sabato 28 agosto 2021

Un nuovo paradigma per gli incendi boschivi? - Giuseppe Mariano Delogu

 

Entro il nostro sistema solare la Terra, e probabilmente la Terra sola, è un pianeta di fuoco. Solo sulla Terra infatti sono combinati gli essenziali componenti della combustione. Con i fulmini vi è una pronta sorgente d’ignizione, con l’ossigeno atmosferico un abbondante agente ossidante, con la sostanza organica il combustibile.”

Scrivono così lo storico del fuoco Stephen Pyne, e i suoi colleghi Patricia Andrews e Richard Laven  in un basilare studio sui fuochi in ambienti naturali1[1] e sul loro comportamento nella storia, prima e dopo la comparsa dell’uomo.

E ancora: “Giove, Venere e forse Saturno, Urano, Nettuno, hanno i fulmini. Marte presenta tracce di ossigeno libero, e alcune lune dei pianeti più esterni hanno atmosfere ricche di idrocarburi infiammabili. Ma solo la Terra contiene i componenti essenziali, i processi necessari per mescolarli insieme ed un ambiente adatto alla loro interazione. Infine, come complemento, la Terra possiede anche l’agente estinguente per eccellenza:  l’acqua.”.

 Ancora prima dell’alba dell’uomo, il fuoco c’era già.

Poderose ricerche documentano la forte e prolungata interazione tra il fuoco e la vegetazione, durante la quale, a partire dal Siluriano (circa 430 mln di anni fa, epoca in cui si ritiene che le piante siano uscite dal mare per colonizzare la terraferma), periodi di umidità alternati a periodi di siccità crearono le condizioni predisponenti per l’esplosione dei primi “incendi”, con la loro ciclicità e con la loro diversa intensità.

Le piante, molte di quelle che conosciamo, impararono a convivere con il fuoco. Anzi, con il “regime di fuoco naturale,” in base al quale adottarono soluzioni biologiche di “adattamento” per resistere alle fiamme (il sughero delle querce, la grossa corteccia dei pini) o addirittura per trarre profitto da una combustione totale al fine di dare origine a una nuova generazione del bosco (la serotinia dei pini, cioè l’accumulo in chioma di centinaia di pigne che si aprono tutte insieme dopo lo shock termico e danno origine a nuovi alberelli al posto del loro genitore).

L’uomo trasse profitto dal fuoco, fin dal suo primo differenziarsi dagli altri hominini.

Ma il fuoco non è una invenzione dell’uomo. E’ stato semmai il nostro compagno fedele durante l’evoluzione sociale, la trasmissione della cultura, la nascita della religione, il disegno del nostro spazio vitale, con alterne stagioni passando dalla cultura del raccolto e della caccia a quella agricola, fino ai nostri giorni, in cui viviamo l’epoca che lo stesso Stephen Pyne nel suo libro in uscita a settembre2[2], definisce “Pirocene”, l’età del fuoco.

Questa premessa è necessaria per capire, perché in questi giorni caldi d’agosto pare che l’umanità – quella occidentale soprattutto – abbia scoperto il fuoco come fenomeno sconosciuto, come un nemico che si affaccia nelle nostre case a turbare la tranquillità opulenta delle nostre città (anche durante e nonostante la pandemia, altro fenomeno “sconosciuto” di cui si è già parlato in queste pagine).

Condivido l’analisi di Pyne soprattutto quando racconta del Pirocene come manifestazione non solo della “comparsa del fuoco cattivo”, ma soprattutto della “scomparsa del fuoco buono”, quello “naturale”, quello “primitivo”, quello “agricolo”, che dal Pleistocene fino agli albori dell’età industriale ha modellato i paesaggi del pianeta; quello che dai primi del ‘900 le culture occidentali si sono ostinate ad eliminare come estraneo alla civiltà e alla natura: per fare questo hanno messo in piedi un poderoso complesso militare-tecnologico (in USA, Australia, Russia, Europa) tutto teso a spegnere ogni insorgenza di fuoco.

L’idea consolidata che l’incendio sia estraneo alla natura e, perciò stesso, da combattere in ogni sua manifestazione ha originato quello che chiamiamo “il paradosso di Bambi3[3].

