Dal blog https://laveritadininconaco.altervista.org/
Forse ha
ragione Nietzsche, forse la storia è davvero un eterno ritorno dell’eguale.
Negli anni ’50 eravamo una terra di agricoltori diventati operai. Nel giro di
vent’anni gli operai sono diventati impiegati. Il problema sono i figli degli
impiegati, cui era stata promessa la luna di un lavoro creativo, senza
cravatte, gerarchie, noia. E che, complice la crisi economica, si sono
ritrovati, molto più prosaicamente, senza un lavoro. Molti di loro ancora non
si sono rassegnati a cercare il loro personale eldorado nella giungla del
terziario avanzato. Altri, invece, sono tornati al punto di partenza, ai campi
e alla terra: nel 2013, le iscrizioni ai dipartimenti di agraria in tutta
Italia sono aumentate del 40% circa.
Pauperismo,
anti-capitalista? Decrescita felice? Niente di tutto questo. Al contrario, nel
2013, il valore aggiunto dell’agricoltura italiana è cresciuto del 4,7%, mentre
il Pil italiano cadeva di quasi due punti percentuali. Nello stesso periodo,
anche l’export agricolo italiano è cresciuto del 5%. A differenza di quel che è
accaduto in altri settori, questa crescita ha avuto effetti benefici anche
sull’occupazione. Nel secondo trimestre del 2014 – periodo di calo del
Pil, tanto per contestualizzare il dato – l’occupazione del settore agricolo è
cresciuta del 5,6%.
I numeri di
un primato
Dati
sorprendenti, questi, ma non certo frutto di una strana e fortunata
congiunzione astrale. Pochi se ne sono accorti, in questi anni, ma
l’agricoltura è una delle poche vere eccellenze che sono rimaste a questo
paese. Come ben racconta l’ultimo rapporto di Fondazione Symbola dedicato
all’agricoltura, sono ben 77 i prodotti in cui la quota di mercato mondiale
dell’Italia è tra le prime tre al mondo, 23 – pasta, pomodori, aceto, olio,
fagioli, tra questi – in cui è la prima.
La nostra
capacità di primeggiare è figlia, soprattutto, della grande qualità delle
nostre produzioni. Non è un caso, peraltro, che non ci sia agricoltura in
Europa – e poche al mondo – che abbiano una capacità di generare valore
aggiunto quanto quella italiana. Da noi, un ettaro di terra, produce 1989 euro
di valore aggiunto: ottocento euro in più della Francia, il doppio di Spagna e
Francia, il triplo dell’Inghilterra.
Che ci
crediate o meno, la nostra – con le sue 814 tonnellate di gas serra emesse per
ogni milione di euro di prodotto – è anche una delle agricolture più “pulite”
d’Europa. Molto più di quella inglese, ad esempio, che di tonnellate ne emette
1935, o di Germania e Francia, rispettivamente 1.339 e 1.249. È anche una delle
più sicure, nonostante tutto: lo scorso anno, solo lo 0,2% dei prodotti
agricoli made in Italy ha presentato residui chimici con valori oltre la norma.
In Europa questa percentuale è salita all’1%, sino ad arrivare all’1,9% della
Francia e al 3,4% della Germania.
Altro dato
piuttosto sorprendente è la nostra primazia nell’economia delle produzioni
biologiche. Nessun paese Europeo ha tanti produttori quanti ne ha l’Italia, che
ne può contare ben 43.852, il 17% di tutti i produttori europei. Se allarghiamo
lo sguardo oltre i confini continentali, siamo anche sesti al mondo per
ampiezza delle superfici a biologico, che crescono a un ritmo di 70mila ettari
l’anno.
Chiamatela
bioeconomy
Il risultato
di quest’eccellenza è il frutto dell’innesto di menti giovani e di pensieri
innovativi dentro mestieri antichi: oggi, un’azienda agricola su tre è guidata
da persone che hanno meno di trentacinque anni. Non ci sono solo loro e
non c’è solo l’anagrafe, tuttavia. L’intreccio con nuovi saperi e nuove
tecnologie sta davvero cambiando i connotati all’agricoltura: «Un tempo
agricoltura era sinonimo di coltivazioni con finalità alimentari, oggi non è
più così», spiega Gianluca Carenzo, Direttore del Parco Tecnologico di Lodi,
centro di eccellenza nel settore delle biotecnologie e dell’agroalimentare:
«Oggi – continua – l’agricoltura è una piattaforma su cui si innestano
molteplici tipi di industrie, dalla alimentare alla chimica, dall’energia al
tessile».
Ciò di cui
parla Carenzo ha un nome: si chiama bioeconomy e comprende tutte le produzioni
sostenibili di risorse biologiche rinnovabili e la loro conversione, come ad
esempio quella dei flussi di rifiuti in cibo, mangimi, o prodotti bio-based,
come le bioplastiche, i biocarburanti e bioenergia. Un macro-settore, questo,
che seppur neonato in Italia vale già 241 miliardi di euro e occupa 1,6 milioni
di persone. Questo può essere il futuro roseo per il nostro paese,
ritornare su quella strada che in passato ci ha regalato tanto.
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