Immaginate di vivere in un Paese dotato di una robusta struttura industriale. Senza esagerare con l’immaginazione, niente di fantascientifico. Non stiamo parlando di giganti della moderna tecnologia come NASA, Apple o Google, né di aziende in grado di realizzare fatturati multimiliardari. Parliamo di un tessuto di unità produttive di dimensioni piccole e medie, animate da imprenditori competenti e ingegnosi. Imprese a volte molto innovative, ma anche fragili. Non di rado sottocapitalizzate. Magari bisognose di protezione per crescere e consolidarsi, ma in ogni caso un tessuto industriale in grado di garantire un contributo rilevante all’occupazione e di permettere alla gran parte della popolazione di vivere dignitosamente.
Un giorno
arrivano in visita alcuni pezzi grossi delle principali istituzioni di governance continentale,
con al seguito economisti e banchieri di fama mondiale. Si fanno un giro di
perlustrazione, raccolgono dati, fanno un po’ di calcoli e alla fine sputano
un’infausta diagnosi. Vi dicono che impiegate male le vostre risorse. «State
sbagliando strada, non è così che vi arricchirete». A voi, che per la verità
nei trenta anni precedenti vi siete arricchiti molto senza alcun bisogno dei
loro consigli, ma che per motivi misteriosi coltivate da tempo un profondo
complesso di inferiorità, non sembra vero di avere l’occasione per farvi
spiegare dal Gotha della politica e della finanza
internazionale che cosa è meglio per voi.
I vostri
blasonati ospiti vi spiegano che l’industria non è la vostra vocazione
produttiva, che dovete lasciarla fare a chi la sa e può fare meglio.
Potreste
vivere di rendita grazie alle spiagge, ai musei e ai siti archeologici
disseminati nel Paese, perché trascorrere le vostre vite in quelle officine
grigie, dove si respira l’odore acre delle vernici tossiche e dove la tenuta
dei vostri timpani è continuamente minacciata dallo sferragliare degli
ingranaggi delle catene di montaggio? Tra i tanti generosi consigli che vi
danno, i vostri ospiti vi dicono anche, en passant, che non c’è
motivo di avere tanti dipendenti pubblici. Che dovete fare con tutto questo
apparato capillare di fornitura di servizi disseminato sul territorio? Non ne
avete alcun bisogno. Il paesaggio e le bellezze artistiche sono i vostri
giacimenti di petrolio, basterà «metterli a valore» per garantirvi la pensione.
Qualcuno, un po’ spaventato, propone qualche timida obiezione. «Ma l’assistenza
sanitaria? E il trasporto pubblico?» Ma i vostri ospiti sanno come
rassicurarvi. Dai, non preoccupatevi, avrete tanti di quei soldi che potrete
curarvi nelle migliori cliniche private svizzere e potrete andare tutti in giro
in Mercedes. Smettetela di immaginare il vostro futuro come una monotona routine scandita
dal salire e scendere dagli autobus, dal timbrare il cartellino in fabbrica o
dall’accumularsi di pratiche inevase sulla scrivania del vostro ufficio.
Sarete imprenditori del tempo libero, farete una vita più dinamica
e più gratificante.
Immaginate
che finiscano per convincervi e che quindi, nei trenta anni seguenti, il vostro
Paese venga attraversato da un processo di radicale riconversione strutturale.
Immaginate che smantellare l’industria, tagliare il settore pubblico e riallocare
le risorse liberate nel settore turistico diventino le parole d’ordine di
imprenditori, banchieri, politici e giornalisti. Che i proprietari di immobili
nelle città d’arte e nei borghi medievali li ristrutturino per farne B & B
e vadano ad abitare in provincia. Che una folla di dipendenti pubblici alle
porte della pensione spenda qualche migliaio di euro per dare una sistematina
al casolare in collina ereditato dal nonno contadino e farne un agriturismo o
una Country House. Che qualcuno si licenzi dalla fabbrica in cui
lavora e investa la liquidazione per mettere su uno stabilimento balneare, che
qualcun altro venda la propria piccola ma redditizia industria per investire in
un ristorante o in un albergo in una location dotata di una
certa attrattività turistica. Insomma, immaginate che nel giro di una ventina
d’anni gran parte delle energie imprenditoriali, delle forze di lavoro e degli
immobili venga spostata dall’industria e dal settore pubblico alle attività
della cosiddetta “filiera turistica”.
