Il collettivo messicano di familiari di “desaparecidos” “Guerreros Buscadores de Jalisco” ha scoperto un campo moderno di sterminio del Cartel Jalisco Nueva Generación: in un ranch di Teuchitlán, a mezz’ora da una caserma militare, sono stati trovati tre forni crematori con ammucchiati frammenti umani e circa 400 paia di scarpe. Eppure quel luogo era stato perquisito dalle forze dell’ordine in settembre. In Messico c’è la più grande guerra negata del capitalismo, romanticizzata dalle serie televisive dedicate ai capi del Narco, una guerra che ha provocato la morte di mezzo milione persone, la metà durante gli ultimi sei anni (con i governi di centro-sinistra). Si tratta di persone comuni. Un prezioso articolo di Nodo solidale racconta il contesto di questa guerra. Quando la fonte della violenza è un gruppo di imprenditori feroci, senza divisa, senza un’et
l 5 marzo il collettivo “Guerreros Buscadores de Jalisco” scopre qualcosa che innalza il livello della crudeltà del potere in Messico: un campo di sterminio del Cartel Jalisco Nueva Generación, uno dei cartelli più feroci del Paese. In un ranch di Teuchitlán, nella campagna a un’ora dalla metropoli di Guadalajara (e a mezz’ora da una caserma militare), dietro un portone come altri milioni in Messico, vengono scovati – da un collettivo di familiari di “desaparecidos” e non dalle autorità competenti, come nella maggioranza schiacciante dei casi – tre forni crematori con ammucchiati frammenti umani e circa 400 paia di scarpe, centinaia di altri oggetti personali come braccialetti, orecchini, cappellini, zaini, quaderni con lunghissime liste di nomi, che proiettano la dimensione dell’orrore su centinaia, forse migliaia, di persone uccise con rigore scientifico in questo campo di sterminio contemporaneo. La vista della montagna di scarpe delle persone scomparse è un pugno al cuore per tutti coloro che, per associazione fotografica, volano con la mente ai peggiori massacri realizzati dalle dittature nazi-fasciste.
Ma Jalisco
conta 186 siti di sepoltura clandestina processati dalle autorità, sebbene il
ranch Izaguirre non figuri in questa mappa. Tlajomulco de Zúñiga è il comune
con il maggior numero di fosse clandestine, per un totale di 75.
Guadalajara la ricca, bella, ripulita e turistica capitale dello Stato è
costellata di storie di desaparecidos e violenza, alcuni monumenti sono stati
deturpati e trasformati in memoria viva con centinaia di foto e striscioni con
i volti di persone sparite. Una realtà agghiacciante che va avanti da
anni.
Sono più di
quindici anni infatti che, come collettivo, ci siamo uniti a quella parte della
società civile organizzata messicana che denuncia questa guerra negata, sporca,
manipolata o romanticizzata nelle serie televise dedicate ai grandi capi del
Narco. Una guerra del tutto capitalista, volta ad accumulare quantità assurde di denaro
trafficando merci e corpi. Corpi picchiati, violentati, sfruttati fino
all’ultima goccia, torturati e poi fatti a pezzi, sciolti nell’acido, bruciati,
evaporati e dispersi nel nulla dell’oblio. Sono giovani uomini attratti
da offerte di lavoro ingannevoli, bambini spariti in un angolo qualsiasi di una
città, ragazzi reclutati con l’inganno. Sono moltissime donne: bambine,
giovani, adulte, intrappolate in circuiti di tratta, abusi e torture
inimmaginabili. È la fabbrica del terrore, la necro-produttività
capitalista. Parliamo di 123.808 persone “desaparecidas”, dati del Registro
Nacional de Personas Desaparecidas y No localizadas (RNPDN) aggiornati al 13
marzo 2025. Numeri che, addirittura, superano di gran lunga le cifre
già spaventose dello sterminio e della sparizione forzata realizzati durante le
dittature in Cile e Argentina.
