuole.
Non è certo un caso che, nella nostra
cultura, gli animali siano mantenuti all’interno di una cornice cognitiva, che
li designa come esseri inferiori, in genere disprezzabili e diffamabili: costringerli in
questa sorta di discarica morale è il mezzo per continuare a fare di loro ogni
sorta di male, senza neppure sentirci in colpa, perché, se sono così
spregevoli, in fondo se lo meritano.
Quindi l’idea di abbandonare un animale
non si materializza dal nulla, ma germoglia come epilogo di una relazione
fortemente stigmatizzabile: altro che affetto quello che prova l’umano in
questione se è vero che il termine affezione parla di quel miscuglio di
emozioni e sentimenti che lega un essere a un altro, fatto di vicinanza,
desiderio di condivisione, attenzione al bene dell’altro che si confonde con il
proprio.
Ricordate quanti animali furono adottati
durante il lockdown?
Se di relazione affettiva si può parlare
si tratta di quella a senso unico, che si muove dal nonumano all’umano e non
viceversa: inimmaginabile l’abbandono dell’uomo, anche del peggiore, da parte
del proprio cane, sempre disposto a seguirlo in ogni situazione, pronto a
trotterellargli al fianco, se mai con un’occhiata interrogativa, subito
inglobata nell’ansia, tradita nel respiro affannoso, nel cuore che batte
all’impazzata, per una sola paura: non farcela a seguirlo.
Il fenomeno è enorme, dal momento che si
parla di 80.000 gatti e 50.000 cani abbandonati ogni anno (poco o nulla si sa
degli altri), a cui si aggiungono tutti i casi di restituzione nei quali ci si prende
invece la briga, per tacitare una coscienza comunque indulgente, di ritornare
al canile, o gattile, di provenienza dove si racconterà di insospettate
allergie, dell’arrivo di un neonato, di insormontabili problemi di salute, di
disastri economici. E si volteranno velocemente le spalle per sottrarsi allo
sguardo giudicante degli operatori e a quello del proprio cane, non sia mai si
possa leggervi dentro una supplica. Dopodiché, problema risolto.
Una menzione speciale merita la
restituzione di animali, cani in primo luogo, adottati nel corso del lockdown
legato al Covid: ad oggi sarebbero oltre 157.000. Il Covid aveva indotto molte
persone, inguaribili ingenui, ottimisti nonostante, buonisti per vocazione, al
mantra consolatorio “Ne usciremo tutti migliori”: non ne siamo ancora usciti, e
una imprevista guerra sta trasformando nel mondo molte persone normali in
assassini per procura di chi decide le sorti del mondo. Ci stiamo abituando
a un report bellico quotidiano in cui la presa di… l’avanzata verso… l’arrivo
di truppe… riempiono le pagine dei giornali che dovrebbero invece essere
occupate dalla denuncia della tragedia di singole vite umane (e animali). No:
non siamo diventati migliori: anzi nel corso del lockdown l’uso strumentale di
altre vite, in questo caso nonumane, si è persino rafforzato: mi sento solo, mi
annoio, ho bisogno del cane per essere autorizzato alla passeggiata quotidiana. Vado
in canile e mi procuro gratis ciò che mi serve, del tutto incurante delle
emozioni e delle illusioni che mobilito nell’altro. Poi in canile ci ritorno e
lì lo lascio.
È grave che ancora non riusciamo a
collegare le singole forme che il male assume: non lo individuiamo in noi, nei
nostri comportamenti, quelli che sono alla nostra portata, che attuiamo senza
sensi di colpa, perché incapaci di riconoscerli come forme diverse di un’unica
ignominia.
I molti volti della violenza
Lo studioso Stephen Pinker dice che se
vogliamo contrastare la violenza, dobbiamo combatterla in tutti i comportamenti
in cui si manifesta: dalle sculacciate ai bambini alla dichiarazione di guerra
tra nazioni. E in tutte le forme di crudeltà contro i nonumani, aggiungo io. O lo facciamo questo
passo di consapevolezza o non arretreremo di un passo dal baratro di immoralità
su cui continuiamo ad affacciarci.
Nessun commento:
Posta un commento