(intervista di Lorenzo Poli)
Il 24 aprile si è celebrata la Giornata Mondiale dedicata agli animali da laboratorio per ricordare le morti silenziose dei tanti essere senzienti torturati ed uccisi in nome di una cattiva scienza. I motivi non sono solo etici e morali, ma anche filosofici, scientifici e logici. Sperimentazione animale, vivisezioni e metodi sostitutivi nella ricerca scientifica: questi sono i temi che affronta il libro “La vera scienza non usa animali. Good Science versus Bad Science”, uscito per la ricorrenza, edito da Edizioni Oltre e scritto dal divulgatore scientifico Davide Nicastri e dalla psicologa Federica Nin, con contributi di oltre 20 professionisti del mondo biomedico, giuridico e filosofico-etico. Il libro ha la funzione di trasmettere l’idea che il vivisezionismo non è solo un problema riguardante il “benessere animale”, ma un problema di validità scientifica in quanto superato dal concetto di specie-specificità, riconosciuto persino dal Ministero della Salute italiano fin dal 21 settembre 20151. A tal proposito abbiamo intervistato Federica Nin, psicologa impegnata nella critica epistemologica e scientifica dei metodi di ricerca animal-based, oltre ad essere co-fondatrice e segretaria di OSA – Oltre la Sperimentazione Animale, associazione medico-scientifica che da anni informa sui metodi sostitutivi animal-free e segue ricercatori obiettori di coscienza.
Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea nasce dalle domande che ci siamo posti sulla sperimentazione animale
e sul fenomeno storico e attuale della vivisezione. Per esempio, perché la
diversità di cure tra un canarino, un cane e un elefante, non è una differenza
solo di dosi? Perché certi farmaci e sostanze ad uso veterinario che funzionano
per una specie, non vanno bene per un’altra, e addirittura non sono adatte a
tutte le razze di una stessa specie? Perché oltre la metà dei farmaci messi in
commercio e testati su animali presentano gravi effetti collaterali? Perché
capita che farmaci vengano ritirati dal commercio? Perché è pericoloso usare
certi antiparassitari sui gatti mentre vanno bene per i cani? Perché possiamo
mangiare il cioccolato, ma al nostro cane potrebbe risultare fatale? Perché sia
gli esseri umani che i topi hanno il gene che permette al topo di sviluppare la
coda, ma noi non abbiamo la coda? E perché…? E la domanda cruciale: la
sperimentazione su animali è ancora “un male necessario”? A noi non risulta.
Anzi, con le forze schierate in campo a favore della sperimentazione animale, i
denari e le risorse umane impiegate, francamente non si può non stupirsi che
siamo ancora così indietro con la cura e la guarigione di moltissime delle
malattie che ci affliggono. E inoltre ci siamo chiesti perché non diffondere e
favorire nuovi modi di fare il bene degli umani senza passare attraverso il
male degli animali. Così abbiamo deciso di chiedere lumi a rappresentanti del
mondo scientifico e biomedico domandando loro di raccontarci tre cose: come
hanno scoperto l’esistenza della sperimentazione animale e maturato la loro
posizione al riguardo, le informazioni e opinioni che in base alle loro
competenze ed esperienze ritengono importante o utile far conoscere, e secondo
loro a che punto siamo nella strada per il superamento e l’abbandono di questo
metodo, quali siano i passi fondamentali da fare e chi li dovrebbe fare. Poiché
la sperimentazione animale non è solo una questione scientifica, ma anche
giuridica, politica, economica, morale, filosofica, sociale eccetera, abbiamo
pensato di destinare due piccole sezioni anche a testimoni rispettivamente del
mondo giuridico e del mondo filosofico ed etico, rivolgendo loro le medesime
domande.
