lunedì 2 ottobre 2023

L’Europa si blinda, ma ormai è tardi - Gian Luca Pellegrini

 


Alla fine, anche Ursula von der Leyen ha dovuto ammettere che la transizione disegnata in modo ingenuo (meglio pensare che d'ingenuità, e non altro, si sia trattato) ha spalancato le porte alla Cina e, per estensione logica, alla progressiva deindustrializzazione dell'Europa. Durante il suo discorso sullo stato dell'Unione al Parlamento europeo, la presidente della Commissione ha infatti sostenuto che «i veicoli elettrici rappresentano un settore cruciale per la green economy, con un enorme potenziale per l'Europa. Attualmente, però, i mercati globali sono inondati da auto elettriche cinesi più economiche. E il loro prezzo è mantenuto artificialmente basso grazie a ingenti sussidi statali. Queste pratiche causano distorsioni sul nostro mercato. E come non le accettiamo quando provengono dall'interno, così non le accettiamo neppure dall'esterno. Posso quindi annunciarvi che la Commissione avvierà un'inchiesta antisovvenzioni riguardo ai veicoli elettrici provenienti dalla Cina». 

 

La presidente, dunque, prende posizione, probabilmente terrorizzata dal catastrofico quadro di recente dipinto dalla Corte dei Conti in merito alla (scarsa, se non nulla) competitività del comparto europeo delle batterie. I francesi, che negli ultimi mesi hanno spinto affinché Bruxelles li difendesse (non è escluso che la decisione di Macron di rivedere il meccanismo degli incentivi locali con lo specifico intento di ostacolare le auto cinesi abbia in qualche modo accelerato la mossa della von der Leyen), esultano per una vittoria insperata e fanno la voce grossa: «Non lasceremo che il nostro mercato sia inondato da veicoli elettrici eccessivamente sovvenzionati che minacciano le nostre aziende, proprio com'è successo con i pannelli solari», ha tuonato il ministro per gli Affari esteri, Laurence Boone. La stessa Germania, che si è sempre opposta a qualsiasi iniziativa in grado di alimentare tensioni con la Cina, fondamentale mercato di sbocco per le sue esportazioni e tra le principali destinazioni per i suoi investimenti, sembra allineata: il ministro dell'Economia, Robert Habeck, ha parlato di «concorrenza sleale» da parte cinese. Più cauta l'industria, comunque: la Vda (l'associazione dei costruttori) preferisce il basso profilo, sapendo quanto vendicativa possa essere Pechino quando le si pestano i piedi.

 

Infatti, il governo di Xi Jinping s'è subito fatto sentire. Il ministero del Commercio ha accusato la UE di voler «proteggere la propria industria in nome della "concorrenza leale"». Di conseguenza, il progetto «è un puro atto protezionistico che interromperà e distorcerà gravemente la catena globale dell'industria automobilistica e delle forniture, oltre ad avere un impatto negativo sui legami economici e commerciali tra Cina e UE». Nell'attesa di vedere se le lamentele di Pechino si trasformeranno in qualcosa di concreto, come interpretare la mossa della von der Leyen? I maligni dicono che la presidente della Commissione stia preparando il campo per le elezioni del '24. Ora che le policy green varcano il confine delle intenzioni per invadere la quotidianità, la gente – posta di fronte alle implicazioni pratiche di scelte su cui non è stata coinvolta – inizia a protestare (a Torino è intervenuto addirittura il governo per scongiurare il blocco della circolazione delle Euro 5 diesel): è evidente che certi piani hanno un costo sociale irragionevole. E partono le retromarce: il premier britannico Rishi Sunak ha rinviato il phase out dei motori endotermici dal 2030 al 2035, mentre il governo svedese si è visto costretto a ridurre i finanziamenti per le misure ambientali, introducendo tagli fiscali su benzina e diesel. La triste verità è che l'iniziativa della von der Leyen è tardiva, intempestiva (l'indagine sul dumping durerà almeno 13 mesi...) e non porterà a nulla di tangibile (a parte, forse, una revisione della Carbon border tax: oggi l'Europa, per completare il capolavoro, tassa l'importazione delle materie prime di cui le proprie industrie hanno bisogno). Il Green Deal ha messo in moto un processo giunto a uno stadio irreversibile: Bruxelles doveva pensarci prima a non regalare alla Cina una leadership tecnologica che controllava da un secolo.

 

Certo, rimangono perplessità sull'atteggiamento delle Case europee. Eccitate dalla prospettiva di milioni di consumatori obbligati a cambiare macchina, vogliose di trasformare il proprio modello di business abbracciando una logica orientata ai ricavi e non più ai volumi, galvanizzate dall'idea di ridurre l'impronta industriale, abbagliate dal sogno di attirare fantastiliardi d'investimenti Esg e moltiplicare la capitalizzazione, si sono buttate sull'elettrico dando per scontato che la loro superiorità tecnica non sarebbe stata intaccata. Ora che la quota full electric in Europa è arrivata al 20%, le cronache dimostrano la fallacia di tali premesse. I cinesi godono di un vantaggio sui costi che non potrà essere colmato e la Tesla offre un rapporto prezzo/qualità imbattibile (non vedo abbastanza sottolineata la notizia che metà delle Bev vendute in Italia sono fatte da Elon Musk). Le conseguenze sono palesi: la Volkswagen, quella che si è esposta più di tutti, sta valutando la riconversione della fabbrica di Dresda, dove costruisce la ID.3. Prima o poi, i costruttori dovranno riconoscere che l'aver assecondato il dogmatismo della UE è stato un suicidio collettivo, aggravato da un tocco d'arroganza.

(Nel frattempo, i 230 dipendenti della Marelli di Crevalcore, licenziati perché producevano ormai anacronistici collettori d'aspirazione, ringraziano chi li ha voluti sacrificare sull'altare di una supposta sostenibilità).


(grazie a Pino per la segnalazione)

Nessun commento:

Posta un commento