L’esclusione totale del fuoco dagli ecosistemi terrestri da parte dei sistemi emergenziali di lotta e dalle politiche forestali coincide con la conquista dei nuovi territori (il West americano) e la visione delle “miniere di legno” come forma di accumulazione capitalistica per lo sviluppo dell’economia moderna. Esclusione del fuoco da quei territori che per 15.000 anni avevano visto il fuoco “buono” dei nativi americani come strumento per favorire la raccolta dei piccoli frutti del bosco, i tuberi, il pascolo dei grandi mammiferi da cui dipendevano per sopravvivere.

Abbiamo avuto il nostro West anche in Sardegna (ma il fenomeno ha interessato l’intero territorio italiano, soprattutto il Sud), quando la “criminalizzazione” dell’uso del fuoco ha coinciso con l’affermarsi del genocidio culturale dell’economia collettiva, delle terre pubbliche, de “su connotu” (il conosciuto) a favore della privatizzazione delle terre e dell’estrazione del legname sardo per la costruzione delle ferrovie dello Stato unitario.

Non ci sono solo fuoco buono (che manca) e fuoco cattivo (che esplode oggi) a disegnare il “Pirocene”: c’è un terzo aspetto che forse è anche il più importante, dato che si riferisce alle combustioni dei fossili, nascosti per milioni di anni nelle viscere della terra e che l’età industriale, mentre nega i fuochi di superficie, li trasferisce occultamente in atmosfera (con le ciminiere, con i gas di scarico dei mezzi di trasporto), generando l’attuale condizione di riscaldamento globale e di cambio climatico antropico, con i livelli di temperatura e di CO2 e altri inquinanti mai registrati negli ultimi 2000 anni4[4].

Negare la coesistenza con il fuoco “buono” ha creato nuovi tipi d’incendio (che i catalani definiscono di sesta generazione), in grado di interferire con gli strati alti dell’atmosfera, di creare la circolazione planetaria del fumo, di sviluppare immense energie di fronte alle quali nessun apparato tecnologico è in grado di fare fronte5[5].

Aggiungo un altro elemento importante: nel dopoguerra la popolazione rurale si è spostata in ambito urbano, mentre popolazioni “urbane” (prive della cultura rurale) si sono trasferite a vivere in bosco (la falsa l’idea della vita agreste), con insediamenti direttamente a contatto con paesaggi forestali privi di gestione. Ciò ha creato e amplificato, di fatto, situazioni di pericolo che vengono purtroppo affrontate in modo esclusivamente emergenziale (campeggi estivi, insediamenti turistici, parcheggi nella macchia mediterranea etc.) all’esplodere degli eventi.

Gli incendi dell’estate 2021 sono un sintomo, non la causa della grande alterazione dei regimi di fuoco sulla terra. L’estinzione degli incendi è la risposta, ma non è la soluzione. Perché non si interviene alla radice del cambio dei “regimi di fuoco”. Con una organizzazione “militare” sempre più potente di lotta (mezzi aerei di varie categorie, migliaia di uomini e mezzi terrestri impegnati ogni stagione, ampia varietà di modelli organizzativi) sempre più si riesce ad agire su migliaia di piccoli focolai, generando un altro paradosso: più efficiente è la macchina di estinzione più frequentemente si manifestano i grandi incendi forestali di fronte ai quali il sistema collassa (il paradosso dell’estinzione): infatti impedire che il fuoco si propaghi durante condizioni meteorologiche tranquille, causa un accumulo di combustibile che esploderà nelle giornate estreme con elevate temperature, venti forti, umidità relativa ridotta.

Il paradosso dell’estinzione porta ad una strada senza uscita6. Con il cambio climatico gli eventi estremi si presenteranno in modo sempre più intenso e frequente.

Che fare allora? Con gli eventi dell’estate corrente tutto il Mediterraneo è stato duramente colpito; ancora una volta si contano i morti (100!) tra Algeria, Turchia, Grecia, Calabria, Sicilia  e centinaia di feriti ed evacuati.

La risposta contundente e “militare” – pur necessaria in certe situazioni – non risolve le cause e non può alla lunga essere efficace.

Occorre andare alla radice dei problemi, che sono sociali più che tecnologici, sono culturali più che giuridici, sono infine politici, perché attengono a una diversa prospettiva sociale.

Provo a indicare alcuni elementi di riflessione, che sono risultato di tanti anni di studio collettivo e di esperienze dirette sul campo di numerosi ricercatori ed operatori.