Se adesso
aprite gli occhi e vi guardate intorno, vedrete davanti a voi il risultato di
quell’imponente sforzo di riallocazione produttiva. Se avete la sensazione che
non assomigli molto al quadretto idilliaco che i vostri “consulenti” avevano
tratteggiato trenta anni prima, sinceramente farei fatica a darvi torto. Sì,
certo, i musei e i siti archeologici sono stracolmi, nelle città d’arte è
difficile trovare un buco per passarci la notte, però l’occupazione si è
ridotta, il lavoro è precario e sottopagato, la pensione è una chimera, i
trasporti pubblici si sono estinti, dell’assistenza sanitaria meglio non
parlare. La sensazione diffusa è che qualcosa sia andato storto. Come mai?
Beh, la
verità è che non c’erano motivi seri per credere che le cose potessero andare
diversamente. Non esiste infatti un solo Paese al mondo che abbia ottenuto un
aumento significativo della ricchezza della propria comunità smantellando
l’industria e investendo in musei, siti archeologici e spiagge. Quel quadretto
idilliaco era stato dipinto volando sulle ali della più pura immaginazione,
senza il riscontro né di una regolarità storica, né di qualche – magari anche
singolare – esperimento di successo. Avete rivoltato il Paese come un calzino
solo sulla base del consiglio di presunti “esperti”, senza lo straccio di un
precedente e senza lasciare alcuno spazio alle (poche) voci scettiche.
La verità è
che ci sono ragioni profonde se i Paesi che si specializzano nelle attività
della filiera turistica ottengono in genere performance economiche
non brillantissime, ragioni che hanno a che fare proprio con le peculiarità
intrinseche di quel settore produttivo. Per chiarire la questione, può essere
utile mettere a fuoco gli aspetti principali che differenziano il settore
turistico dall’industria, settore che storicamente ha fatto da catalizzatore di
tutte le più significative esperienze di sviluppo economico. La caratteristica
che distingue più profondamente le attività manifatturiere dalle attività della
filiera turistica è l’andamento dei costi medi di produzione delle merci al
variare della scala di produzione. Le attività manifatturiere sono
caratterizzate da quelli che gli economisti chiamano rendimenti
crescenti di scala: in parole semplici, all’aumentare della scala di
produzione tende a ridursi il costo di produrre unità addizionali di merci.
Le cause di
questo fenomeno sono variegate: in primo luogo, l’aumento della scala di
produzione consente di ripartire i costi degli impianti (che, di solito, nel
settore manifatturiero sono di dimensioni ingenti) su un numero via via
maggiore di prodotti, e quindi ne riduce l’incidenza su ogni singola unità di
merce; in secondo luogo, con l’aumento della scala di produzione, aumenta la
convenienza ad approfondire la divisione del lavoro interna alla
singola unità produttiva e tra le diverse unità produttive,
consentendo significativi incrementi della produttività del lavoro (effetto
Smith); in terzo luogo, con l’aumento della scala di produzione, aumenta la
frequenza con cui un’impresa è costretta a confrontarsi con problemi di natura
tecnica od organizzativa, e quindi maggiore è lo stimolo alla ricerca di
soluzioni innovative a quei problemi (learning by doing).
