venerdì 27 ottobre 2023

Donne e lavoro, la rivoluzione dei gelsomini - Matteo Dalena e Lorenzo Coscarella

  

Il viaggio tra i mestieri perduti o in via di sparizione della Calabria prosegue sulle coste joniche con la storia delle gelsominaie, che fino agli anni '70 portavano a casa il pane per figli e mariti facendo turni massacranti nei campi per raccogliere i fiori destinati alla produzione di profumi.

 

 “Riviera dei Gelsomini” è la denominazione a uso e consumo turistico che indica il tratto di costa della provincia di Reggio Calabria bagnato dal mar Ionio. Certo, il gelsomino è un bel fiore e il nome suona bene da abbinare a spiagge, località e attrazioni. Ma la motivazione della scelta è ben più profonda.

Chi avrebbe mai detto, infatti, che un fiore piccolo come il gelsomino abbia dato vita a un’economia locale relativamente florida che, fino alla metà degli anni ’70 del ‘900, ha caratterizzato il paesaggio, la vita e la storia di intere comunità, iniziando da Villa San Giovanni ed espandendosi poi per tutta la costa ionica reggina fino a Monasterace.

Fiori ricercati

In questo territorio era possibile ammirare le distese di piantagioni in cui veniva coltivato il gelsomino. Dal fiore si ricavavano essenze ricercate per la realizzazione dei profumi ed altri prodotti. La maggior parte del raccolto di gelsomini, dopo la trasformazione in una pasta chiamata “concreta”, prendeva la strada della Francia, dove le tecnologie permettevano la sua lavorazione. I fiori più ricercati giungevano dalla Calabria e dalla Sicilia: nel 1945, il 50% del fabbisogno mondiale di gelsomini, con 600 mila kilogrammi prodotti, proveniva dalle province di Reggio Calabria, Messina e Siracusa.

Le zone costiere erano quelle che meglio ne favorivano la coltivazione. Ciò contribuì a svuotare diversi paesini dell’entroterra favorendo lo sviluppo della marina. È emblematico il caso di Brancaleone. Come evidenzia l’antropologo Vito Teti, era diventata «un’isola quasi felice soprattutto per la produzione del gelsomini, che consente alle famiglie un vivere più dignitoso rispetto alla miseria, alla povertà degli anni precedenti». Grazie alla “valvola di sfogo” del gelsomino e di altre produzioni come quella del bergamotto e del baco da seta, infatti, a Brancaleone l’emigrazione fu un fenomeno più lieve rispetto ad altri centri della zona.

A capo chino

A raccogliere i fiori erano le donne, in gran parte ragazze, le gelsominaie. La ragione era semplice: per raccogliere i fiori senza danneggiarli servivano mani attente e delicate. A dispetto della delicatezza necessaria alla raccolta, il lavoro delle gelsominaie era tutt’altro che leggero. Le testimonianze raccontano di alzatacce in piena notte per avviarsi a piedi, in gruppi di venti o trenta persone, e giungere nei campi per iniziare la raccolta quando ancora era buio, nel momento in cui il fiore era aperto. E la raccolta proseguiva per ore, sempre con il capo chino e la schiena curva, per un salario da fame che però era necessario per portare a casa il pane per una stagione.

Il salario delle gelsominaie rappresentò per decenni un motivo di lotta e rivendicazioni. Le poche lire vennero man mano aumentate anche grazie alle significative lotte sindacali di cui le raccoglitrici di gelsomino si fecero portatrici dal secondo dopoguerra in poi. Giunsero anche ad un «Contratto collettivo 13 agosto 1959 per le lavoratrici addette alla raccolta del gelsomino della Provincia di Reggio Calabria». Il contratto collettivo, insieme ad alcune prescrizioni sulla retribuzione tra cui il pagamento dell’indennità di caropane e di un’altra piccola indennità per il trasporto fino al luogo di lavoro, prevedeva che «ad ogni raccoglitrice sarà corrisposta la somma di lire 195 per ogni chilogrammo di gelsomino raccolto in normali condizioni di umidità».

Dai centomila chili al collasso

Quella del gelsomino calabrese era una produzione relativamente “recente”, risalente a circa un secolo fa. Nel 1933, ad esempio, il periodico L’Italia vinicola ed agraria annunciava con enfasi che la Calabria si apprestava «a diventare uno dei più grandi centri del mondo per la coltura di piante da profumeria». L’autarchica Italia mirava probabilmente a minare il “monopolio” francese della coltivazione del fiore. Dal 1930 al 1933 in Calabria vi erano ancora soltanto «25 ettari coltivati in via sperimentale con gelsomini, rose e gaggie», che avevano prodotto però centomila chili di fiori «eccellenti per ricchezza di profumo».

Reggio Calabria operava anche una «Stazione essenze» e la «Cooperativa fiori del sud», che riuniva i coltivatori dei fiori. Già allora si sottolineava la questione del bisogno di manodopera, visto che solo in alcuni mesi in 20 ettari avevano lavorato 250 raccoglitrici. Un numero destinato a crescere con l’aumento delle piantagioni fino a giungere, secondo le testimonianze, a circa 10mila addette. Col tempo sarebbe sorta una distilleria per l’estrazione dell’essenza del gelsomino anche a Brancaleone. Ma, a parte sparute esperienze, la produzione continuava ad essere legata soprattutto alla domanda estera. Quando fu possibile riprodurre sinteticamente alcune fragranze, l’economia del gelsomino collassò.

