La bellezza conta anche nel mondo a quattro zampe e tra gli invertebrati
È un
classico esempio di cane che si morde la coda. Ma soprattutto un caso di
condanna deciso a tavolino e senza appello: per la ricerca sugli
animali brutti, che pure rischiano l’estinzione, vengono destinate pochissime
risorse. Ragion per cui quelle stesse specie, la cui permanenza
sulla terra è da considerarsi in bilico, sono destinate a scomparire del
tutto, se non si inverte la rotta.
Il valore
della bellezza applicato ai fondi per la biodiversità è stato studiato
dalle Università di Hong Kong e Firenze. Con un risultato talmente
sorprendente, a svantaggio degli animali non belli, che ha voluto darne eco
persino il Proceedings of the national academy of sciences
(Pnas), quartier generale in America, uno dei più prestigiosi
giornali scientifici al mondo.
Nella lista
degli animali considerati brutti ci sono salamandre,
rane, pipistrelli, serpenti, lucertole e moltissimi insetti. Il
motivo è che non fanno "engagement”. Cioè non tirano, non
fidelizzano lettori, non creano quell’effetto “virale” che per
esempio si registra con i panda. Ma anche con le farfalle,
annoverate nella scarna lista di invertebrati che la scienza ama. Anche
per la loro impareggiabile bellezza (ma tant’è: prima erano “solo” dei
bruchi).
Il problema
è che a furia di trattare gli animali alla stregua di influencer, si finirà per
mettere a rischio la biodiversità del mondo. Quindi l’ecosistema. Stefano Cannicci,
docente di Zoologia nell’ateneo di Firenze, è uno dei ricercatori che ha
studiato l’andamento dei finanziamenti destinati alla conservazione
delle specie animali e vegetali. Cannini è pure componente della
Iucn, l’Unione internazionale che tutela la biodiversità. In questi giorni, in
una delle tante interviste rilasciate, il professore ha spiegato al Corriere
della Sera un concetto tanto basilare quando pericolosamente
ignorato nella ripartizione dei fondi: «Investire su poche specie le
risorse non preserva gli ecosistemi che li supportano. Che senso ha
conservare un animale ma non quelli della catena alimentare che sono alla base
della sua sussistenza?».
Evidentemente
serve un rimescolamento delle carte. I numeri, a livello mondiale, sono a senso
unico: rispetto ai 1.963 miliardi di dollari assegnati ai
progetti sulla biodiversità, l’82,9 per cento viene destinato ai
vertebrati, pari a 14.566 ricerche. Così dal 1992 al 2016. Gli
animali più studiati, perché i più amati dal pubblico, sono stati elefanti e
tartarughe. Vere e proprie specie iconiche dentro i social (ma anche fuori). Su
piante e invertebrati, invece, gli stanziamenti non hanno superato il 6,6
per cento del totale.
Questi dati
hanno aperto la strada anche a una seconda analisi: le specie a cui è
destinato l’89,5 per cento delle risorse rappresenta appena il 6 per cento
degli animali e dei vegetali presenti sulla terra. Significa che il restante 94
per cento non ha ricevuto alcun sostegno economico, sebbene rischi l’estinzione
allo stesso modo.
In tutto il pianeta sono un milione le specie che non hanno la sopravvivenza
garantita. E la tendenza italiana alla spesa non mostra dinamiche
differenti rispetto al resto degli altri Stati. Nel nostro Paese,
secondo un report di Legambiente, sono 58 gli ecosistemi fragili. Quanto ai
singoli animali, nella lista rossa ci sono l'orso bruno marsicano, l'aquila del
Bonelli, il capovaccaio, la pernice bianca, alcune farfalle diurne,
lo stambecco alpino, i pipistrelli e particolari tipi di
anatre mediterranee. Nel mondo, invece, sono a rischio estinzione il panda
rosso, l’elefante asiatico, l’aye-aye (piccolo mammifero nativo del
Madagascar), il banteng (bovino selvatico originario del sud-est asiatico), la
balenottera azzurra, il bonobo, lo scimpanzé e il sifaka coronato, che
appartiene alla famiglia dei lemuri.
L’allarme è
lanciato. Adesso serve che qualcuno lo raccolga. Per davvero.
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