Il cumularsi
di questi fenomeni determina una sistematica tendenza dei costi unitari a
ridursi con la crescita della produzione, dando vita a molteplici dinamiche
virtuose. In primo luogo, le unità produttive che godono di questo vantaggio,
possono competere aggressivamente sui mercati e conquistarne quote di
dimensione via via maggiore. A sua volta, l’aumento dei volumi di produzione
reso possibile dai successi competitivi contribuisce a comprimere ulteriormente
i costi unitari, consentendo ulteriori aumenti delle quote di mercato. Inoltre,
l’aumento della produttività permette alle imprese di concedere aumenti dei
salari senza dover comprimere i propri margini di profitto, il che garantisce
anche ad altri settori produttivi di poter contare su una domanda di merci
sistematicamente crescente. Le connessioni virtuose tra le imprese si infittiscono,
permettendo ulteriori aumenti di produttività, e così via.
In sintesi,
l’elemento caratterizzante questo processo è il fatto che la crescita
dimensionale dell’industria non la porti mai a incontrare il limite della
scarsità di risorse. Al contrario, la crescita dimensionale crea continuamente
nuovi serbatoi di risorse a cui attingere, e quindi amplia continuamente le
possibilità di espansione. Purtroppo, questa caratteristica virtuosa è invece
assente nelle attività della cosiddetta filiera turistica. In questo settore di
attività, al contrario, la produzione è tipicamente caratterizzata da rendimenti
decrescenti di scala: in parole semplici, la crescita della scala di
produzione si traduce, presto o tardi, in ostacoli a ulteriori espansioni.
Questa peculiarità dipende fondamentalmente dall’esistenza di vincoli
ineludibili alla disponibilità di risorse.
Facciamo un
esempio banale. Immaginiamo che il Comune di Ravello disponga di una
ricettività turistica corrispondente a 500 posti. Se un giorno 500 turisti
desiderano recarsi in visita ai giardini della deliziosa cittadina della
costiera amalfitana, si può quindi essere ragionevolmente fiduciosi nel fatto
che tutti costoro troveranno una camera per pernottarvi e un ristorante dove
mangiare un boccone. Ma adesso immaginiamo che, il giorno successivo, a voler
visitare Ravello siano non più 500, bensì 800 turisti: ebbene, 300 di loro non
troveranno strutture di accoglienza in loco e saranno costretti a pernottare e
cenare a Tramonti, separata da Ravello da 15 km di terribili tornanti. E se
qualche settimana dopo, grazie al passaparola tra i visitatori ammaliati dalla
bellezza del luogo, i turisti desiderosi di visitare Ravello diventano 1000,
200 di loro non troveranno un posto per pernottare e mangiare nemmeno a
Tramonti, e dovranno fare base magari a S.Egidio del Monte Albino, separato da
Ravello da addirittura 22 km di terribili tornanti.
Ora,
immaginiamo che, per pernottare e mangiare a Ravello, un turista sia disposto a
spendere anche 200 €. Tuttavia, è difficile pensare che sia disposto ad
acquistare per lo stesso prezzo un analogo “pacchetto” a Tramonti o a S.Egidio.
Se è un turista razionale, come postulano i manuali ortodossi di
economia, computerà come costi addizionali il tempo di percorrenza dal luogo
del pernottamento alla location di destinazione, la minore
attrattività del centro in cui passerà la notte (pochi ristoranti, niente
gelaterie e vinerie, meno occasioni di socializzazione), il mal di stomaco che
presumibilmente i tornanti in autobus gli lasceranno in eredità per il resto
della giornata, e probabilmente troverà soddisfacente il saldo benefici/costi
solo a condizione che gli venga offerta la possibilità di pernottare e mangiare
a prezzi inferiori a quelli di Ravello (ad esempio 150 € a Tramonti e 100 € a
S.Egidio).