Il libro nasce anche dal desiderio di rompere quel muro che fa sì che ormai
la maggior parte delle persone sia abituata a sentire parlare delle questioni
etiche derivanti dall’uso di animali non umani nella ricerca biomedica, nei
test della scienza in generale, ma non abbia familiarità col fatto che ci sono
anche problemi scientifici con la pratica: perché questa è Bad science,
cattiva scienza, anche nel senso scientifico, dato che è difficile trasferire
all’uomo i risultati ottenuti su esseri viventi profondamente diversi sul piano
anatomico, fisiologico e, conseguentemente, farmacologico. Lo dimostra il fatto
che gli effetti negativi dei medicinali spesso emergono non durante la
sperimentazione animale, ma in seguito, nel corso dell’impiego medico.
Nonostante tutti gli accorgimenti adottati, un margine d’incertezza permane,
tant’è vero che tutti concordano nel ritenere cruciali non le prove di attività
e sicurezza effettuate sull’animale, bensì la sperimentazione sull’uomo.
Inoltre, i modelli animali sono fuorvianti, perché riproducono i sintomi e le
manifestazioni esteriori delle malattie, non le loro cause. Di conseguenza,
hanno favorito e tuttora consentono solo l’avvento di medicinali sintomatici,
anziché curativi.
Quale giustificazione scientifica hanno la sperimentazione animale e la
vivisezione?
Ci sono motivi pratici, legali, burocratici, economici, finanziari,
storici, politici, culturali, di prassi, di routine… per perseverare con la
sperimentazione animale, ma giustificazioni scientifiche non ce ne sono, o non
ce ne sono più. Il rifiuto di abbandonare questa metodica non è di natura
scientifica bensì è racchiuso e concluso in un vuoto e logoro slogan privo di
argomentazioni scientifiche, che i fautori di questo metodo esprimono con un
loro dogma: “senza i modelli animali il progresso delle scienze si fermerebbe,
essi sono indispensabili perché non c’è modo di sostituirli, altri metodi non
ce ne sono”.
Allora, in primo luogo segnalo, limitandomi a un esempio italiano, che la
mia associazione medico-scientifica, O.S.A -Oltre la Sperimentazione
Animale, ha fatto uscire nel 2019 un libro che ne è pieno: “Le nuove
frontiere della scienza. Modelli sperimentali per la ricerca biomedica del XXI
secolo” edito Aracne. Tra l’altro, data la rapidità del progresso tecnologico
sotto gli occhi di tutti, oggi ve ne sono molti altri ancora, e ogni giorno se
ne aggiungono di nuovi.
In secondo luogo, faccio notare che la storia delle nostre malattie e della
nostra incapacità di trovare cure e soluzioni in grado di sconfiggere le
malattie tuttora incurabili, come molte forme di cancro e le tante malattie
neurodegenerative (come l’Alzheimer, il Parkinson, la Sclerosi Multipla ecc.)
purtroppo dimostrano che la ricerca scientifica è ostacolata e frenata
dall’obbligo di sperimentare sugli animali prima di sperimentare – comunque e
obbligatoriamente – sull’uomo (ci sono quattro fasi di sperimentazione
sull’uomo successive alle prove su animali, ma questo richiederebbe un altro
articolo).
Terzo, tale regola ha motivi storico-politici e non scientifici, che
risalgono a quando il processo di Norimberga portò alla luce i criminali
esperimenti nazisti sugli ebrei e gli altri prigionieri dei lager. Fu in
seguito a ciò, che la richiesta di utilizzare gli animali nella ricerca medica
e tossicologica al fine di tutelare i diritti, la sicurezza e il benessere dei
soggetti umani che partecipano ad una sperimentazione fu formalizzata nel
Codice di Norimberga e successivamente in leggi, codici e dichiarazioni
nazionali e internazionali, fondate a partire dal solo diritto consuetudinario.
Sono passati 75 anni e possiamo comprendere che in quell’epoca non sia
venuto in mente niente di meglio che testare sostanze e terapie sugli animali,
dando per presunto cioè pre-supposto che gli studi animali abbiano un valore
predittivo per l’uomo. Ma è incredibile e inaccettabile che, a fronte degli
avanzamenti tecnologici formidabili che si sono avuti in ogni campo e che si
succedono a ritmi impensabili prima, a fronte dei nuovi modelli interpretativi
del mondo (pensiamo alla fisica quantistica per esempio) ancora ci si
accontenti di una metodologia scientificamente e tecnologicamente sorpassata e
ingiustificata oltre che eticamente riprovevole.
