La ricetta è vecchia ed è già fallita, ma i grandi inquinatori non si stancano di usarla. Invece di ridurre le emissioni di gas che causano il caos climatico, pagano alcune comunità o ejidatarios [comunità agricole nate con la rivoluzione zapatista del 1910 alle quali lo Stato assegnava delle terre in usufrutto, ndt] perché continuino a curare i loro boschi, oppure pagano altri soggetti perché piantino monoculture di soia, palma da olio e altre colture. Colture che presumibilmente assorbono anidride carbonica e che “compenserebbero” il fatto che le aziende continuino a inquinare.
Un reportage
di Max de Haldevang di Bloomberg ha rivelato che la compagnia petrolifera BP – con l’intermediazione
dell’ONG Pronatura Mexico e del World Resources Institute, con sede negli Stati
Uniti – ha pagato somme miserande agli agricoltori di 59 comunità nello stato
di Veracruz perché partecipassero a un programma di “miglioramento” delle loro
foreste. BP ha così ottenuto 1,5 milioni di crediti di carbonio su 200.000
ettari, che può vendere, a un valore quattro volte superiore o più, di quello
pagato alle comunità. Non c’è da stupirsi, come titola il rapporto di Bloomberg,
che queste operazioni e i relativi mercati del carbonio siano “la soluzione preferita di Wall Street al cambiamento climatico“.
Inoltre, nel
giugno 2022, il Ministero dell’Ambiente (Semarnat) si è riunito con diverse
istituzioni intermediarie che rappresentano gli interessi delle grandi aziende
inquinanti per discutere la creazione di mercati volontari del carbonio in
Messico. Con lo stile più cinico che si potesse immaginare, Semarnat ha
chiamato questa nuova forma di colonialismo “giustizia climatica“.
Né questi
schemi né i mercati del carbonio hanno funzionato per affrontare il cambiamento
climatico; al contrario, lo peggiorano giustificando la continuazione e
l’aumento delle emissioni dei gas che lo causano. Le multinazionali
rinnovano la ricetta con nomi diversi perché si tratta di un grossissimo
affare: pagano poco alle comunità e agli agricoltori e poi rivendono i crediti
di carbonio che teoricamente generano in quelle aree, moltiplicando molte volte
la somma iniziale. Senza fare nulla, aumentano così i loro profitti. Inoltre,
si dipingono di verde e affermano di essere “neutrali dal punto di vista
climatico” o di avere “emissioni nette zero”. Concetti che le
organizzazioni che lavorano davvero per la giustizia climatica hanno definito “la grande truffa“, perché è il mezzo con cui i grandi inquinatori
ritardano, mistificano ed evadono l’azione a favore del clima.
Il Messico è
stato un pioniere di questi schemi coloniali per due decenni: prima con i pagamenti con denaro
pubblico per i servizi ambientali forestali e idrologici, finanziati dai
governi che si sono succeduti; poi con il programma REDD+ (Reducing Emissions
from Degradation and Deforestation) e altri. Il ruolo dei governi era
ed è tuttora quello di proporre, facilitare e sovvenzionare questi programmi. Il
business aziendale consiste nel vendere i crediti generati nei mercati
secondari di compensazione del carbonio, delle emissioni o della biodiversità.
Un commento che a volte si sente è: “Non aiutano a prevenire la deforestazione (o il cambiamento climatico, o la perdita di biodiversità), ma almeno pagano qualcosa alle comunità“. Però questo pagamento, in sostanza insignificante, in realtà in molti casi ha significato un’espropriazione di fatto di foreste e territori delle comunità, che non possono più decidere autonomamente come utilizzarli, perché devono seguire le linee guida di certificatori esterni che verificano i bonus presumibilmente generati. Hanno creato numerosi conflitti all’interno e tra comunità (vedi analisi Ceccam https://ceccam.org/node/548 e https://www.ceccam.org/node/1653).
Nulla di
tutto questo ha contribuito a frenare il cambiamento climatico, ma oltre ai
guadagni delle multinazionali, anche le grandi ONG di conservazione [della
biodiversità] che intermediano i progetti, come Conservation International, The
Nature Conservancy, Pronatura Mexico e altre simili, ci guadagnano.
Oggi
le corporation hanno forti aspettative sulle nuove regole del
mercato del carbonio alle Nazioni Unite, dove stanno spingendo perché, oltre a
boschi e foreste, i suoli agricoli, i mari e le tecniche di geoingegneria siano
inclusi nella compensazione del carbonio. Senza aspettare i mercati formali e
regolamentati delle Nazioni Unite, già dannosi di per sé, le imprese stanno già
mestando nel torbido, non regolamentato, non trasparente, non responsabile ma
molto, molto più vasto, business dei mercati della compensazione volontaria del
carbonio.
Il futuro di
questo mercato volontario è ciò che Semarnat ha discusso con le istituzioni
private che sperano di ottenere una grossa fetta di queste transazioni: le
società di verifica, certificazione e intermediazione. Ad esempio, la
società di verifica VERRA ha tra i suoi consulenti le compagnie petrolifere
Shell e BP. Anche l’ONG Climate Action Reserve ha nel suo consiglio di
amministrazione l’IETA, l’organizzazione internazionale delle imprese per la
promozione dei mercati del carbonio. E altri, tutti accomunati da interessi
corporativi.
La questione
è molto seria sia per l’impatto e l’esproprio delle comunità e dei contadini,
sia per la privatizzazione di fatto degli ecosistemi, della biodiversità e ora
anche dei terreni agricoli. Si tratta di una trappola letale che impedisce di
agire di fronte al cambiamento climatico e che ci riguarda direttamente
tutti.
*
Ricercatrice del Gruppo ETC
Fonte e
versione originale in spagnolo: https://www.jornada.com.mx/2022/09/10/opinion/015a1eco
Traduzione a
cura di Camminar Domandando
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