  1. Investire nella gestione attiva delle foreste e del territorio rurale: se è vero che gli incendi estremi sono (anche) figli dell’abbandono occorre invertire la rotta: il 40% del territorio italiano è “forestale”; dei fondi del PNRR solo una piccola porzione (meno dell’1%) è previsto vada alla selvicoltura: peccato che si tratti di “foreste urbane” e non di quelle della montagna e collina. Sarebbe cosa buona se i progetti si orientassero alla manutenzione dei boschi, soprattutto di quelli esposti al fuoco e non semplicemente ad abbellire le città.
  2. La competenza in materia di incendi boschivi appartiene alle Regioni; si sente in giro, soprattutto durante questi eventi, un “tintinnar di sciabole” teso a riportare in capo allo Stato la lotta agli incendi. Al contrario occorre che le Regioni, sulla base delle peculiarità territoriali, introducano e gestiscano responsabilmente forme di pianificazione a scale differenti (regionale, comprensoriale, paesaggio, locale) identificando i punti critici su cui attuare azioni concrete di rimozione del pericolo.
  3. Passare dal concetto di “Protezione civile” a quello di “Prevenzione Civile”, sviluppando una consapevolezza del rischio che oggi manca totalmente: non basta predisporre dei piani di protezione civile che sono esclusivamente piani di pronto soccorso: occorre rimuovere il pericolo costituito dalla massa vegetale secca a contatto con gli abitati. E farlo in coerenza con i piani forestali e –simmetricamente – con i piani di prevenzione del rischio idrogeologico.
  4. Costruire territori autoprotetti, che non abbiano bisogno dei Canadair per essere “salvati”: attraverso il ripristino di colture tradizionali (pascolo prescritto, fuoco prescritto, mosaici colturali per interrompere le estese continuità di bosco non gestito.
  5. Ridefinire l’idea di “paesaggio” che spesso viene sacralmente tutelato come un oggetto immutabile e da tenere dentro un reliquario: il paesaggio è tale se è quello “che viene percepito dalle popolazioni” (come recita la Convenzione Europea del Paesaggio siglata a Firenze nel 2000), con i loro usi, consuetudini e bisogni

Un nuovo paradigma: convivere con il fuoco, gestione integrata del fuoco e non semplice lotta attiva. Per questo occorre anche dotarsi di strumenti di analisi del comportamento del fuoco, approfondire le relazioni con le variazioni metereologiche e la topografia, adottare protocolli condivisi di organizzazione e linguaggi operativi comuni, per il necessario raccordo con gli operatori di diversa provenienza (vigili del fuoco, forestali, volontari, squadre locali etc.), protocolli validi sia in fase di lotta attiva esploderà nelle giornate estreme con elevate temperature, venti forti, umidità relativa ridotta.

Il paradosso dell’estinzione porta ad una strada senza uscita7[6]. Con il cambio climatico gli eventi estremi si presenteranno in modo sempre più intenso e frequente.

Che fare allora? Con gli eventi dell’estate corrente tutto il Mediterraneo è stato duramente colpito; ancora una volta si contano i morti (100!) tra Algeria, Turchia, Grecia, sia nelle operazioni preventive di messa in sicurezza del territorio. In questo senso anche il recupero dell’uso comunitario del fuoco per modellare paesaggi resilienti e sicuri è una via da percorrere.

Personalmente considero l’adozione di queste e altre azioni prioritarie come strumento di autodeterminazione delle comunità locali, di crescita culturale, di recupero delle proprie ragioni di coesistenza con il mondo naturale.

Perché sappiamo che “il fuoco è un buon servo ma è un cattivo padrone”.



  • Pyne, Andrews, Laven, 1996, “Introduction to wildland fires”, Wiley, NY.[↩]
  • Pyne, S.,”The Pyrocene How We Created an Age of Fire, and What Happens Next”, University of California Press, 2021.[↩]
  • G.M. Delogu, “Dalla parte del fuoco ovvero il paradosso di Bambi”, ed. il Maestrale, NU, 2013.[↩]
  • IPCC https://www.ipcc.ch/sr15/.[↩]
  • Tedim et al., “Defining Extreme wildfire events: Difficulties, Challenges and Impacts” Fire 2018, 1,9; doi: 10.3390/fire1010009.[↩]
  • https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/B9780128157213000072.[↩]

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