Quelle norme si basano su princìpi scientifici superati, non svolgono
alcuna funzione utile, aumentano i costi di sviluppo dei farmaci, impediscono
la realizzazione di farmaci e terapie altrimenti sicuri ed efficaci, comportano
l’esclusione di sostanze che vengono scartate perché tossiche per gli animali
ma che invece potrebbero essere terapeutiche per gli umani.
Per aderire consapevolmente a questa conclusione, suggerisco la lettura di
un articolo scientifico, dotto ma semplice e illuminante, di Greek, R., Pippus,
e A. & Hansen, L.A, che argomenta e documenta il fatto che Il Codice di
Norimberga, proprio richiedendo l’uso di modelli animali, mina la salute e la
sicurezza umana2.
Le nuove conoscenze e nuove impostazioni epistemologiche, la teoria
dell’evoluzione e la scienza della complessità, hanno grandi ripercussioni
sulla pretesa dell’estrapolazione interspecie.
Ai tempi dei processi di Norimberga nessuno se ne rendeva conto. Prevedere
la reazione di un sistema complesso (che non è a causalità lineare, ovviamente)
basandosi sulla reazione di un altro non è soltanto problematico, è
praticamente impossibile, non dà e non può dare risultati attendibili. Ma
questo è proprio ciò che pretendono di fare gli scienziati quando testano un
farmaco su un topo o una scimmia nel tentativo di valutare quale sarà l’effetto
del farmaco su un essere umano.
Questa critica è diffusa nella letteratura scientifica. Sostanzialmente vi
è un accordo generale sul fatto che le tecnologie predittive saranno quelle
basate sull’uomo, sulla biologia umana. Ma la stranezza è che, dopo aver
spiegato perché i modelli animali non devono essere considerati predittivi3, gli autori si sentono spesso in
obbligo di piazzare un avvertimento alla fine dell’articolo, dove si afferma
che la società dovrebbe tuttavia continuare a sostenere la ricerca sugli
animali. Simili affermazioni, chiaramente in contrasto tra loro, contribuiscono
non poco alla confusione del pubblico circa il valore dei modelli animali. In
aggiunta, anche la profonda variabilità della risposta umana limita le
possibilità predittive dei modelli animali. I medici sanno da tempo che
esistono differenze nella predisposizione alla malattia e nella reazione ai
farmaci tra i gruppi etnici [3-9], tra i sessi [10-14] e persino tra gemelli
monozigoti [15-18].
Ma anche noi dovremmo esserne consapevoli: basta leggere il foglietto
illustrativo di un farmaco, per capire che i suoi effetti sono quasi sempre
diversi addirittura nelle diverse epoche della nostra vita: ai bambini sono di
solito vietate o comunque sconsigliate una grandissima quantità di medicine, e
lo stesso vale per gli anziani. Se su noi stessi il medesimo rimedio
farmacologico ha diversa efficacia a seconda che siamo bambini, adulti,
anziani, e anche uomini oppure donne (vedi “medicina di genere”), come possiamo
credere che siano attendibili e sicuri gli effetti prodotti su animali che sono
lontani e molto diversi da noi?
Dovrebbe bastare questo a far esitare quando si prende in considerazione
l’utilizzo degli animali come modelli per l’uomo: di quali esseri umani si
suppone che l’animale preveda la reazione?
La negazione dei metodi sostitutivi alternativi da parte della stragrande
maggioranza della comunità scientifica può essere definita “ignoranza
epistemologica”?
