giovedì 26 ottobre 2023

Carceri, le madri detenute sarde senza una casa: «L’unica struttura inaugurata nove anni fa e mai aperta»

(intervista di Alessandra Carta)

Maria Grazia Caligaris, socia-fondatrice dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme": «Nei penitenziari dell’Isola ancora troppa discriminazione verso le donne. Serve assistenza personalizzata, e i malati non devono stare in cella»

 

Un taglio del nastro in pompa magna. Il 18 luglio del 2014. Poi più nulla. A Senorbì, nove anni fa, venne inutilmente inaugurato l'Icam, un istituto a custodia attenuata per madri detenute, uno dei cinque che si contavano in Italia. Sulla carta un faro di civiltà: permettere alle donne di scontare la pena senza separarsi dai figli piccoli e senza obbligarli all'orrore di una vita in cella. Eppure quell'appartamento concesso dall'amministrazione municipale al ministero della Giustizia – quattro camere con bagno più ludoteca, cucina e cortile - è rimasto lungamente inutilizzato. A inizio anno, come certificato dal Rapporto Antigone sulla situazione carceraria nazionale, il Comune di Senorbì l'ha voluto chiedere indietro per strapparlo all'insipienza dello Stato e restituirlo alla comunità locale.

Di Icam parla Maria Grazia Caligaris, ex consigliera regionale del Psi e socia-fondatrice di “Socialismo Diritti Riforme”, l'associazione che dal 2009 lavora nel penitenziario di Cagliari per sostenere i reclusi nei percorsi di recupero.

Con lei, docente di Italiano e Storia in pensione, prosegue l'approfondimento di Unionesarda.it sulle carceri nell'Isola, un focus cominciato con l'intervista alla Garante regionale per i detenuti, Irene Testa.

Professoressa, una storia all'italiana, quella dell'Icam a Senorbì.
«Uno scandalo. Un investimento consistente per una struttura aperta giusto il giorno dell'inaugurazione. Che io, peraltro, ricordo molto bene. Non mancarono l'enfasi e le autocelebrazioni. Ma dei buoni propositi fatti si è perduta ogni traccia».


Oggi nelle strutture penitenziarie della Sardegna ci sono madri con figli?
«Al momento, che ci risulti, nessuna detenuta ha con sé figli minori. Da questo punto di vista c'è stata una grande maturazione da parte delle donne: pur nel dolore della separazione, preferiscono che i figli non vengano coinvolti nella vita detentiva. Per questo, nel 2014, l'apertura dell'Icam a Senorbì sembrò un giusta compensazione nella tutela delle madri private della libertà ed escluse, come tutte le altre donne, dalle colonie penali agricole. Ma a quell'inaugurazione del 2014 non è stato dato seguito».

Conosce i motivi?
«No. Ma se l'assenza di agenti penitenziari può essere prevedibilmente una causa della mancata apertura, resta da capire perché siano stati spesi soldi pubblici».

Donne in cella: qual è la situazione attuale?
«La condizione femminile nelle carceri, tanto in Sardegna quanto nel resto d'Italia, è fondata sulla discriminazione. Nel nostro Paese ci sono appena quattro penitenziari destinati esclusivamente alle donne: tutte le altre detenute sono costrette in piccole sezioni di carceri pensate e costruite a misura di uomini. Vero che la presenza femminile è residuale: in Sardegna le donne sono una quarantina su duemila e passa reclusi. Viaggiamo intorno al due per cento, percentuale che sale al 4 su base nazionale. Ma ciò non deve autorizzare a far venir meno le tutele sui diritti».

Carceri femminili e maschili in cosa differiscono?
«Intanto c'è un problema legato alla cultura. Le donne che finiscono in carcere sono, nella maggior parte dei casi, persone fragili sotto il profilo sociale e psicologico. Hanno figli, spesso in tenera età: vuol dire che vivono con grande sofferenza il distacco da loro e questo le rende ancora più insicure e meno capaci di reagire. Siamo davanti a una situazione di oggettiva difficoltà. Si aggiunga che in linea di massima le donne recluse non hanno commesso reati di grande pericolosità sociale: infatti restano in carcere per poco tempo. Ma questo condiziona l'accesso alle attività di formazione, visto che per raggiungere un buon livello di professionalizzazione i corsi sono pluriennali».