Ma in
Messico la maggioranza delle vittime non è militante politica, è gente
comune e questo riduce di molto la risonanza di questo terrificante
crimine. Più di 50.000 persone sono scomparse negli ultimi sei anni, sotto
il governo di centro-sinistra della pomposamente sedicente “4^ Trasformazione”,
indicando matematicamente le responsabilità istituzionali di questa drammatica
piaga sociale. A questi dati sommiamo gli omicidi realizzati nel paese
dall’inizio della cosiddetta guerra al narco, ovvero da dicembre 2006: 532.609,
dato aggiornato al 29 gennaio di quest’anno, secondo fonti ufficiali. Più
di mezzo milione di vite stroncate, di cui almeno 250.000 durante gli ultimi
sei anni, con i governi di centro-sinistra.
Sopravvivere
alla “guerra di frammentazione territoriale”
Com’è
possibile che tutto ciò passi in (quasi) completo silenzio? L’elemento
fondamentale dell’anomalia della guerra in Messico non risiede solo nell’alto
indice di normalizzazione e negazione della stessa, ma soprattutto nella sua
comprensione sociale, perché relegata ai margini della politica e delle
definizioni classiche di guerra. “Ancora non piovono le bombe dal cielo”, ci diciamo
a volte ironicamente, “non stiamo messi male” come in Palestina, in Siria, in
Kurdistan, Sudan, in Ucrania. Eppure il numero dei morti è lo stesso o, in
certi casi, superiore.
Questa
infatti non è una guerra simmetrica, fra eserciti schierati o un’invasione
dichiarata da una forza armata nemica; e neanche la tipica guerra contemporanea
asimmetrica, che si combatte un po’ ovunque, con forze speciali dello Stato
impegnate contro cellule del “nemico interno”. Il fronte messicano è
caratterizzato invece da una moltiplicazione indiscriminata di attori armati e
da un altissima intensità di fuoco, che frammentano il campo di battaglia
in micro-conflitti molto violenti, sparsi e poco visibili che elevano
brutalmente il tasso di mortalità fra la popolazione civile mentre l’attività
economica, politica e sociale grosso modo va avanti, con black-out e
intermittenze nelle gestione della vita pubblica locale. Definiamo quindi
questa anomalia bellica come “guerra di frammentazione territoriale”. Del resto
le aree più assiduamente colpite dalle offensive e contro-offensive
dei vari gruppi armati (illegali o istituzionali), dai rastrellamenti, dalle
sparizioni, dai reclutamenti forzati, sono i territori rurali o
le periferie semi-rurali, come per esempio Teuchitlan, dove è “apparso” il
centro di stermino e addestramento forzato nel ranch Izaguirre. In mezzo alle
lande industriali, nei territori di frontiera, nel deserto, sulla costa, sulle
montagne la gestione delle rotte, dei campi di coltivazione, del traffico di
esseri umani è da decenni in mano a differenti gruppi di potere che
si scannano su popolazioni di periferia, spesso indigeni e contadini, che non
fanno notizia e, a volte, neanche fanno numero nelle statistiche. Quando la
guerra fra i vari attori armati arriva nelle città si rende visibile,
“registrabile”, fa scalpore ma spesso l’indignazione evapora nella paura per le
rappresaglie e quando la violenza scema localmente in una geografia per
intensificarsi in un altra.
Con lo
sgretolamento dei grandi cartelli, più o meno stabili fino alla fine degli anni
Novanta, e l’intromissione militare attiva dello Stato messicano come socio del
Cartello di Sinaloa (2006) contro tutte le altre organizzazioni
criminali, si è arrivati all’esplosiva creazione di centinaia
di gruppi armati – 240 secondo un’informativa della Secretaria de Gobernación –
che a loro volta si diramano in cellule e sotto-gruppi locali, che gestiscono
fisicamente in quartieri e villaggi la gestione delle attività illecite come il
racket, la prostituzione, i sequestri, la fabbricazione e lo smistamento di
armi e droga. La moltiplicazione degli attori armati ha aumentato
considerabilmente la frammentazione del territorio, generando una
balcanizzazione violenta del Paese, attraversato ampie aree “off limits” o con
circolazione ristretta per coprifuoco.
