mercoledì 31 luglio 2024

Perché l’alghicoltura - Vincent Doumeizel

 

Intervista di Agnese Codignola

In principio erano le alghe. Perché esistono sulla Terra da un miliardo di anni, perché sono le progenitrici di numerose piante terrestri, e perché sono state anche tra i primissimi alimenti degli esseri umani. Ancora oggi sono alla base della vita: forniscono almeno metà dell’ossigeno presente in atmosfera, oltre a essere ineludibili protagoniste degli ecosistemi marini. E pensare che, per diffondersi e prosperare, richiedono solo luce e mare: niente terreno, acqua dolce o fertilizzanti. Crescendo assorbono i gas climalteranti e trattengono il carbonio, l’azoto e il fosforo. In cambio forniscono enormi quantità di nutrienti e oligoelementi come lo iodio o le vitamine, e materie prime per una miriade di applicazioni diversissime, dall’edilizia alla farmaceutica, dall’industria tessile a quella cosmetica. Sono insomma creature versatili e sorprendenti, soprattutto per l’Occidente, dove da secoli vengono relegate a un ruolo di secondo piano.

Laddove le alternative sono meno efficienti, più costose e complesse, le alghe potrebbero presto riprendersi la scena, fornendo soluzioni ai problemi più gravi di un mondo messo a dura prova dal riscaldamento globale. Ci vorrà però del tempo prima che ciò accada perché, proprio per via dello scarso interesse maturato nei loro confronti, ne sappiamo ancora troppo poco, e non siamo pronti a usarle al meglio, a coltivarle e perfino a gestirle dal punto di vista normativo. Ma secondo chi le studia non ci sono dubbi: il mondo di fine secolo sarà plasmato dalle foreste del mare. Ad aprire le porte della ficologia – questo il nome della scienza che studia le alghe – è Vincent Doumeizel, consulente per le tematiche relative agli oceani presso il Global Compact delle Nazioni Unite e a capo della Global Seaweed Coalition, che da anni monitora la sicurezza e la sostenibilità della coltivazione delle alghe.

Ho incontrato Doumeizel in occasione della Ocean Week al Museo di Storia Naturale di Milano per parlare del suo nuovo libro, La rivoluzione delle alghe (Aboca, 2024), che oltre a fornire spunti, storie e informazioni sconosciute ai più, si chiude con una visione: quella di un mondo dove le alghe sono state finalmente prese in considerazione per tutto ciò che possono dare. Lo scenario è un cenone di Capodanno del 2050, nel quale tutto ciò che viene immaginato è plausibile nell’immediato futuro: da un punto di vista negativo per ciò che il riscaldamento del clima potrebbe causare, da quello positivo per le soluzioni che le alghe potrebbero offrire. Una visione per niente cupa, che mostra non solo un futuro possibile, ma anche cosa fare per metterlo in pratica. A cominciare proprio dalle foreste del mare, cui Doumeizel ci invita a tornare.

Le alghe sono creature versatili e sorprendenti, soprattutto per l’Occidente, dove da secoli vengono relegate a un ruolo di secondo piano.

Iniziamo dalle basi, dal momento che in Occidente ci siamo quasi dimenticati della loro esistenza, salvo ricordarcene quando c’è qualche evento negativo come una fioritura eccessiva e il loro arrivo, in massa, sulle spiagge: quante sono le alghe? Come sono fatte? E quanto siamo consapevoli del loro valore?

Le specie di alghe brune, rosse e verdi (parliamo di macroalghe, non di microalghe, che in realtà sono cianobatteri, organismi del tutto diversi) sono circa dodicimila, ma ne conosciamo bene solo poche decine. In genere non hanno radici, ma un rizoide che è solo un supporto meccanico: le tiene ancorate al suolo e non assorbe nutrimenti. Poi c’è lo stipite, simile allo stelo delle piante terrestri, che può crescere anche per diversi metri, e infine la fronda, l’equivalente della foglia, che è spesso la parte che si mangia. Si riproducono in modo sessuale oppure per talea, con una velocità di crescita formidabile, nell’ordine di settimane. E, mentre crescono, assorbono in proporzione più CO2 di qualunque pianta terrestre – CO2 che poi fissano, intrappolandola nel mare. Anche solo per questo varrebbe la pena coltivarle: da sole, potrebbero eliminare molta della CO2 in eccesso in atmosfera. Purtroppo però, siamo ancora indietro: la superficie potenzialmente coltivabile è di 48 milioni di chilometri quadrati, dei quali solamente 2.000 circa sono oggi adibiti a questo scopo. Qualcosa, comunque, sta cambiando: nel 1960, il raccolto globale di alghe non superava i 2,2 milioni di tonnellate. Oggi siamo a 35 milioni, un mercato che vale già 35 miliardi di euro e che arriva per il 98% dall’Asia, dove le alghe occupano da sempre un ruolo centrale nelle culture e nelle diete locali.

