(intervista di Alessandra Carta)
Maria Grazia Caligaris, socia-fondatrice dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme": «Nei penitenziari dell’Isola ancora troppa discriminazione verso le donne. Serve assistenza personalizzata, e i malati non devono stare in cella»
Un taglio
del nastro in pompa magna. Il 18 luglio del 2014. Poi più nulla. A Senorbì,
nove anni fa, venne inutilmente inaugurato l'Icam, un istituto a
custodia attenuata per madri detenute, uno dei cinque che si contavano in
Italia. Sulla carta un faro di civiltà: permettere alle donne di scontare la
pena senza separarsi dai figli piccoli e senza obbligarli all'orrore di una
vita in cella. Eppure quell'appartamento concesso dall'amministrazione
municipale al ministero della Giustizia – quattro camere con bagno più
ludoteca, cucina e cortile - è rimasto lungamente inutilizzato. A inizio anno,
come certificato dal Rapporto Antigone sulla situazione carceraria nazionale, il
Comune di Senorbì l'ha voluto chiedere indietro per strapparlo all'insipienza
dello Stato e restituirlo alla comunità locale.
Di Icam
parla Maria Grazia Caligaris, ex consigliera regionale del Psi e
socia-fondatrice di “Socialismo Diritti Riforme”, l'associazione che dal 2009
lavora nel penitenziario di Cagliari per sostenere i reclusi nei percorsi di
recupero.
Con lei,
docente di Italiano e Storia in pensione, prosegue l'approfondimento di
Unionesarda.it sulle carceri nell'Isola, un focus cominciato con l'intervista alla Garante
regionale per i detenuti, Irene Testa.
Professoressa, una storia all'italiana, quella dell'Icam a Senorbì.
«Uno scandalo. Un investimento consistente per una struttura aperta giusto il
giorno dell'inaugurazione. Che io, peraltro, ricordo molto bene. Non mancarono
l'enfasi e le autocelebrazioni. Ma dei buoni propositi fatti si è perduta ogni
traccia».
Oggi nelle strutture penitenziarie della Sardegna ci sono madri con figli?
«Al momento, che ci risulti, nessuna detenuta ha con sé figli minori. Da questo
punto di vista c'è stata una grande maturazione da parte delle donne: pur nel
dolore della separazione, preferiscono che i figli non vengano coinvolti nella
vita detentiva. Per questo, nel 2014, l'apertura dell'Icam a Senorbì sembrò un
giusta compensazione nella tutela delle madri private della libertà ed escluse,
come tutte le altre donne, dalle colonie penali agricole. Ma a
quell'inaugurazione del 2014 non è stato dato seguito».
Conosce i motivi?
«No. Ma se l'assenza di agenti penitenziari può essere prevedibilmente una
causa della mancata apertura, resta da capire perché siano stati spesi soldi
pubblici».
Donne in cella: qual è la situazione attuale?
«La condizione femminile nelle carceri, tanto in Sardegna quanto nel resto
d'Italia, è fondata sulla discriminazione. Nel nostro Paese ci sono appena
quattro penitenziari destinati esclusivamente alle donne: tutte le altre
detenute sono costrette in piccole sezioni di carceri pensate e costruite a
misura di uomini. Vero che la presenza femminile è residuale: in Sardegna le
donne sono una quarantina su duemila e passa reclusi. Viaggiamo intorno al due
per cento, percentuale che sale al 4 su base nazionale. Ma ciò non deve
autorizzare a far venir meno le tutele sui diritti».
Carceri femminili e maschili in cosa differiscono?
«Intanto c'è un problema legato alla cultura. Le donne che finiscono in carcere
sono, nella maggior parte dei casi, persone fragili sotto il profilo sociale e
psicologico. Hanno figli, spesso in tenera età: vuol dire che vivono con grande
sofferenza il distacco da loro e questo le rende ancora più insicure e meno
capaci di reagire. Siamo davanti a una situazione di oggettiva difficoltà. Si
aggiunga che in linea di massima le donne recluse non hanno commesso reati di
grande pericolosità sociale: infatti restano in carcere per poco tempo. Ma
questo condiziona l'accesso alle attività di formazione, visto che per
raggiungere un buon livello di professionalizzazione i corsi sono pluriennali».
