lunedì 3 agosto 2020

Eni, il greenwashing è servito - Andrea Turco, Maura Peca



Come la multinazionale energetica usa la propaganda per coprire danni ambientali. In un dossier lo scarto tra realtà e narrazione

Otto anni di condanna e una richiesta di confisca che supera il valore della presunta tangente (oltre un miliardo di euro) che Eni avrebbe pagato per poter sfruttare un giacimento petrolifero in Nigeria nel lontano 2011: sono le richieste del procuratore della repubblica di Milano, Fabio De Pasquale, in quello che è uno dei processi più complicati per l’amministratore delegato Claudio Descalzi, riconfermato dal governo alla guida dell’azienda più importante d’Italia in piena crisi Coronavirus. 
Si torna indietro, come per uno sfortunato lancio di dadi nel gioco dell’oca. Non sono bastate le mosse strategiche del cane a sei zampe per posizionarsi come attore leader nel campo dell’ecologia e della tutela dell’ambiente: il processo in corso a Milano riporta Descalzi al punto di partenza, nella casella nera sporca di petrolio, che poi è anche il settore dal quale proviene. Ma si sa che in questo gioco gli esiti possono essere ribaltati in poco tempo e, proprio per questo, il comparto comunicativo del cane a sei zampe è sempre pronto a gettare nuova vernice verde per edulcorare l’operato dell’azienda e far comparire pomodori rossi e succosi lì dove di fertile e florido c’è ben poco. Il riferimento è alla notizia, diffusa due giorni prima dell’esito giudiziario da Repubblica, sulla ripresa del Circular Tour: si tratta di un progetto nato dalla collaborazione tra Eni e Coldiretti e definito come un viaggio a tappe in alcune delle più suggestive città italiane per raccontare l’importanza di un cambiamento nei nostri modelli di consumo. 
A causa del Covid però il viaggio sarà virtuale. L’unica cittadina che ha avuto la fortuna di accogliere fisicamente l’evento è stata Gela, a fine febbraio. Una città di certo non scelta per la sua suggestività quanto piuttosto per essere sede da decenni degli impianti del cane a sei zampe e che dal 2019 accoglie una «bio» raffineria (le virgolette sono di Eni) alimentata per il momento con olio di palma proveniente dall’Indonesia. In due giorni l’azienda, che ha segnato e segna ancora i destini del territorio nel sud della Sicilia,  ha provato a spiegare l’importanza dell’economia circolare e delle scelte individuali. Tra ammalianti strutture architettoniche, bande musicali, coloratissime cartoline, piante mangia-smog e agriasili: il cibo italiano, insieme a iniziative culturali, d’intrattenimento e di divulgazione scientifica, rappresenta l’energia per mettere in moto nuove abitudini virtuose nelle quali riconoscersi come un’unica comunità. Grazie a laboratori, contenuti multimediali e attività esperienziali, Eni e Coldiretti presentano il cibo come elemento chiave per ricostruire il rapporto tra Uomo e Terra. Di quel cibo diffuso tramite le bancarelle del Mercato Campagna Amica, però, non c’era nulla che provenisse dalle coltivazioni gelesi – più delle lunghe analisi a volte sono i piccoli dettagli a spiegare determinati cortocircuiti. 
Il team comunicativo della multinazionale energetica però riesce sempre a raccontare il lieto fine, anche lì dove il principe alla fine della favola scappa e lascia solo territori da bonificare. Una capacità senza dubbio impressionante, tuttavia giustificata dall’ammontare che Eni destina a tale settore. Secondo i suoi stessi dati, nel 2019 l’azienda ha speso in pubblicità, promozione e attività di comunicazione 73 milioni di euro: per intenderci, circa la metà di quanto Eni prevede di spendere annualmente fino al 2023 in uno dei settori fiore all’occhiello delle pubblicità stesse, ovvero l’economia circolare. Ma la dicotomia tra realtà e narrazione è evidente in tutti i campi. Si pensi ad esempio alle pubblicità presenti in quasi tutti i quotidiani denominate «Eni + Chiara, Luca, Silvia, ecc» il cui focus è raccontare un’altra Eni: più attenta alle questioni climatiche, più green, più circolare. «Energia, solo cambiando il modo di guardare le cose, le cose che guardiamo inizieranno a  cambiare. In Eni oggi trasformiamo gli oli esausti di frittura in componente per produrre biocarburanti avanzati»: così recita lo spot che invita Chiara a usare la macchina il meno possibile in modo tale che insieme, Chiara + Eni, possano fare la differenza. Come se la capacità di incidere del singolo e di una multinazionale che ha chiuso il 2019 con un ricavo di 71 miliardi di euro fosse identica.