All’inizio del libro viene tratteggiata una vicenda affascinante, che ha riscritto la storia antica della presenza umana in Sud America. Ce la racconta? Cosa ci insegna sul nostro rapporto con le alghe?

Nel 1976, a Monte Verde, un luogo a 30 chilometri dalla costa del Cile, una spedizione archeologica trovò in una grotta le ossa di esseri umani risalenti a 14-18.000 anni fa: una datazione che spostava indietro di almeno mille anni l’arrivo dei primi umani nel continente sudamericano. Insieme alle ossa, gli archeologi trovarono i resti di 22 specie di alghe disseccate, sminuzzate e in qualche caso masticate, che quegli umani avevano utilizzato come cibo. Quella grotta era lontana dal mare, e quindi la domanda è: chi erano quegli umani? E perché avevano fatto tanta strada per procurarsi e portarsi dietro le alghe? Negli anni successivi si capì che quei Sapiens erano arrivati prima di 13.000 anni fa, e non dall’Eurasia ma dal Pacifico, spostandosi lungo tutto il continente, dall’estremo Nord fino alla Patagonia, seguendo una sorta di “autostrada delle alghe”. Quei primi umani si erano spostati nutrendosi di alghe, e nel frattempo avevano sviluppato il loro cervello, perché con le alghe assumevano grandi quantità di acidi grassi omega-3, vitamine e minerali preziosi. Le alghe potrebbero perciò aver favorito le grandi migrazioni umane, e lo sviluppo del cervello dei primi ominidi. In fondo, se oggi siamo quello che siamo lo dobbiamo anche, e non poco, alle alghe.

Alghe come cibo, quindi, almeno in origine. Lo sono ancora oggi, ma non dovunque. Solo alcune tradizioni orientali le hanno mantenute al centro dell’alimentazione, perché? Come ci siamo dimenticati delle loro qualità? E perché, invece, dovremmo mangiarle tutti?

I motivi sono storici e culturali, perché a un certo punto, soprattutto dopo lo scambio colombiano e l’arrivo nelle due sponde dell’atlantico di piante nuove e sorprendenti, abbiamo pensato che fosse meglio dedicarci all’agricoltura, piuttosto che alla raccolta in mare. Solo il Giappone, e in misura minore la Cina e alcuni altri paesi asiatici hanno mantenuto le alghe come elemento cruciale della dieta. Tuttavia, gli effetti sulla salute di diete che prevedono il consumo di alghe si vedono proprio in Giappone: tassi di obesità dimezzati rispetto all’Occidente, e vita media molto lunga. Le alghe hanno infatti un profilo nutrizionale ottimo, e questo spiega perché dovremmo tornare a mangiarne molte. Inoltre, anche se fossero solo equivalenti ad altre fonti alimentari, dovremmo comunque coltivarle e farle entrare nelle filiere alimentari, perché il nostro pianeta non dispone di ulteriori terre arabili, accessibili e non sfruttate dall’agricoltura: abbiamo bisogno di alternative più sostenibili. Secondo uno studio del 2015, coltivando solo il 2% degli oceani si potrebbe coprire il fabbisogno proteico dell’intero pianeta. Teniamo presente, tra l’altro, che nessuna alga è tossica, anche se qualcuna ha un sapore o una consistenza che per noi risulta sgradevole (“difetti” che in molti casi possono essere corretti con la giusta lavorazione). Le alghe sono un concentrato di ciò che occorre agli esseri umani per stare bene: alcune hanno fino al 40% di proteine in peso secco (quanto la soia), mentre in genere ne bastano 10 grammi per avere tutto il magnesio necessario in un giorno. Inoltre, contengono la vitamina B12 e lo iodio. E non è tutto: non necessitano del freddo per la conservazione, né della plastica, quando sono disidratate. Quasi tutte, infine, hanno il gusto umami (lo stesso del glutammato di sodio), molto gradito a noi umani. La risposta è tutta qui: sono bombe nutrizionali, e straordinarie fonti di proteine alternative alle carni, e infatti non bisogna esagerare.

Descritte così sembrano alimenti quasi ideali, e quindi la domanda è: che cosa ci impedisce di introdurle nelle nostre diete? In fondo la globalizzazione ci ha abituati a moltissimi alimenti un tempo sconosciuti, ma le alghe restano appannaggio della cucina giapponese. Perché?

