martedì 27 settembre 2022

Il colonialismo climatico - Silvia Ribeiro

 

La ricetta è vecchia ed è già fallita, ma i grandi inquinatori non si stancano di usarla. Invece di ridurre le emissioni di gas che causano il caos climatico, pagano alcune comunità o ejidatarios [comunità agricole nate con la rivoluzione zapatista del 1910 alle quali lo Stato assegnava delle terre in usufrutto, ndtperché continuino a curare i loro boschi, oppure pagano altri soggetti perché piantino monoculture di soia, palma da olio e altre colture. Colture che presumibilmente assorbono anidride carbonica e che “compenserebbero” il fatto che le aziende continuino a inquinare.

Un reportage di Max de Haldevang di Bloomberg ha rivelato che la compagnia petrolifera BP – con l’intermediazione dell’ONG Pronatura Mexico e del World Resources Institute, con sede negli Stati Uniti – ha pagato somme miserande agli agricoltori di 59 comunità nello stato di Veracruz perché partecipassero a un programma di “miglioramento” delle loro foreste. BP ha così ottenuto 1,5 milioni di crediti di carbonio su 200.000 ettari, che può vendere, a un valore quattro volte superiore o più, di quello pagato alle comunità. Non c’è da stupirsi, come titola il rapporto di Bloomberg, che queste operazioni e i relativi mercati del carbonio siano “la soluzione preferita di Wall Street al cambiamento climatico“.

Inoltre, nel giugno 2022, il Ministero dell’Ambiente (Semarnat) si è riunito con diverse istituzioni intermediarie che rappresentano gli interessi delle grandi aziende inquinanti per discutere la creazione di mercati volontari del carbonio in Messico. Con lo stile più cinico che si potesse immaginare, Semarnat ha chiamato questa nuova forma di colonialismo “giustizia climatica“.

 

Né questi schemi né i mercati del carbonio hanno funzionato per affrontare il cambiamento climatico; al contrario, lo peggiorano giustificando la continuazione e l’aumento delle emissioni dei gas che lo causano. Le multinazionali rinnovano la ricetta con nomi diversi perché si tratta di un grossissimo affare: pagano poco alle comunità e agli agricoltori e poi rivendono i crediti di carbonio che teoricamente generano in quelle aree, moltiplicando molte volte la somma iniziale. Senza fare nulla, aumentano così i loro profitti. Inoltre, si dipingono di verde e affermano di essere “neutrali dal punto di vista climatico” o di avere “emissioni nette zero”. Concetti che le organizzazioni che lavorano davvero per la giustizia climatica hanno definito “la grande truffa“, perché è il mezzo con cui i grandi inquinatori ritardano, mistificano ed evadono l’azione  a favore del clima.

Il Messico è stato un pioniere di questi schemi coloniali per due decenni: prima con i pagamenti con denaro pubblico per i servizi ambientali forestali e idrologici, finanziati dai governi che si sono succeduti; poi con il programma REDD+ (Reducing Emissions from Degradation and Deforestation) e altri. Il ruolo dei governi era ed è tuttora quello di proporre, facilitare e sovvenzionare questi programmi. Il business aziendale consiste nel vendere i crediti generati nei mercati secondari di compensazione del carbonio, delle emissioni o della biodiversità.

Un commento che a volte si sente è: “Non aiutano a prevenire la deforestazione (o il cambiamento climatico, o la perdita di biodiversità), ma almeno pagano qualcosa alle comunità“. Però questo pagamento, in sostanza insignificante, in realtà in molti casi ha significato un’espropriazione di fatto di foreste e territori delle comunità, che non possono più decidere autonomamente come utilizzarli, perché devono seguire le linee guida di certificatori esterni che verificano i bonus presumibilmente generati. Hanno creato numerosi conflitti all’interno e tra comunità (vedi analisi Ceccam https://ceccam.org/node/548 e https://www.ceccam.org/node/1653).

Nulla di tutto questo ha contribuito a frenare il cambiamento climatico, ma oltre ai guadagni delle multinazionali, anche le grandi ONG di conservazione [della biodiversità] che intermediano i progetti, come Conservation International, The Nature Conservancy, Pronatura Mexico e altre simili, ci guadagnano.

 

Oggi le corporation hanno forti aspettative sulle nuove regole del mercato del carbonio alle Nazioni Unite, dove stanno spingendo perché, oltre a boschi e foreste, i suoli agricoli, i mari e le tecniche di geoingegneria siano inclusi nella compensazione del carbonio. Senza aspettare i mercati formali e regolamentati delle Nazioni Unite, già dannosi di per sé, le imprese stanno già mestando nel torbido, non regolamentato, non trasparente, non responsabile ma molto, molto più vasto, business dei mercati della compensazione volontaria del carbonio.

Il futuro di questo mercato volontario è ciò che Semarnat ha discusso con le istituzioni private che sperano di ottenere una grossa fetta di queste transazioni: le società di verifica, certificazione e intermediazione. Ad esempio, la società di verifica VERRA ha tra i suoi consulenti le compagnie petrolifere Shell e BP. Anche l’ONG Climate Action Reserve ha nel suo consiglio di amministrazione l’IETA, l’organizzazione internazionale delle imprese per la promozione dei mercati del carbonio. E altri, tutti accomunati da interessi corporativi.

La questione è molto seria sia per l’impatto e l’esproprio delle comunità e dei contadini, sia per la privatizzazione di fatto degli ecosistemi, della biodiversità e ora anche dei terreni agricoli. Si tratta di una trappola letale che impedisce di agire di fronte al cambiamento climatico e che ci riguarda direttamente tutti.

* Ricercatrice del Gruppo ETC

Fonte e versione originale in spagnolo: https://www.jornada.com.mx/2022/09/10/opinion/015a1eco

Traduzione a cura di Camminar Domandando

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