1. Rabbia. Perché siamo qui? Veniamo da
luoghi e movimenti molto diversi, ma c’è qualcosa che ci unisce e che farà sì
che questo incontro spicchi il volo. Che cos’è? La rabbia. Veniamo qui (People’s
Platform Europe, 14/16 febbraio 2025) per esprimere la nostra
rabbia. La nostra rabbia contro la militarizzazione del mondo, la nostra rabbia
contro il riscaldamento del pianeta che minaccia sofferenze e di portarci
all’estinzione, la nostra rabbia contro il trattamento disumanizzante dei
migranti, la nostra rabbia contro i femminicidi e tutta la violenza del
patriarcato.
Ma non solo
rabbia. Speranza. Non veniamo solo perché siamo arrabbiati, ma perché vogliamo
cambiare le cose. La speranza è la nostra grande forza che ci spinge. Non una
speranza felice, non un ottimismo velleitario, ma una speranza arrabbiata. Una
speranza determinata e ragionata di potere, dovere e voler cambiare il mondo.
Rabbia-speranza.
E in questo momento di paura, è anche disperazione. Sono stato invitato a
parlare all’incontro organizzato dagli zapatisti alla fine di dicembre su
“Resistenze e ribellioni”, un grande onore per me, ma non sono potuto andare
perché mi ero ammalato. C’è una parola che Marcos ha usato proprio alla fine
del suo ultimo intervento: disperazione. Il capitalismo genera disperazione. In
tutti i modi. A livello personale, la profonda e crescente incertezza della
vita: come posso entrare all’università o trovare un lavoro, cosa farò dopo, in
che tipo di mondo vivranno i miei figli, in che modo posso trovare un posto
decente dove vivere. Il tutto fa parte di una crescente disperazione sociale:
guardate cosa sta succedendo ai migranti, guardate la distruzione della
biodiversità da cui dipende la vita umana, guardate il riscaldamento del
pianeta, sempre più fuori controllo, guardate il genocidio a Gaza, guardate i
crescenti pericoli di altre guerre.
Rabbia-speranza,
ma rabbia e speranza sullo sfondo di uno sconforto che non accetteremo. La
disperazione non è sconforto. È il rifiuto di cedere, il rifiuto di rinunciare
alla rabbia e alla speranza, anche se viviamo in un mondo che ci dice che siamo
pazzi a continuare a pensare che un altro mondo sia possibile. Nei dizionari,
la disperazione è spesso equiparata allo sconforto, ma non è così. Ho trovato
una definizione che si avvicina di più a ciò che proviamo: “Disperato: chi
mostra la volontà di correre qualsiasi rischio per cambiare una situazione
negativa o pericolosa”. Forse non “qualsiasi rischio”, ma sì, una frenesia di
cambiare una situazione negativa o pericolosa, una determinazione a cambiare
una situazione negativa, la situazione negativa che è il capitalismo. La
disperazione di cambiare il mondo perché sappiamo che il mondo non deve
necessariamente essere così, che abbiamo la capacità di creare qualcos’altro.
La disperazione include la frustrazione, la frustrazione di ciò che potremmo fare,
la frustrazione della nostra ricchezza, della nostra capacità di creare
qualcosa di diverso. La ricchezza è molto importante. Partiamo dalla nostra
ricchezza, non dalla nostra povertà, non da un “noi povero” ma da un senso di
ricchezza. Quello che vedo davanti a me non è povertà ma ricchezza: un
sorprendente incontro di ricchezze provenienti da tanti Paesi e movimenti
diversi. Questo è ciò che renderà questa conferenza molto speciale. Dobbiamo
costruire sulle nostre ricchezze, non sulle nostre povertà.
E così, lo
slogan che appare sullo schermo dietro di me: “Organizziamo la nostra
disperazione”, è l’appello che prendo dal discorso di Marcos. E organizzare la
nostra disperazione significa anche: organizzare la nostra rabbia, organizzare
la nostra speranza, organizzare la nostra frustrazione, organizzare la nostra
ricchezza.
Se parlo
così tanto degli zapatisti, non è in alcun modo perché li rappresento, ma
perché li ammiro e anche perché sento che la loro voce dovrebbe essere presente
in un grande incontro di resistenze e ribellioni come questo.
2.
Disperazione:
determinazione a cambiare una situazione negativa o pericolosa. Ecco dove ci
troviamo, in una situazione molto brutta e pericolosa. Gli zapatisti la
chiamano la Tempesta, la “Tormenta”. La sentiamo intorno a noi, sentiamo i
venti ululare sempre più forte ogni giorno che passa. E sappiamo che
probabilmente peggiorerà molto, che potrebbe portare a una catastrofe molto più
grande, persino all’estinzione dell’umanità.