I ritardi legati al passato e alle tradizioni culinarie hanno reso la situazione, in Occidente, molto complicata. Non esistono norme uniformi e chiare neppure per la commercializzazione, e coltivare le alghe è spesso difficilissimo, perché ottenere concessioni marine in alcuni paesi è quasi impossibile. Inoltre, proprio perché ci siamo dimenticati di loro, abbiamo trascurato anche gli studi, e ancora oggi ignoriamo molti aspetti della loro fisiologia, soprattutto per quanto riguarda la crescita. Prima di procedere in modo esteso con l’alghicoltura dobbiamo saperne di più, perché dobbiamo assolutamente evitare che una specie coltivata per uno scopo positivo diventi invasiva, generando problemi più grandi di quelli che è chiamata a risolvere. È successo per esempio in Marocco, Madagascar e Cile, e questo ci ha fatto capire che dobbiamo ancora studiare molto. Le alghe, forse perché hanno avuto miliardi di anni per affinare le tecniche di sopravvivenza, trovando il modo di resistere a condizioni che possono diventare proibitive, sono ancora un enigma, e in fondo sono creature anarchiche.

Questo è un aspetto affascinante, in un’epoca in cui gli strumenti a disposizione, per esempio per mappare il genoma, sono sempre più numerosi e potenti. In che senso le alghe sono anarchiche?

Si comportano talvolta in modi imprevedibili e non fanno ciò che ci si aspetta da loro, per esempio per ciò che riguarda la crescita. A volte, pur essendo in condizioni teoricamente ottimali, non crescono, oppure lo fanno quando non dovrebbero, e non sappiamo perché. Sono molto legate alle condizioni del mare, al punto che è difficile farle crescere in zone troppo diverse da quelle di origine, ma non capiamo fino in fondo questo rapporto così intimo: c’è qualcosa che ancora ci sfugge, e che dobbiamo decrittare. Anche il loro linguaggio è un mistero. Le alghe, come le altre piante, comunicano tra loro, lanciano allarmi, chiedono aiuto, ma noi non siamo in grado di comprendere che cosa realmente comunichino, e con quali ripercussioni.

Se riuscissimo a capirle meglio, probabilmente potremmo coltivarle non solo per mangiarle, ma anche per dare una mano al clima, perché la loro fisiologia prevede la fissazione del carbonio. Ma ne varrebbe la pena? Potrebbero fare la differenza?

Assolutamente sì. Senza esagerare, possiamo affermare (sono gli studi a dirlo) che con le alghe potremmo eliminare la CO2 che sta scaldando il clima: alcune specie sono molto più efficienti degli alberi. E non c’è solo la CO2: le alghe potrebbero assorbire molti degli inquinanti che arrivano dall’agricoltura industriale. Basti pensare che un ettaro di alghe può assorbire i composti azotati sparsi su 18 ettari di terra, così come il fosforo usato per fertilizzare 127 ettari di terreni agricoli. Già oggi, con coltivazioni minime, le alghe assorbono 75.000 tonnellate di nitrati e 9.500 di fosfati all’anno. Il ciclo sarebbe del tutto virtuoso: azoto e fosforo verrebbero utilizzati dalle alghe e non provocherebbero eutrofizzazione. Poi, sfruttando quelle stesse alghe, nitrati e fosfati potrebbero essere riciclati come fertilizzanti, o per altri scopi, evitando l’estrazione del fosforo dalle miniere. Per questi motivi non solo ne varrebbe la pena, ma la coltivazione andrebbe incentivata, per esempio istituendo crediti specifici, cioè finanziando la coltura delle alghe con il denaro delle aziende inquinanti. Ci vorrebbe, per questo come per molti altri aspetti, una sessione dedicata dell’ONU, che ancora inspiegabilmente manca, ma che potrebbe essere istituita nei prossimi anni, perché è sempre più evidente che il nostro futuro dipenderà anche dal mare.

Al di là del cibo e del clima, le alghe sono già oggi nella vita quotidiana di tutti noi, per esempio negli additivi alimentari e in materiali usati per gli scopi più diversi. In quali altri modi potrebbero aiutare a curare l’ambiente?

Uno dei grandi problemi del nostro pianeta è la plastica, ormai ubiquitaria e i cui effetti negativi sulla salute umana e sull’ambiente sono sempre più chiari. Non escludo che si arrivi, nei prossimi decenni, a un bando totale. Ma un materiale alternativo, totalmente biodegradabile ed economico ce l’abbiamo già: le alghe. Come dimostra il caso della Notpla, start-up che realizza packaging per alimenti e pellicole per liquidi totalmente biodegradabili, persino edibili: le sue bolle di liquidi sono una delle risposte che le alghe possono fornire al problema della platica, e altre start up e aziende stanno lavorando questo. Per capire quanto potrebbero essere utili, basta ricordare che lo 0,03% di tutte le laminarie (le alghe brune chiamate genericamente kelp) sarebbe sufficiente a rimpiazzare tutta la plastica derivante da idrocarburi.

