Alla fine, anche Ursula von der Leyen ha dovuto
ammettere che la transizione disegnata in modo ingenuo (meglio pensare che
d'ingenuità, e non altro, si sia trattato) ha spalancato le porte alla
Cina e, per estensione logica, alla progressiva
deindustrializzazione dell'Europa. Durante il suo discorso sullo stato
dell'Unione al Parlamento europeo, la presidente della Commissione ha infatti
sostenuto che «i veicoli elettrici rappresentano un settore cruciale per la
green economy, con un enorme potenziale per l'Europa. Attualmente,
però, i mercati globali sono inondati da auto elettriche cinesi più
economiche. E il loro prezzo è mantenuto artificialmente basso grazie
a ingenti sussidi statali. Queste pratiche causano distorsioni sul nostro
mercato. E come non le accettiamo quando provengono dall'interno, così non le
accettiamo neppure dall'esterno. Posso quindi annunciarvi che la Commissione
avvierà un'inchiesta antisovvenzioni riguardo ai veicoli elettrici
provenienti dalla Cina». |
La presidente, dunque, prende posizione, probabilmente terrorizzata
dal catastrofico quadro di recente dipinto dalla Corte dei Conti in merito
alla (scarsa, se non nulla) competitività del comparto europeo delle batterie.
I francesi, che negli ultimi mesi hanno spinto affinché Bruxelles li
difendesse (non è escluso che la decisione di Macron di rivedere il
meccanismo degli incentivi locali con lo specifico intento di ostacolare le
auto cinesi abbia in qualche modo accelerato la mossa della von der Leyen),
esultano per una vittoria insperata e fanno la voce grossa: «Non
lasceremo che il nostro mercato sia inondato da veicoli elettrici
eccessivamente sovvenzionati che minacciano le nostre aziende, proprio com'è
successo con i pannelli solari», ha tuonato il ministro per gli Affari
esteri, Laurence Boone. La stessa Germania, che si è sempre opposta a
qualsiasi iniziativa in grado di alimentare tensioni con la Cina,
fondamentale mercato di sbocco per le sue esportazioni e tra le principali
destinazioni per i suoi investimenti, sembra allineata: il ministro
dell'Economia, Robert Habeck, ha parlato di «concorrenza sleale» da parte
cinese. Più cauta l'industria, comunque: la Vda (l'associazione dei
costruttori) preferisce il basso profilo, sapendo quanto vendicativa possa
essere Pechino quando le si pestano i piedi. |
Infatti, il governo di Xi Jinping s'è subito fatto sentire.
Il ministero del Commercio ha accusato la UE di voler «proteggere la propria
industria in nome della "concorrenza leale"». Di conseguenza, il
progetto «è un puro atto protezionistico che interromperà e distorcerà
gravemente la catena globale dell'industria automobilistica e delle
forniture, oltre ad avere un impatto negativo sui legami economici e commerciali
tra Cina e UE». Nell'attesa di vedere se le lamentele di Pechino si
trasformeranno in qualcosa di concreto, come interpretare la mossa della von
der Leyen? I maligni dicono che la presidente della Commissione stia
preparando il campo per le elezioni del '24. Ora che le policy green
varcano il confine delle intenzioni per invadere la quotidianità, la gente –
posta di fronte alle implicazioni pratiche di scelte su cui non è stata
coinvolta – inizia a protestare (a Torino è intervenuto addirittura
il governo per scongiurare il blocco della circolazione delle Euro 5 diesel):
è evidente che certi piani hanno un costo sociale irragionevole.
E partono le retromarce: il premier britannico Rishi Sunak ha
rinviato il phase out dei motori endotermici dal 2030 al 2035, mentre il
governo svedese si è visto costretto a ridurre i finanziamenti per le misure
ambientali, introducendo tagli fiscali su benzina e diesel. La triste verità
è che l'iniziativa della von der Leyen è tardiva, intempestiva
(l'indagine sul dumping durerà almeno 13 mesi...) e non porterà a nulla di
tangibile (a parte, forse, una revisione della Carbon border tax:
oggi l'Europa, per completare il capolavoro, tassa l'importazione delle
materie prime di cui le proprie industrie hanno bisogno). Il Green Deal ha
messo in moto un processo giunto a uno stadio irreversibile: Bruxelles
doveva pensarci prima a non regalare alla Cina una leadership tecnologica che
controllava da un secolo. |
Certo, rimangono perplessità sull'atteggiamento delle Case europee.
Eccitate dalla prospettiva di milioni di consumatori obbligati a cambiare
macchina, vogliose di trasformare il proprio modello di business abbracciando
una logica orientata ai ricavi e non più ai volumi, galvanizzate dall'idea di
ridurre l'impronta industriale, abbagliate dal sogno di attirare
fantastiliardi d'investimenti Esg e moltiplicare la capitalizzazione, si
sono buttate sull'elettrico dando per scontato che la loro superiorità
tecnica non sarebbe stata intaccata. Ora che la quota full electric in
Europa è arrivata al 20%, le cronache dimostrano la fallacia di tali
premesse. I cinesi godono di un vantaggio sui costi che non potrà
essere colmato e la Tesla offre un rapporto prezzo/qualità imbattibile (non
vedo abbastanza sottolineata la notizia che metà delle Bev vendute in Italia
sono fatte da Elon Musk). Le conseguenze sono palesi: la Volkswagen,
quella che si è esposta più di tutti, sta valutando la riconversione della
fabbrica di Dresda, dove costruisce la ID.3. Prima o poi, i costruttori dovranno
riconoscere che l'aver assecondato il dogmatismo della UE è stato un suicidio
collettivo, aggravato da un tocco d'arroganza. (Nel frattempo, i 230 dipendenti della Marelli di Crevalcore, licenziati
perché producevano ormai anacronistici collettori d'aspirazione, ringraziano
chi li ha voluti sacrificare sull'altare di una supposta sostenibilità). (grazie a Pino per la segnalazione) |
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