Questo
risultato getta una luce assai inquietante sulle prospettive dei Paesi (o delle
regioni) che si specializzano nelle attività della filiera turistica. Infatti,
una implicazione rilevante delle considerazioni proposte è che, quando il
settore turistico cerca di espandere la propria scala di attività, il prezzo
dei servizi venduti deve progressivamente ridursi. Ma allora la crescita del
settore sarà possibile solo a condizione che i lavoratori impiegati nelle aree
limitrofe ai poli d’attrazione più importanti siano disposti a lavorare per
salari tanto più bassi di quelli dei lavoratori impiegati nella location centrale
della filiera quanto maggiore la distanza tra le due location. E
poiché è probabile che i lavoratori siano razionali più o meno come i turisti,
si può facilmente congetturare che – piuttosto che guadagnare a S.Egidio la
metà del salario dei lavoratori di Ravello – essi cercheranno di spostarsi
sulla localizzazione centrale della filiera, generando una pressione concorrenziale
che congiurerà a comprimere i salari anche a Ravello. In pillole, il modello di
crescita via turismo è sostenibile solo se combinato con una robusta deflazione
salariale.
Queste
considerazioni spiegano un sacco di cose della storia recente del vostro Paese.
Ad esempio, spiegano perfettamente perché un istituto come il Reddito di
Cittadinanza abbia incontrato una resistenza ostinata da parte della gran parte
dei partiti politici presenti in parlamento. Tale strumento offre infatti ai
lavoratori la possibilità di sottrarsi al tritacarne del lavoro sottopagato,
precario e privo di dritti che è l’altra faccia del modello di crescita basato
sulla specializzazione nella filiera turistica (ricordate i titoli dei
quotidiani? «Non si trovano bagnini e camerieri»). Il Reddito di Cittadinanza
era, di fatto, un bastone infilato tra i raggi della ruota di questo
meccanismo. E un ceto politico che non è capace (o non ha voglia) di mettere in
discussione quel modello di sviluppo, non può evidentemente far altro che
sforzarsi di rimuovere le peculiarità istituzionali che sono di ostacolo al suo
funzionamento.
Qualcuno
obietta che i vincoli che stanno conducendo la vicenda del vostro Paese verso
questo triste epilogo potrebbero facilmente essere rimossi «se aumentaste la
dotazione di infrastrutture recettive nelle aree più interessate dalla presenza
turistica». Non so. Io penso che, nel trentennio appena trascorso, il vostro
Paese abbia fatto un investimento imponente in tal senso, e credo anche che
abbia raggiunto un limite oltre il quale è difficile andare senza rischiare di
perdere il “vantaggio comparato” di cui gode. Il turismo è una faccenda
complessa. La gente vuole andare a Ravello (o ad Assisi, a Siena, a Noto)
perché cerca la bellezza. Ovviamente, sappiamo tutti che la bellezza è un
concetto sfuggente, e che la percezione della bellezza è molto mutevole con il
passare del tempo e con il modificarsi degli umori culturali. Ciononostante,
trovo difficile credere che, se riempi il borgo di Ravello di quelle sequenze
di poliedri di cemento che chiamiamo alberghi, il paesaggio conservi la potenza
suggestiva che ha ispirato a Wagner il suo Parsifal. Così come
trovo difficile credere che, se nascondi la imponente scogliera che fiancheggia
le spiagge di Palinuro con una fila ininterrotta di stabilimenti balneari e
ombrelloni, quelle spiagge continuino ad evocare nell’immaginario del turista
l’avventuroso viaggio di Odisseo.
Purtroppo il
turismo non è una scorciatoia sulla strada della crescita, ma più probabilmente
un vicolo cieco. Se i Paesi leader dell’industria continentale vi hanno
consigliato di percorrerla, è perché pensavano di prendere due piccioni con una
fava: da un lato, disarticolare il vostro tessuto di imprese manifatturiere,
togliendosi così dalle scatole degli scomodi concorrenti per il dominio dei
mercati dei prodotti industriali; dall’altro, fare del vostro Paese un
gradevole “parco dei divertimenti” dove trascorrere i propri momenti di relax.
Ovviamente senza di voi, che con i vostri salari da Paese “turistico” non
potrete più permettervelo, e che sarete costretti a dirigervi altrove (Grecia,
Montenegro, Albania), dove il lavoro è ancora più sfruttato che qui e,
conseguentemente, i prezzi più bassi.
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