E poi, da tempi antichissimi, forse proprio dall’epoca di Monte Verde, le alghe curano già gli esseri umani. Oggi che cosa sappiamo delle loro potenzialità terapeutiche?

Ricordiamo, innanzitutto, che alle alghe dobbiamo lo iodio, un minerale fondamentale, e assente in molte zone montuose della Terra. Per quanto possa sembrare assurdo, ancora oggi in 54 Paesi del mondo la popolazione non assume iodio a sufficienza, con gravi ripercussioni sulla salute. Per quelle popolazioni l’estratto secco di alghe potrebbe essere risolutivo. Oltre allo iodio e ad altri minerali come il magnesio, con ogni probabilità, nelle alghe si nascondono centinaia di molecole attive dal punto di vista farmacologico, di cui ne conosciamo solo una minima parte. Sappiamo che alcuni zuccheri complessi come la carragenina hanno proprietà antivirali (sono attivi contro l’HIV, gli herpesvirus e forse SARS-CoV-2), che alcune molecole sono efficaci nella fibrosi cistica, che altre interagiscono positivamente con il microbiota intestinale (sono prebiotici), e conosciamo la loro attività lassativa (le fave di fuca sono alghe), ma si tratta della punta di un iceberg. Moltissimo resta da scoprire, e infatti sono in studio per curare, per esempio, alcune patologie della vista, per i trapianti, per l’Alzheimer e per molto altro.

Le alghe possono avere ricadute anche sociali perché, come si racconta nel libro con diversi esempi, le coltivazioni hanno rappresentato e stanno rappresentando tuttora uno strumento di emancipazione femminile. In che modo?

In alcuni paesi come il Madagascar, in cui la società è ancora oggi fortemente patriarcale, la coltivazione e la raccolta di alghe permettono alle donne di avere un’autonomia anche economica. Teniamo presente che le piccole coltivazioni locali non necessitano quasi di nessuna struttura, a parte qualche corda, ed è dunque possibile avviarne una senza chiedere grandi finanziamenti. Le donne possono contribuire al bilancio familiare dedicandosi a un’attività che è relativamente accettata. Per questo stanno nascendo diversi progetti, in varie zone del mondo, finalizzate alla formazione e al sostegno, attraverso il microcredito. Tra l’altro, alcune delle protagoniste assolute degli studi sulle alghe sono donne: a una di loro, Kathleen Mary Drew Baker, di cui racconto nel libro, il Giappone ha dedicato un tempio, data l’importanza delle sue scoperte, anche se lei, in Giappone, non ci andò mai.

Dicevamo però che le alghe hanno anche un lato oscuro: nelle giuste condizioni crescono troppo, arrivando a far morire aree molto estese di mare, e anche per questo, forse, non sono capite e amate quanto dovrebbero. In quali condizioni diventano invasive? E come si fronteggiano nel modo corretto queste crisi?

Tutti abbiamo esperienza di spiagge ricoperte di alghe morte e maleodoranti, ma quando si verificano fioriture anomale, la causa è sempre da ricercare negli squilibri provocati dagli esseri umani. Prendiamo la Bretagna, una delle regioni con la più grande concentrazione al mondo di allevamenti di maiali: sono stati gli scarichi delle porcilaie a innescare un’esplosione di alghe, e lo stesso si vede anche in diverse zone delle coste baltiche, o alla foce del Rio delle Amazzoni o, nel caso più noto e preoccupante, nel Mar dei Sargassi, che ormai forma un’estesa corrente che va dai Caraibi all’Africa. L’aspetto paradossale è che le stesse alghe, coltivate con intelligenza e nelle giuste condizioni, possono rappresentare una soluzione all’inquinamento dei mari, perché sono imbattibili nel risanamento. In Australia e in altri paesi lo si sta facendo, per proteggere le barriere coralline e per contrastare l’erosione delle coste, ma anche per creare ambienti integrati, per esempio con le pale eoliche offshore. Dobbiamo restaurare il mare, cioè ripristinare degli ecosistemi grazie all’azione riparatrice delle alghe, e imparare a gestirle anche in quelle zone di mare che stanno cambiando profondamente come quelli nordici, sempre più caldi, per prevenire le crisi di eutrofizzazione. E, al tempo stesso, dobbiamo imparare a usare al meglio tutto ciò che possono offrire.

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