Queste
numerose strutture/imprese criminali sono affiancate nel lavoro logistico e di
controllo del flusso di merci/persone da tutte le forze armate e di sicurezza
dello Stato, definite “corrotte” ma in realtà strutturalmente legate
all’economia illegale, coinvolte
a differenti livelli e divisi in differenti gruppi anche rivali e, quindi, anche
in conflitto tra loro. Basta citare che nell’ultima “pulizia” ordinata
quest’anno dall’attuale governatore del Chiapas Eduardo
Ramirez, nell’affanno di recuperare un’immagine pubblica di decenza e con la
necessità di riordinare il flusso di cocaina e migranti nella zona strategica
della frontiera sud seguendo interessi di altri gruppi di potere, sono
stati arrestati per mafia 270 poliziotti (e almeno tre sindaci) in
cinque città differenti della regione, dimostrando implicitamente il livello di
cooperazione fatto sistema tra Stato e crimine organizzato. Stato e Crimine che
però non bisogna immaginare come due blocchi monolitici contrapposti, ma
piuttosto dobbiamo abituarci a vedere e comprendere il panorama messicano come
un grandissimo mercato, dove numerose agenzie, punti vendita e succursali,
gruppi di pressione, giudici, politici e burocrati insieme a molti attori
armati, in divisa o meno, partecipano, si alleano e lottano a ritmi vertiginosi
per assicurarsi una ghiotta percentuale nel controllo delle risorse del Paese
(e, solo in parte, del fiume di cocaina che lo attraversa, su richiesta degli
Stati Uniti d’America).
L’economia
criminale come modo di produzione capitalista
La
diffusione dell’economia criminale e della sua organizzazione è una
ristrutturazione capitalista del dominio e saccheggio dei territori, un forma di accumulazione che in
Messico si mostra con questa specificità che definiamo “guerra di
frammentazione territoriale”. In America Latina lo Stato ha
costantemente contribuito all’accumulazione (originaria e successiva) di
capitale attraverso le forze armate, con l’aggressione diretta contro chi
impediva il saccheggio, spesso i popoli indigeni, gli operai e i
contadini. Le classi subalterne nei secoli hanno sviluppato numerose e
svariate forme di resistenza, anche armate, aprendo fino a pochi decenni fa
un periodo feroce, ma anche formidabile, di lotta guerrigliera contro il potere
statale, l’oligarchia e le grandi imprese. In Messico sono numerosissimi i casi
di organizzazione della lotta armata, eredi dell’Indipendenza prima e della
Rivoluzione poi, entrambe iniziate e portate a termine soprattutto dai
contadini, dagli indigeni e successivamente dagli operai.
Dopo
l’insurrezione zapatista del 1994 e l’ampio consenso globale ottenuto da essa,
per il governo messicano reprimere la resistenza popolare con le forze armate
ha avuto, e continua ad avere, un costo politico molto alto (ricordiamo per esempio il
caso di Ayotzinapa), ragion per cui l’uso delle forze dei sicari come outsorcing della
repressione è diventato negli anni un vero e proprio dispositivo per
raggiungere dei territori strategici, spopolarli attraverso la politica del
terrore implementata dai gruppi criminali, riordinarli secondo la logica
economica specifica (impiantare una miniera, un consorzio turistico, un porto,
una diga o semplicemente ri-organizzare la forza lavoro e le risorse a favore
del gruppo “vincente”). Si è passati dall’uso storico e secolare di mercenari
al soldo dello Stato alla creazione di numerose imprese criminali regionali e
locali che, indipendenti ma socie dello Stato, gestiscono, controllano e
terrorizzano la popolazione per profitto proprio e con finalità condivise con
chi governano le istituzioni: l’arricchimento illimitato. La repressione quindi
non è più solo contro i guerriglieri e gli attivisti, ma è una forma di
governance – flessibile, elastica ma spietata – su tutta la popolazione e sui
territori su cui questa vive, lavora e sogna.
