Il viaggio tra i mestieri perduti o in via di
sparizione della Calabria prosegue sulle coste joniche con la storia delle
gelsominaie, che fino agli anni '70 portavano a casa il pane per figli e mariti
facendo turni massacranti nei campi per raccogliere i fiori destinati alla
produzione di profumi.
“Riviera
dei Gelsomini” è la denominazione a uso e consumo turistico che indica il
tratto di costa della provincia di Reggio Calabria bagnato dal mar Ionio.
Certo, il gelsomino è un bel fiore e il nome suona bene da abbinare a spiagge,
località e attrazioni. Ma la motivazione della scelta è ben più profonda.
Chi avrebbe mai detto, infatti, che un
fiore piccolo come il gelsomino abbia dato vita a un’economia locale
relativamente florida che, fino alla metà degli anni ’70 del
‘900, ha caratterizzato il paesaggio, la vita e la storia di intere
comunità, iniziando da Villa San Giovanni ed espandendosi
poi per tutta la costa ionica reggina fino a Monasterace.
Fiori ricercati
In questo territorio era possibile
ammirare le distese di piantagioni in cui veniva coltivato il gelsomino. Dal
fiore si ricavavano essenze ricercate per la realizzazione dei profumi ed
altri prodotti. La maggior parte del raccolto di gelsomini, dopo la
trasformazione in una pasta chiamata “concreta”, prendeva la strada
della Francia, dove le tecnologie permettevano la sua lavorazione. I fiori più
ricercati giungevano dalla Calabria e dalla Sicilia: nel 1945, il 50%
del fabbisogno mondiale di gelsomini, con 600 mila kilogrammi prodotti,
proveniva dalle province di Reggio Calabria, Messina e Siracusa.
Le zone costiere erano quelle che meglio
ne favorivano la coltivazione. Ciò contribuì a svuotare diversi paesini
dell’entroterra favorendo lo sviluppo della marina. È emblematico il
caso di Brancaleone. Come evidenzia l’antropologo Vito Teti,
era diventata «un’isola quasi felice soprattutto per la produzione
del gelsomini, che consente alle famiglie un vivere più dignitoso
rispetto alla miseria, alla povertà degli anni precedenti». Grazie alla
“valvola di sfogo” del gelsomino e di altre produzioni come quella del bergamotto e
del baco da seta, infatti, a Brancaleone l’emigrazione fu
un fenomeno più lieve rispetto ad altri centri della zona.
A capo chino
A raccogliere i fiori erano le donne,
in gran parte ragazze, le gelsominaie. La ragione era semplice: per
raccogliere i fiori senza danneggiarli servivano mani attente e
delicate. A dispetto della delicatezza necessaria alla raccolta, il lavoro
delle gelsominaie era tutt’altro che leggero. Le testimonianze raccontano
di alzatacce in piena notte per avviarsi a piedi, in gruppi di
venti o trenta persone, e giungere nei campi per iniziare la raccolta quando
ancora era buio, nel momento in cui il fiore era aperto. E la raccolta
proseguiva per ore, sempre con il capo chino e la schiena curva, per un salario
da fame che però era necessario per portare a casa il pane per una
stagione.
Il salario delle
gelsominaie rappresentò per decenni un motivo di lotta e rivendicazioni.
Le poche lire vennero man mano aumentate anche grazie alle significative lotte
sindacali di cui le raccoglitrici di gelsomino si fecero portatrici
dal secondo dopoguerra in poi. Giunsero anche ad un «Contratto collettivo 13
agosto 1959 per le lavoratrici addette alla raccolta del gelsomino della Provincia
di Reggio Calabria». Il contratto collettivo, insieme ad alcune
prescrizioni sulla retribuzione tra cui il pagamento dell’indennità di
caropane e di un’altra piccola indennità per il trasporto fino al luogo di
lavoro, prevedeva che «ad ogni raccoglitrice sarà corrisposta la somma
di lire 195 per ogni chilogrammo di gelsomino raccolto in
normali condizioni di umidità».
Dai centomila chili al
collasso
Quella del gelsomino calabrese era una
produzione relativamente “recente”, risalente a circa un secolo fa. Nel 1933,
ad esempio, il periodico L’Italia vinicola ed agraria annunciava
con enfasi che la Calabria si apprestava «a diventare uno dei più
grandi centri del mondo per la coltura di piante da profumeria».
L’autarchica Italia mirava probabilmente a minare il “monopolio”
francese della coltivazione del fiore. Dal 1930 al 1933 in Calabria vi
erano ancora soltanto «25 ettari coltivati in via sperimentale con
gelsomini, rose e gaggie», che avevano prodotto però centomila chili di
fiori «eccellenti per ricchezza di profumo».
A Reggio Calabria operava
anche una «Stazione essenze» e la «Cooperativa fiori
del sud», che riuniva i coltivatori dei fiori. Già allora si sottolineava
la questione del bisogno di manodopera, visto che solo in alcuni mesi in 20
ettari avevano lavorato 250 raccoglitrici. Un numero
destinato a crescere con l’aumento delle piantagioni fino a giungere, secondo
le testimonianze, a circa 10mila addette. Col tempo sarebbe
sorta una distilleria per l’estrazione dell’essenza del
gelsomino anche a Brancaleone. Ma, a parte sparute esperienze, la produzione
continuava ad essere legata soprattutto alla domanda estera. Quando
fu possibile riprodurre sinteticamente alcune fragranze, l’economia
del gelsomino collassò.