Qual è la conseguenza sotto il profilo della rieducazione?
«Per le donne diventa ancora più difficile emanciparsi, una volta che sono all'esterno. C'è poi il fatto che i lavori offerti all'interno del carcere, e questo vale anche per gli uomini, sono di scarsa qualità, nel senso che non richiedono particolari competenze. Le detenute e i detenuti vengono impiegati in cucina o nella consegna del cibo o a loro è affidata la pulizia degli spazi comuni. Tutti lavori che fanno parte della routine e non offrono chissà quali stimoli sotto il profilo dell'apprendimento. Solo di recente anche per le donne si è aperta la possibilità di un'occupazione grazie all'articolo 21 del Codice penitenziario, sia all'interno che all'esterno delle strutture penitenziarie. Ma sino a poco tempo fa questo sbocco professionale, dedicato proprio a sostenere il lavoro, era pressoché precluso».

I rapporti tra le detenute e le poliziotte come sono?
«Tesi, di norma. Proprio per la grande sofferenza interiore che le donne si portano dietro. Nelle sezioni femminili manca la serenità. Anche con educatrici ed educatori i rapporti sono spesso agitati. C’è una difficoltà nella comunicazione e nell’assunzione di responsabilità».

Tra le recluse ci sono episodi di violenza fisica?
«Violenza fisica no. Però tra loro manifestano una certa difficoltà a socializzare. Tendenzialmente, alla grande capacità di analisi personale le detenute affiancano uno spirito critico verso le altre. Tuttavia non ci sono aggressioni, non mi risulta. Capitano spesso schermaglie verbali che il più delle volte vengono rapidamente sanate».

Violenza psicologica?
«Quando capitano litigi, una detenuta può chiedere il divieto di incontro con l'altra compagna di sezione. Le attività vengono quindi organizzate in modo tale che le due non si vedano né si incrocino».

Come si sopravvive al carcere?
«La società esterna non ha idea di cosa significhi una vita in cella. Anzi: più spesso si pensa che la misura detentiva sia la soluzione. Invece rinchiudere le persone ha un solo risultato: allontanare il problema dallo sguardo dei cittadini. Con questo non voglio dire che i reati debbano restare impuniti, ma non ha senso relegare il disagio sociale dentro quattro mura. Le istituzioni, a tutti i livelli, a partire da quello locale, dovrebbero prestare più attenzione alla situazione carceraria. Anche il Governo sardo, attraverso la Conferenza Stato-Regioni, dovrebbe interessarsi maggiormente al problema: per esempio non viene mai affrontato il tema delle servitù penitenziarie».

In che senso?
«Le colonie penali agricole occupano in Sardegna più di seimila ettari. Una porzione ampia di territorio sulla quale non si avrebbe nulla da dire se ci fossero positive ricadute nel recupero dei detenuti. Invece il loro utilizzo è sempre più limitato e queste strutture di campagna stanno andando in malora. Si sta facendo poco o nulla per assicurare un futuro a colonie penali che sono uno strumento efficace per garantire una ricostruzione personale e professionale a chi ha sbagliato».

Lei in carcere quante volte a settimana va?
«Nella nostra associazione “Socialismo Diritti Riforme” ci alterniamo in sei. Garantiamo la nostra presenza sia nella sezione maschile che in quella femminile. Quando facciamo attività di mattina, ci siamo dalle 9 alle 12, ora in cui servono il pranzo. I pomeriggi iniziamo alle 15 e finiamo alle 17».

Su che progetti state lavorando?
«Abbiamo attivato un corso di scrittura creativa: prevede la pubblicazione di un volume in cui le detenute sono protagoniste. Loro scrivono e noi rivediamo i testi. In più verrà realizzato un murale, sempre legato alla creatività. Le detenute sono impegnate anche nella produzione di piccoli oggetti, destinati poi alla vendita, così potranno avere qualche euro da utilizzare all'interno del carcere. Inoltre attraverso la maestra Alma Piscedda, tutti i sabati mattina abbiamo attivato un corso di ricamo, sempre nella sezione femminile. Sarà poi nostra cura promuovere all'esterno i manufatti realizzati».