Qual è la conseguenza sotto il profilo della rieducazione?
«Per le donne diventa ancora più difficile emanciparsi, una volta che sono
all'esterno. C'è poi il fatto che i lavori offerti all'interno del carcere, e
questo vale anche per gli uomini, sono di scarsa qualità, nel senso che non
richiedono particolari competenze. Le detenute e i detenuti vengono impiegati
in cucina o nella consegna del cibo o a loro è affidata la pulizia degli spazi
comuni. Tutti lavori che fanno parte della routine e non offrono chissà quali
stimoli sotto il profilo dell'apprendimento. Solo di recente anche per le donne
si è aperta la possibilità di un'occupazione grazie all'articolo 21 del Codice
penitenziario, sia all'interno che all'esterno delle strutture penitenziarie.
Ma sino a poco tempo fa questo sbocco professionale, dedicato proprio a
sostenere il lavoro, era pressoché precluso».
I rapporti tra le detenute e le poliziotte come sono?
«Tesi, di norma. Proprio per la grande sofferenza interiore che le donne si
portano dietro. Nelle sezioni femminili manca la serenità. Anche con educatrici
ed educatori i rapporti sono spesso agitati. C’è una difficoltà nella
comunicazione e nell’assunzione di responsabilità».
Tra le recluse ci sono episodi di violenza fisica?
«Violenza fisica no. Però tra loro manifestano una certa difficoltà a
socializzare. Tendenzialmente, alla grande capacità di analisi personale le
detenute affiancano uno spirito critico verso le altre. Tuttavia non ci sono
aggressioni, non mi risulta. Capitano spesso schermaglie verbali che il più
delle volte vengono rapidamente sanate».
Violenza psicologica?
«Quando capitano litigi, una detenuta può chiedere il divieto di incontro con
l'altra compagna di sezione. Le attività vengono quindi organizzate in
modo tale che le due non si vedano né si incrocino».
Come si sopravvive al carcere?
«La società esterna non ha idea di cosa significhi una vita in cella. Anzi: più
spesso si pensa che la misura detentiva sia la soluzione. Invece rinchiudere le
persone ha un solo risultato: allontanare il problema dallo sguardo dei
cittadini. Con questo non voglio dire che i reati debbano restare impuniti, ma
non ha senso relegare il disagio sociale dentro quattro mura. Le istituzioni, a
tutti i livelli, a partire da quello locale, dovrebbero prestare più attenzione
alla situazione carceraria. Anche il Governo sardo, attraverso la Conferenza
Stato-Regioni, dovrebbe interessarsi maggiormente al problema: per esempio non
viene mai affrontato il tema delle servitù penitenziarie».
In che senso?
«Le colonie penali agricole occupano in Sardegna più di seimila ettari. Una
porzione ampia di territorio sulla quale non si avrebbe nulla da dire se ci
fossero positive ricadute nel recupero dei detenuti. Invece il loro utilizzo è
sempre più limitato e queste strutture di campagna stanno andando in malora. Si
sta facendo poco o nulla per assicurare un futuro a colonie penali che sono uno
strumento efficace per garantire una ricostruzione personale e professionale a
chi ha sbagliato».
Lei in carcere quante volte a settimana va?
«Nella nostra associazione “Socialismo Diritti Riforme” ci alterniamo in sei.
Garantiamo la nostra presenza sia nella sezione maschile che in quella
femminile. Quando facciamo attività di mattina, ci siamo dalle 9 alle 12, ora
in cui servono il pranzo. I pomeriggi iniziamo alle 15 e finiamo alle 17».
Su che progetti state lavorando?
«Abbiamo attivato un corso di scrittura creativa: prevede la pubblicazione di
un volume in cui le detenute sono protagoniste. Loro scrivono e noi rivediamo i
testi. In più verrà realizzato un murale, sempre legato alla creatività. Le
detenute sono impegnate anche nella produzione di piccoli oggetti, destinati
poi alla vendita, così potranno avere qualche euro da utilizzare all'interno
del carcere. Inoltre attraverso la maestra Alma Piscedda, tutti i sabati
mattina abbiamo attivato un corso di ricamo, sempre nella sezione femminile.
Sarà poi nostra cura promuovere all'esterno i manufatti realizzati».