In Parlamento
La prolungata assenza da casa delle
madri costringeva i bimbi delle gelsominaie a una vita di stenti.
In tal senso l’assistenza istituzionale all’infanzia e alla maternità era cosa
pressoché sconosciuta nei piccoli paesi della fascia ionica calabrese.
Nel 1968 le dinamiche della vita grama delle raccoglitrici di
gelsomini reggine vennero udite tra gli scanni di Palazzo Madama. Il 26 settembre
in Senato si discusse la proposta di una «Concessione di
un contributo straordinario di lire 13 miliardi a favore
dell’Opera nazionale maternità e infanzia».
È il senatore comunista Emilio
Argiroffi (1922-1998) – che di lì a qualche anno sarebbe stato
relatore della legge sull’istituzione degli asili nido – a
tirare in ballo le gelsominaie, le loro problematiche e quelle dei loro
figliuoli. Secondo quello che sarà il futuro sindaco di Taurianova «gli
infelici ragazzi spastici di Girifalco», «il figlio della
raccoglitrice di olive di Oppido» come quelli delle gelsominaie del
Reggino erano portatori di una serie di una serie di «marchi illiberali» che
facevano di loro dei «minorati», condannati prima dalla natura e poi dalla
società, e le vittime privilegiate «dello sfruttamento dell’uomo sull’altro
uomo».
In molti casi le gelsominaie erano
costrette a portare le proprie creature «a lavorare nei campi di raccolta alle
2 di notte, e sono latori di specifiche sindromi di malattia da lavoro,
come le convulsioni e le lesioni neuro psichiche provocate
dall’aroma dei gelsomini». Solo alcune potevano contare sulla presenza di figlie
più grandicelle cui affidare i propri lattanti.
I primi servizi
sociali
Si usava “affardellare” e deporre la
creatura incustodita ai margini del campo o ai piedi di un albero, nel caso
delle raccoglitrici di olive. Ma in alcuni paesi, prosegue Argiroffi, erano le
«vecchie invalide» – le cosiddette «maestre di lavoro» – a
badare ai loro figli in condizioni pietose: «Trattenuti in un tugurio,
seduti in terra o su una fila di panchetti, freddolosamente avvolti nei
loro stracci. Durante tutto il giorno costretti a snocciolare litanie incomprensibili, si
nutrono con un tozzo di pane o qualche patata».
È grazie all’intensa attività di Rita
Maglio (1899-1994) – antifascista, comunista, femminista impegnata per
tutta la vita al sostegno delle classi sociali più umili e disagiate e tra le
fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane) calabrese – che si
arrivò alla creazione dei primi servizi sociali a sostegno
dell’occupazione femminile e della qualità di vita delle donne: asili,
consultori familiari e servizi. A raccogliere la sua eredità fu la figlia Silvana
Croce, che dalla fine degli anni ’60 s’impegnò per le donne braccianti.
Croce evidenziò come il loro sfruttamento non riguardava solo le discriminazioni
salariali, ma anche la mancata tutela della salute e della
maternità.
Damnatio memoriae
Le donne dedite alla raccolta dei
gelsomini in quelle lingue di terra da Bova a Monasterace e
le raccoglitrici di olive della Piana condivisero le medesime
problematiche e lotte per un salario più giusto e per il miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro. Ma a un certo punto, nel bel mezzo degli
anni ’70, le loro strade si divisero.
Il passaggio alla meccanizzazione garantì
alle raccoglitrici di olive la sopravvivenza. Mentre nel caso delle
gelsominaie, le commesse cessarono e la vecchia fabbrica della
“concreta” chiuse i battenti. Abbandonati i campi, con lo scorrere dei decenni
anche la memoria di quell’attività gravosa e delle relative lotte
s’infragilì fino a diventare labile, soggetta a dimenticanza. Su questo
giocò pure il fatto che essendo un’attività praticata unicamente da
lavoratrici donne, quella delle gelsominaie s’inserì nel solco dell’assenza
o dell’esclusione quasi sistematica dalla narrazione dei fatti storici
mainstream.
Come scrisse la storica Angela
Groppi «che le donne abbiano sempre lavorato, tanto all’interno quanto
all’esterno della sfera domestica, è oggi un dato storiograficamente
acquisito». Ma non è stato sempre così. Il recupero del cosiddetto
“lavoro delle donne” soggetto a incertezze, tagli, omissioni è stato possibile
grazie alla storia sociale, di genere, alla microstoria, all’oralità, alla
trasmissione dei saperi da una generazione di donne all’altra.
La Rugiada e il Sole
In questa linea di pensiero e azione va
a situarsi il prezioso lavoro dell’UDI di Reggio che, come spiega Titti
Federico, ha portato alla realizzazione del documentario La
Rugiada e il Sole: «È finalmente venuto a termine un lavoro, nato
dall’idea di Lucia Cara e avviato diversi anni fa dal percorso
di recupero della nostra identità: raccogliere, conservare e
narrare direttamente dalle loro voci la vita e il lavoro delle gelsominaie. Da
tempo seguiamo il nostro desiderio di colmare e trasmettere alle nuove
generazioni quanto è accaduto e fa parte appieno del percorso di una
comunità. Oggi ne consegniamo un tassello restituendo valore e
memoria alle tante storie delle donne. Questo lavoro sarà parte integrante
dell’archivio dell’UDI e apparterrà alla storia della Calabria».
Nessun commento:
Posta un commento