In Parlamento

La prolungata assenza da casa delle madri costringeva i bimbi delle gelsominaie a una vita di stenti. In tal senso l’assistenza istituzionale all’infanzia e alla maternità era cosa pressoché sconosciuta nei piccoli paesi della fascia ionica calabrese. Nel 1968 le dinamiche della vita grama delle raccoglitrici di gelsomini reggine vennero udite tra gli scanni di Palazzo Madama. Il 26 settembre in Senato si discusse la proposta di una «Concessione di un contributo straordinario di lire 13 miliardi a favore dell’Opera nazionale maternità e infanzia».

È il senatore comunista Emilio Argiroffi (1922-1998) – che di lì a qualche anno sarebbe stato relatore della legge sull’istituzione degli asili nido – a tirare in ballo le gelsominaie, le loro problematiche e quelle dei loro figliuoli. Secondo quello che sarà il futuro sindaco di Taurianova «gli infelici ragazzi spastici di Girifalco», «il figlio della raccoglitrice di olive di Oppido» come quelli delle gelsominaie del Reggino erano portatori di una serie di una serie di «marchi illiberali» che facevano di loro dei «minorati», condannati prima dalla natura e poi dalla società, e le vittime privilegiate «dello sfruttamento dell’uomo sull’altro uomo».

In molti casi le gelsominaie erano costrette a portare le proprie creature «a lavorare nei campi di raccolta alle 2 di notte, e sono latori di specifiche sindromi di malattia da lavoro, come le convulsioni e le lesioni neuro psichiche provocate dall’aroma dei gelsomini». Solo alcune potevano contare sulla presenza di figlie più grandicelle cui affidare i propri lattanti.

I primi servizi sociali

Si usava “affardellare” e deporre la creatura incustodita ai margini del campo o ai piedi di un albero, nel caso delle raccoglitrici di olive. Ma in alcuni paesi, prosegue Argiroffi, erano le «vecchie invalide» – le cosiddette «maestre di lavoro» – a badare ai loro figli in condizioni pietose: «Trattenuti in un tugurio, seduti in terra o su una fila di panchetti, freddolosamente avvolti nei loro stracci. Durante tutto il giorno costretti a snocciolare litanie incomprensibili, si nutrono con un tozzo di pane o qualche patata».

È grazie all’intensa attività di Rita Maglio (1899-1994) – antifascista, comunista, femminista impegnata per tutta la vita al sostegno delle classi sociali più umili e disagiate e tra le fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane) calabrese – che si arrivò alla creazione dei primi servizi sociali a sostegno dell’occupazione femminile e della qualità di vita delle donne: asili, consultori familiari e servizi. A raccogliere la sua eredità fu la figlia Silvana Croce, che dalla fine degli anni ’60 s’impegnò per le donne braccianti. Croce evidenziò come il loro sfruttamento non riguardava solo le discriminazioni salariali, ma anche la mancata tutela della salute e della maternità.

Damnatio memoriae

Le donne dedite alla raccolta dei gelsomini in quelle lingue di terra da Bova a Monasterace e le raccoglitrici di olive della Piana condivisero le medesime problematiche e lotte per un salario più giusto e per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Ma a un certo punto, nel bel mezzo degli anni ’70, le loro strade si divisero.

Il passaggio alla meccanizzazione garantì alle raccoglitrici di olive la sopravvivenza. Mentre nel caso delle gelsominaie, le commesse cessarono e la vecchia fabbrica della “concreta” chiuse i battenti. Abbandonati i campi, con lo scorrere dei decenni anche la memoria di quell’attività gravosa e delle relative lotte s’infragilì fino a diventare labile, soggetta a dimenticanza. Su questo giocò pure il fatto che essendo un’attività praticata unicamente da lavoratrici donne, quella delle gelsominaie s’inserì nel solco dell’assenza o dell’esclusione quasi sistematica dalla narrazione dei fatti storici mainstream.

Come scrisse la storica Angela Groppi «che le donne abbiano sempre lavorato, tanto all’interno quanto all’esterno della sfera domestica, è oggi un dato storiograficamente acquisito». Ma non è stato sempre così. Il recupero del cosiddetto “lavoro delle donne” soggetto a incertezze, tagli, omissioni è stato possibile grazie alla storia sociale, di genere, alla microstoria, all’oralità, alla trasmissione dei saperi da una generazione di donne all’altra.

La Rugiada e il Sole

In questa linea di pensiero e azione va a situarsi il prezioso lavoro dell’UDI di Reggio che, come spiega Titti Federico, ha portato alla realizzazione del documentario La Rugiada e il Sole: «È finalmente venuto a termine un lavoro, nato dall’idea di Lucia Cara e avviato diversi anni fa dal percorso di recupero della nostra identità: raccogliere, conservare e narrare direttamente dalle loro voci la vita e il lavoro delle gelsominaie. Da tempo seguiamo il nostro desiderio di colmare e trasmettere alle nuove generazioni quanto è accaduto e fa parte appieno del percorso di una comunità. Oggi ne consegniamo un tassello restituendo valore e memoria alle tante storie delle donne. Questo lavoro sarà parte integrante dell’archivio dell’UDI e apparterrà alla storia della Calabria».

da qui

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