Analizzando gli annunci si scopre che gli oli esausti si usano solo per la raffineria di Porto Marghera e che tutte le altre raffinerie italiane, tranne Gela in cui come già detto viene trattato l’olio di palma indonesiano, lavorano ancora prodotti fossili. Inoltre, guardando il sito di Eni in un giorno qualsiasi, nella homepage quasi non c’è traccia di petrolio. Allo stesso tempo le fonti fossili restano il core business dell’azienda: nel 2018 gli investimenti nellʼupstream costituivano il 74% del totale, con un incremento costante della produzione dal 2016 e un ulteriore picco previsto per il 2025. È evidente, di conseguenza, che una delle principali aziende italiane – che opera in 66 paesi, conta 32 mila dipendenti, produce 1,871 milioni di barili di greggio al giorno, vende 73 miliardi di metri cubi di gas all’anno – ha scelto di puntare, nel racconto di sé, su quelli che di fatto possono considerarsi aspetti marginali del business aziendale: progetti sperimentali o piccole produzioni. Un’autonarrazione che non convince, soprattutto alla luce del fatto che in ogni caso le presunte scelte green sono anch’esse collegate alla necessità di massimizzare i profitti e che Eni continua a sottovalutare e a tacere (se non a negare) l’impatto delle proprie attività nei territori in cui opera. 
Ciò è evidente osservando il dossier sul percorso di decarbonizzazione dove viene riportata una sezione che analizza il risk management. In particolare si descrivono i rischi e le opportunità (davvero) connesse al cambiamento climatico. A parte il tipico cinismo capitalista di sfruttare i possibili vantaggi economici che potrebbe comportare una crisi globale, è evidente che si tratta di un’analisi interna rivolta agli azionisti e che non tiene conto delle conseguenze per l’ecosistema nel suo complesso. 
Più in generale il meccanismo di greenwashing permea talmente tanto l’operato dell’azienda che come A Sud abbiamo deciso di affrontare il tema in un dossier specifico chiamato Follow the green e disponibile qui. Abbiamo scelto un’impostazione antitetica: da una parte come Eni si racconta, dall’altra com’è realmente. E spesso, come per i casi riportati, per entrambe le narrazioni i dati e i numeri sono forniti dalla stessa azienda. A contraddire lo storytelling è insomma la stessa impresa. Quando ciò non avviene basta ascoltare le testimonianze delle popolazioni che vivono i territori. Nei comunicati stampa così come nei video su Youtube, negli accattivanti podcast e nelle storie di vita così come nei reportage fotografici ci sono sempre i protagonisti dei progetti in questione. Mai una persona che quei territori li vive a prescindere dal lavoro. 
Sia chiaro: il greenwashing non è esclusivo appannaggio di Eni. Viviamo in un pianeta nel quale chi inquina paga. Non nel senso indicato dalle direttive dell’Unione europea sul principio di responsabilità ambientale, quanto piuttosto in senso opposto. Chi detiene i mezzi economici per attutire e sanare il proprio impatto industriale sceglie invece di sviare l’attenzione, spendendo ingenti somme in operazioni di marketing volte a intercettare le parole d’ordine come economia circolare, sostenibilità e tutela ambientale per farne un vessillo da ostentare. Eni, in questo senso, è una multinazionale tra tante. Però, sarà banale dirlo, è pur sempre un’azienda in cui il socio di maggioranza (relativa) resta lo Stato italiano. Che in questo senso potrebbe promuovere un cambio di rotta reale, deciso e immediato.

*Maura Peca è ricercatrice del Cdca e attivista di A Sud. Andrea Turco, giornalista siciliano, scrive di ciò che serve, di ambiente e di temi sociali. La pubblicazione da cui sono tratte le informazioni e che si cita nel testo è disponibile nel sito di A Sud a questo link. 


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