Già, i soldi del vitto e dell'alloggio. In carcere non si mangia e beve
gratis.
«Decisamente no. Ciascun detenuto deve pagare una quota di quattro euro al
giorno. E se una persona non ha i soldi, si porta il debito fuori, una volta
che lascia il carcere».
Ovviamente trattandosi quasi sempre di nullatenenti e nullafacenti, lo
Stato non li porta in tribunale.
«In ogni caso, quel debito, almeno sulla carta, va rifondato. Non solo: noi
chiediamo in continuazione all'Amministrazione penitenziaria di garantire un
cibo il più possibile adeguato, perché ci sono detenuti che non hanno un euro e
mangiano solo quello che passa l’amministrazione. Anche perché il sopravvitto
costa parecchio».
Per chiarezza: il sopravvitto sono gli acquisti che i detenuti possono fare
nello spaccio del penitenziario. C'è un addetto che raccoglie gli ordini.
«Il
sopravvitto andrebbe abolito, per quel che mi riguarda».
Perché?
«Crea discriminazione. Chi non ha soldi, non può comprarsi nulla. Incide anche
nei rapporti di forza all'interno delle celle, perché la persona a cui vengono
comprate cose da un altro detenuto, magari si sente in debito. Io sono per
garantire a tutti una qualità di cibo migliore, in questo modo si assicura lo
stesso trattamento a tutti i detenuti e a tutte le detenute».
A Uta il cibo non è di qualità?
«Non mi permetto di dire questo. Anche perché il controllo sui pasti passa da
una commissione di cui fanno parte pure i reclusi. Tuttavia, considerando che
lo Stato taglia di continuo la spesa e i prezzi aumentano, anche gli acquisti
delle carceri ne risentono. Succede a ogni famiglia. Ci sono comunque misure
dignitose: per esempio, durante il Ramadan i detenuti di fede musulmana possono
mangiare dopo il tramonto. Anche in un orario diverso rispetto agli altri».
Chi cucina per i detenuti?
«Loro stessi».
Per i malati?
«Per i ricoverati nel Servizio di assistenza intensiva, ai pasti provvede la
Asl».
Come associazione di volontariato avete modo di raccogliere eventuali
proteste da parte dei detenuti?
«Certo. Facciamo da tramite anche con gli avvocati. Lavoriamo insieme agli
educatori, coi quali ci confrontiamo sulle attività da svolgere. Lo stesso
facciamo con i medici, quando ci sono problematiche di carattere sanitario.
Continuamente ci rapportiamo con il direttore. Il nostro obiettivo è dare un
contributo a chi già lavora nel carcere, incluse gli agenti e i mediatori
culturali».
Sull'assistenza sanitaria in carcere quante lamentele vi arrivano?
«Parecchie. La sanità è in crisi fuori dai penitenziari, ovvio che all'interno
le carenze si fanno sentire in maniera molto più forte. Per fare una visita, i
detenuti devono passare dal Cup (Centro unico di prenotazione) e avere
l'autorizzazione dal Tribunale di sorveglianza. Poi devono essere accompagnati
dagli agenti. L'approccio alle cure è molto complesso. Nelle carceri ci sono
medici interni come gli psichiatri. Ma a Uta, per dire, manca il dermatologo».
Un caso limite?
«Da oltre un anno un detenuto con un grave problema odontoiatrico che deve
subire un intervento ricostruttivo ma l'attesa sta durando a lungo. Significa
che questa persona da più di dodici mesi deve limitarsi fortemente nel
mangiare. Le sue condizioni fisiche non sono buone. A Uta ci sono anche gravi
problematiche legate alla dermatologia».
Quanti anni ha questo detenuto?
«È sulla quarantina. Purtroppo non è l'unico caso. Torniamo sempre lì: la
nostra società ha una visione carcerocentrica, si pensa che i penitenziari
siano la panacea della delinquenza. Invece servirebbe un'assistenza carceraria
personalizzata: non mi stancherò mai di dire che i detenuti non possono essere
trattati per grandi categorie. Le persone in sofferenza psichiatrica e i
tossicodipendenti in una cella non ci dovrebbero stare. Ma le strutture a loro
destinate mancano e sono del tutto insufficienti. Sul carcere vengono scaricati
troppi problemi, non è da lì che passa la costruzione di una società migliore»...
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