Anch’io vedo ignoranza epistemologica in quella parte della comunità
scientifica, purtroppo ancora maggioritaria, che si oppone al superamento
dell’uso di animali nella ricerca, vedo disinteresse verso i criteri di verità
nella ricerca scientifica, di validità, di affidabilità, vedo atteggiamenti
condizionati da pregiudizi e da inerzia, un certo qual rifiuto verso
un’attitudine euristica a cercare soluzioni alternative o anche solo ad
adottare quelle esistenti, e anche una ingiustificabile indifferenza all’urgenza
etica di trovare il modo di abbandonare l’uso cosiddetto scientifico di animali
nei laboratori. Chi è abituato a maneggiare topi, scimmie e i vari animali
cavia neanche si informa sui NAM, i Nuovi Approcci Metodologici e trova più
semplice negarne l’esistenza e l’ulteriore progettabilità e realizzabilità. Il
guaio è che se le nuove leve vedranno solo laboratori con animali, e
continueranno a ignorare metodi diversi, in un sistema arcaico
che si autoalimenta. Così, da questa ignoranza non se ne esce.
Non a caso, la tua domanda mi fa pensare specularmente anche all’epistemologia –
anzi, al plurale, le epistemologie – dell’ignoranza: l’analisi
dell’ignoranza condotta negli ultimi anni ha fatto emergere un insieme
multidisciplinare di studi e conoscenze. I cosiddetti Ignorance Studies sono
infatti oggi un fronte di ricerca variegato e in espansione, che sfrutta
collegamenti tra diversi settori accademici. E le Epistemologie
dell’Ignoranza si occupano anche dell’analisi del rapporto tra
ignoranza e conoscenza scientifica. Un tema discusso è per esempio il legame
tra ignoranza e selezione del sapere.
Grande interesse è rivolto non semplicemente ai fattori personali
dell’ignorare, ma a quelli collettivi, prodotti da fattori
culturali e interessi esterni: in tal caso, si studia l’ignoranza non come
fenomeno casuale, bensì l’ignoranza come prodotto di attività
e sforzi collettivi, quella creata socialmente per svariati motivi, a vantaggio
degli interessi economici di particolari agenti. Essa può essere per esempio il
frutto di una conoscenza situata, cioè costruita e sviluppata
all’interno di una prospettiva specifica, e la conoscenza scientifica secondo
l’epistemologa Donna Haraway (19) sarebbe sempre situata. Il
problema rilevato dalla studiosa è la mancanza esplicita di distinzione tra una
prospettiva maggioritaria e una prospettiva obiettiva: questa confusione ha
sostanzialmente permesso di coltivare indifferenza in merito a punti di vista
minoritari e silenzio relativamente ad argomenti di interesse per le minoranze
sociologiche.
Secondo me questa impostazione è utile a valutare anche il rapporto tra la
componente maggioritaria e quella minoritaria della cosiddetta comunità
scientifica in tema di sperimentazione animale.
Orbene sappiamo che è parte della struttura delle scienze l’assunzione di
un punto di vista consensuale (“la comunità scientifica sostiene che…”), ma in
tema di sperimentazione animale il punto di vista della sua presunta
insostituibilità, che viene assunto come pre-supposto al pari di un pre-giudizio
o di un dogma (e non raggiunto attraverso un confronto e un esame
epistemologico), non è scientifico. L’Intersoggettività, pretesa sulla base di
un’adesione acritica come ad un dogma e rivendicata come maggioritaria non è
affatto indice né garanzia di oggettività, così come non lo è la
convenzionalità, ossia la condivisione di convenzioni. Anche in questo campo si
confonde (e si vuole confondere) una prospettiva maggioritaria con una
prospettiva obiettiva. Ma il fatto che una parte maggioritaria di ricercatori
tuttora faccia e difenda sperimentazione animale non trasforma questa in
scienza. Anzi, direi che è contro l’interesse della scienza mettere in ombra o
anche soverchiare le minoranze culturali e, a questo punto aggiungo,
scientifiche.