Questo
dispositivo infernale, oltre a perpetuare la necessità capitalista di
cosificazione e valorizazzione di ogni elemento, di ogni territorio e di ogni
essere umano, ricopre un ruolo strategico importante nella guerra ideologica:
quello di spoliticizzare la lotta di classe, la resistenza contro il saccheggio
di ogni spazio vivibile.
L’uso del
crimine organizzato, comunemente detto “narco”, come braccio armato del
capitalismo permette collocare le vittime nel terreno fangoso del dubbio:
l’hanno ammazzato perché lottava o perché magari aveva qualche intrallazzo che
non si sapeva? Chi è stato
realmente? Non ha la stessa ripercussione nell’opinione pubblica un omicidio
realizzato dalla polizia o dall’esercito in uno scontro politico (una
manifestazione o in combattimento guerrigliero) che un omicidio, con gli stessi
fini, realizzato da sicari legati a un gruppo criminale, durante la “normalità”
della vita quotidiana. O a volte neanche la “dignità” terribile dell’omicidio
ma la sparizione forzata nel nulla, dove la vittima è inghiottita nel buio da
un carnefice invisibile. In questa maniera si perdono più facilmente i
connotati di un delitto politico, si “normalizza” l’aggressione
facendola scivolare nell’oceano anonimo dei “delitti comuni”, non degni
d’attenzione. Allo stesso tempo un omicidio chiaramente politico – così
drammaticamente ricorrente nella lunga storia della lotta di classe – scatena
effetti e reazioni con responsabilità politiche dirette: “è stato lo Stato!” E
la gestione dello Stato, per quanto feroce, può essere messa in discussione,
diviene “naturalmente” l’obbiettivo della rabbia popolare, così come
storicamente i movimenti sociali hanno denunciato e combattuto la violenza
dell’esercito e della polizia, come bracci armati del potere e in qualche modo
“traditori”, come lo Stato, del patto sociale con il popolo, che li
mantiene. Quando però la fonte della violenza è un gruppo di
imprenditori feroci, senza divisa, senza regole d’ingaggio, senza un’etica e un
patto sociale a cui sottostare: come ci si ribella? Contro chi e come
si dirige la rabbia sociale? È difficile, nonostante alcune eroiche eccezioni,
manifestare, organizzarsi e difendersi contro un nemico senza regole, penetrato
nel tessuto sociale e camaleontico, come la mafia.
Domande
scomode
Spesso in
Italia, tra un’iniziativa di contro-informazione e l’altra, abbiamo ascoltato
domande dubbiose: “Ma c’è davvero la guerra in Chiapas? Ma è così
proprio in tutto in Messico?” aggiunto magari da un “È che io ci sono andato in
vacanza e mi sembrava abbastanza tranquillo…”
C’è una
tendenza diffusa a minimizzare la portata dell’orrore, della gestione metodica
(da campo di sterminio, appunto), istituzionale, sociale e politica del
“fenomeno narco”. Da un lato la superficialità dell’analisi del potere,
riprodotta dai media mainstream, che al massimo sottolinea solo gli aspetti
“folckoristici”, aneddotici e incluso “brillanti” (tipo il Chapo Guzman che
apparve nella lista di milionari di Forbes) di molteplici “casi isolati”; e
questa è quella che più diffusamente giunge in Europa, una scelta narrativa del
potere per distrarre l’attenzione sulle specificità sistemiche del “problema”.