Già, i soldi del vitto e dell'alloggio. In carcere non si mangia e beve gratis.
«Decisamente no. Ciascun detenuto deve pagare una quota di quattro euro al giorno. E se una persona non ha i soldi, si porta il debito fuori, una volta che lascia il carcere».

Ovviamente trattandosi quasi sempre di nullatenenti e nullafacenti, lo Stato non li porta in tribunale.
«In ogni caso, quel debito, almeno sulla carta, va rifondato. Non solo: noi chiediamo in continuazione all'Amministrazione penitenziaria di garantire un cibo il più possibile adeguato, perché ci sono detenuti che non hanno un euro e mangiano solo quello che passa l’amministrazione. Anche perché il sopravvitto costa parecchio».

Per chiarezza: il sopravvitto sono gli acquisti che i detenuti possono fare nello spaccio del penitenziario. C'è un addetto che raccoglie gli ordini.

«Il sopravvitto andrebbe abolito, per quel che mi riguarda».


Perché?
«Crea discriminazione. Chi non ha soldi, non può comprarsi nulla. Incide anche nei rapporti di forza all'interno delle celle, perché la persona a cui vengono comprate cose da un altro detenuto, magari si sente in debito. Io sono per garantire a tutti una qualità di cibo migliore, in questo modo si assicura lo stesso trattamento a tutti i detenuti e a tutte le detenute».

A Uta il cibo non è di qualità?
«Non mi permetto di dire questo. Anche perché il controllo sui pasti passa da una commissione di cui fanno parte pure i reclusi. Tuttavia, considerando che lo Stato taglia di continuo la spesa e i prezzi aumentano, anche gli acquisti delle carceri ne risentono. Succede a ogni famiglia. Ci sono comunque misure dignitose: per esempio, durante il Ramadan i detenuti di fede musulmana possono mangiare dopo il tramonto. Anche in un orario diverso rispetto agli altri».

Chi cucina per i detenuti?
«Loro stessi».

Per i malati?
«Per i ricoverati nel Servizio di assistenza intensiva, ai pasti provvede la Asl».

Come associazione di volontariato avete modo di raccogliere eventuali proteste da parte dei detenuti?
«Certo. Facciamo da tramite anche con gli avvocati. Lavoriamo insieme agli educatori, coi quali ci confrontiamo sulle attività da svolgere. Lo stesso facciamo con i medici, quando ci sono problematiche di carattere sanitario. Continuamente ci rapportiamo con il direttore. Il nostro obiettivo è dare un contributo a chi già lavora nel carcere, incluse gli agenti e i mediatori culturali».

Sull'assistenza sanitaria in carcere quante lamentele vi arrivano?
«Parecchie. La sanità è in crisi fuori dai penitenziari, ovvio che all'interno le carenze si fanno sentire in maniera molto più forte. Per fare una visita, i detenuti devono passare dal Cup (Centro unico di prenotazione) e avere l'autorizzazione dal Tribunale di sorveglianza. Poi devono essere accompagnati dagli agenti. L'approccio alle cure è molto complesso. Nelle carceri ci sono medici interni come gli psichiatri. Ma a Uta, per dire, manca il dermatologo».


Un caso limite?
«Da oltre un anno un detenuto con un grave problema odontoiatrico che deve subire un intervento ricostruttivo ma l'attesa sta durando a lungo. Significa che questa persona da più di dodici mesi deve limitarsi fortemente nel mangiare. Le sue condizioni fisiche non sono buone. A Uta ci sono anche gravi problematiche legate alla dermatologia».

Quanti anni ha questo detenuto?
«È sulla quarantina. Purtroppo non è l'unico caso. Torniamo sempre lì: la nostra società ha una visione carcerocentrica, si pensa che i penitenziari siano la panacea della delinquenza. Invece servirebbe un'assistenza carceraria personalizzata: non mi stancherò mai di dire che i detenuti non possono essere trattati per grandi categorie. Le persone in sofferenza psichiatrica e i tossicodipendenti in una cella non ci dovrebbero stare. Ma le strutture a loro destinate mancano e sono del tutto insufficienti. Sul carcere vengono scaricati troppi problemi, non è da lì che passa la costruzione di una società migliore»...

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