D’altra parte, davvero ci si può sorprendere che alcune parti interessate
al mantenimento dello statu quo oppongano resistenza al
cambiamento? Stabilire l’utilità o meno della sperimentazione su animali è un
problema cruciale perché l’opinione pubblica sostiene la ricerca animale solo
se favorisce lo sviluppo di farmaci migliori. Di conseguenza, chi ha
convenienza al mantenimento dello statu quo difende gli
esperimenti sugli animali sostenendo fermamente che sono essenziali per
condurre trial clinici sicuri. Non importa se è esattamente il contrario:
proprio la sperimentazione umana immediatamente successiva a quella animale è
la più rischiosa.
Perdonami la domanda provocatoria: se non si sperimenta sugli animali su
cosa si sperimenta?
Ecco, questo libro mira anche a scardinare questa domanda, a cercare di far
cadere quel concetto secondo cui quando la gente ti dice “ma se non sperimenti
sugli animali, allora il replacement, cioè il rimpiazzo del modello
animale, con che cosa lo fai? con che cosa li rimpiazzi? Ecco, bisogna anche
rompere questo meccanismo psicologico secondo il quale la gente si immagina, e
anch’io mi immaginavo alle origini, che si debba trovare un equivalente, cioè:
non lo faccio sull’animale allora su cosa lo faccio l’esperimento? sull’uomo?
su di noi? Sì, è su di noi, ma non nel senso che lo si faccia direttamente
sull’uomo. Non è una questione di rimpiazzare questo con quello alla pari, la
sostituzione la si fa con l’integrazione di più approcci, sia computazionali,
sia biologici sia di varia natura, integrando i quali, e basandosi su cellule
umane non su cellule animali, otteniamo delle risposte predittive per l’uomo in
quanto basate sulla biologia umana. Viceversa, assistiamo all’assurdo di vedere
degli approcci moderni favolosi, vanificati per il fatto che vengono applicati
a cellule animali, alle solite cellule del topo: c’è una mentalità
murinocentrica cioè con il topo al centro della ricerca, che rovina tutto.
Oltre ad essere psicologa, divulgatrice scientifica e scrittrice sei anche
pittrice e la copertina del libro rappresenta un tuo quadro. Cosa rappresenta?
Lo avevo realizzato in un momento di grande solidarietà e partecipazione
per i macachi di Parma e dedicato a loro, rappresenta uno di loro, rappresenta
la mia compassione per la loro sofferenza e la loro miserevole vita nei cinque
anni di sperimentazione cui sono destinati prima della soppressione finale per
esaminarne il cervello, ed esprime anche il mio biasimo per chi assoggetta
queste meravigliose creature, a noi così affini moralmente ma non
biologicamente, con violenza e spietatezza rese strumenti di un tipo di
ricerca, quella neuroscientifica, che inutilmente e quindi con una crudeltà
ancora più ottusa e imperdonabile, pretende di assumere i primati non umani a
modello del cervello e della mente umani. Vorrei che dalla lettura di questo
libro scaturisse una trasformazione o un’aggiunta dell’antico quesito se sia
eticamente corretto infliggere a un altro essere vivente sofferenze a beneficio
dell’uomo. Cioè la domanda deve diventare: è eticamente corretto infliggere a
un altro essere senziente delle sofferenze fine a se stesse, senza che neanche
ne venga alcun beneficio per l’uomo?
1 https://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=null&id=2244
2 Greek, R., Pippus, A. & Hansen, L.A, The
Nuremberg Code subverts human health and safety by requiring animal modeling,BMC
Medical Ethics volume 13,
Article number: 16 (2012) – BMC Med Ethics 13, 16 (2012). https://doi.org/10.1186/1472-6939-13-16
Disponibile anche nella traduzione italiana di Simonetta Frediani: https://fdocumenti.com/document/una-denuncia-esemplare-il-codice-di-animali-complessita-biologica-etica.html?page=8
3 Shanks N, Greek R: Animal Models in Light of
Evolution. 2009, Brown Walker, Boca Raton. Un libro la cui preoccupazione centrale
riguarda il “problema di predizione” nella ricerca biomedica. In particolare,
gli autori esaminano l’uso di modelli animali per prevedere le risposte umane
nella ricerca su farmaci e malattie.
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