Dall’altro lato c’è la normalizzazione che la stessa società fa (che facciamo
anche noi che ne denunciamo la barbarie) per sopravvivere: si esce di casa, si
va al lavoro o al supermercato, d’un tratto degli spari e… si aspetta, in un
riparo improvvisato, che finisca la sparatoria e si riprende poi il tran-tran.
O arriva un messaggio della figlia del vicino “scomparsa”, lo si legge con un
sospiro, si diffonde nelle chat e si torna alle occupazioni quotidiane, magari
sussurrando una preghiera e sperando sommessamente che non tocchi mai a una
figlia propria, a un parente, a un amico del cuore. In Messico
apparentemente la vita scorre regolare, i bambini vanno a scuola, ogni tanto le
chiudono per qualche sparatoria, ma i bambini sanno – come in caso di terremoto
– che si devono accovacciare sotto i tavoli o sdraiarsi al suolo, appunto,
perché la balacera è vissuta come un’altra catastrofe naturale
qualsiasi, interiorizzata e affrontata come tale. Tra la
banalizzazione dei media e l’assuefazione alla violenza come istinto di massa
di sopravvivenza si getta la polvere (dei corpi carbonizzati) sotto il tappeto
della normalità. E così, nonostante certi momenti di indignazione, ribellione e
forte protesta popolare (come le mobilitazioni del 2011 del Movimento per la
Giustizia con Dignità, quelle del 2014/2015 per i 43 di Ayotzinapa, la
creazione di gruppi di “autodifesa” soprattutto nei territori indigeni), siamo
giunti a mezzo milione di persone assassinate, oltre 120.000 desaparecidos e
alla scoperta dei centri di sterminio in questa grande fossa comune chiamata
Messico.
La gravità
dei crimini riscontrabili nel ranch di Teuchitlán, perquisito
dalle forze dell’ordine nel 2017 e poi nel settembre del 2024 che “non avevano
notato la presenza di forni e altri dettagli”, mette a nudo nuovamente la rete
di complicità fitte fra il crimine e lo Stato messicano. La gestione di un centro di
addestramento ed eliminazione fisica dei corpi a questo livello può funzionare
solo d’accordo con il silenzio – e possibilmente l’appoggio diretto – delle
istituzioni politiche e di procurazione della giustizia. Un genocidio, un
crimine di lesa umanità veniva perpetrato alle porte dalla seconda città più
importante del Messico, dove la gente veniva adescata nelle stazioni dei
pullman, portata lì, vessata fisicamente e sessualmente, istigata a uccidere e
– chi sopravviveva all’inferno – obbligata a farsi sicario, trasformarsi in
macchina di morte per la produzione e l’accumulazione di ricchezza del CJNG.
Tutte le altre persone torturate atrocemente e poi bruciate, spazzate via come
immondizia. Fumo.
Le domande
che ne seguono sono terribili: quanti altri centri di sterminio simili
stanno funzionando e sono tollerati in altri posti del Messico? Fino a
quando volteremo lo sguardo altrove, permettendo alle imprese, ai governi e al
loro braccio armato di disporre così atrocemente dei nostri corpi, del nostro
futuro? Fino a quando accetteremo di vivere con la paura e il terrore nell’anima?
E per chi
vive dall’altra parte dell’oceano: fino a quando le serie sul narco e
il turismo inconsapevole frivolizzeranno le nostre conversazioni sul Messico? Fino
a quando penseremo che quelle “due strisce” date il sabato sera non ci fanno
complici del lato più feroce del capitalismo? Fino a quando resteremo
indifferenti? Fino a quando ci assolveremo?
Nodo Solidale è più di un collettivo che lega – attraverso iniziative di
solidarietà e informazione – persone che vivono in Messico e Italia,
abbracciando i principi della Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona,
lanciata dall’EZLN, come la condivisione dei saperi di CIDECI Unitierra.
“Quella che viviamo è una guerra contro l’umanità – scrivono – E oggi quanto
c’è di più umano è proprio lottare contro questa guerra”
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