La
disperazione è speranza nella tormenta, speranza nella e contro la tormenta,
speranza nella e oltre la tormenta. Non vogliamo solo sopravvivere alla
tempesta, ma fermarla e creare qualcos’altro. Marcos immagina una conversazione
telefonica con una ragazza che vive nel futuro, tra 120 anni. I compagni che
maneggiano tecnologie digitali sofisticate e che hanno organizzato lo streaming
della conferenza zapatista sono riusciti a stabilire un collegamento con una comunità
dell’anno 2145. È una giovane ragazza a rispondere al telefono e Marcos chiede
“Come stai?”. La ragazza risponde “Dipende”. Marcos impreca, perché avrebbe
preferito che ad alzare la cornetta fosse stato un adulto. “Come sarebbe a dire
‘dipende’?”, chiede. E la ragazza risponde: “Dipende da te”, e la connessione
si perde. Dipende da te, cioè dipende da noi, dalla nostra capacità di
organizzare la nostra disperazione, la disperazione che ci ha portato qui oggi.
Il tipo di vita che faranno i nostri trisnipoti, e se mai esisteranno, dipende
da noi.
3. La
disperazione è un grido. A un certo punto della loro vita tutti i presenti in questa sala
avranno urlato: “NO! Il mondo non può essere così! Non può essere vero! Non
possiamo accettarlo! NO!” Solo pensare a Gaza significa urlare. Vedere ciò che
Trump e la Nuova Destra in tutto il mondo stanno dicendo e facendo è sentire il
grido che sale dentro di noi.
Noi
gridiamo. È il nostro grido. È un grido che deve essere ascoltato e che si
sente in ogni città e paese da cui proveniamo. Può essere incentrato su
un’organizzazione, su una lotta particolare in un altro luogo, ma ciò che conta
è soprattutto la forza del nostro grido nei luoghi nei quali viviamo, a Dublino
o a Belgrado o ad Atene o a Berlino.
Organizzare
la nostra disperazione, organizzare il nostro grido. Ma qui c’è una tensione. A
volte il nostro grido non vuole essere organizzato, vuole solo gridare.
Un’organizzazione che smorza il grido, che gli dice di tacere, non è più la
voce della nostra disperazione. Per citare ancora il discorso di Marcos in
Chiapas, “La disperazione ha ragioni che la ragione non conosce”. In qualsiasi
organizzazione, la disperazione diventa un fattore di ribellione. Organizzare
la disperazione è come imbrigliare un cavallo selvaggio, ma se la spontaneità
viene meno, non ha senso imbrigliarla.
La
disperazione è necessariamente il nostro punto di partenza per pensare a un
cambiamento radicale, ma è anche pericolosa e imprevedibile. Dopo le rivolte
razziali in Sudafrica nel 2020, Abahlali baseMjondolo, l’importante movimento
degli abitanti delle baracche, ha detto: “Abahlali ha sempre avvertito che la
rabbia dei poveri può andare in molte direzioni. Abbiamo avvertito più volte
che siamo seduti su una bomba a orologeria”. Ecco perché è importante
organizzarsi e pensare.
La
disperazione ha ragioni che la ragione non conosce. La rabbia dei poveri, la
disperazione dei poveri può andare in molte direzioni. Nel mondo attuale, c’è
una crescente disperazione sociale generata dagli orrori della forma dominante
di organizzazione della società, il dominio del denaro, il dominio del
capitale, ma sta andando nella direzione sbagliata, intensificando gli orrori
del sistema invece di correggerli. Il fascismo, o il neofascismo, non è un sostantivo,
non è un’ideologia precostituita, ma una disperazione, una rabbia contro il
sistema che va nella direzione sbagliata, rafforzando il sistema. Dobbiamo
riconquistare questa disperazione, farla nostra.
Organizzare
la disperazione, ma come? Forse dobbiamo pensare all’organizzazione come a
un’esondazione, a un’espansione. Spesso le organizzazioni sono considerate come
strutture chiuse, delimitate. Lo Stato è una struttura chiusa, una forma di
organizzazione che si basa sulla distinzione tra un “loro” e un “noi”, tra
stranieri e cittadini, una distinzione assassina che ha portato all’uccisione
di milioni di persone nell’ultimo secolo, una distinzione che porta
all’annegamento di oltre mille persone nel Mediterraneo ogni anno e alla morte
di un numero simile di persone al confine tra Stati Uniti e Messico. Anche un
partito politico è una forma di organizzazione che delimita, che separa gli uni
dagli altri. Ma ci sono altre forme di organizzazione. Mi sembra che
l’imponente organizzazione che sta dietro a questo incontro sia
un’organizzazione aperta, che non delimita. L’obiettivo, immagino, è che
l’effetto sia come quello di una cascata, dovei le idee generate e discusse qui
vengono riportate in tutti i nostri diversi luoghi, a Londra o a Parigi o a Varsavia,
e nelle nostre attività, nelle canzoni che cantiamo, nelle e-mail che
scriviamo, nei seminari a cui partecipiamo, diffondendosi.
In altre
parole, dobbiamo pensare all’organizzazione come a qualcosa che rompe la logica
del sistema, che rompe la logica della definizione e dell’identificazione,
dell’io e del noi. La disperazione della destra riproduce il capitalismo perché
adotta la logica degli uni contro gli altri e la spinge agli estremi. Se la
nostra organizzazione è speculare a quella del capitale, come un esercito che
combatte contro un altro, allora riproduciamo ciò contro cui stiamo lottando.
Nella lunga storia della lotta contro il capitalismo, ci sono in realtà due
tradizioni: la tradizione dei partiti, strumentale, orientata allo Stato, e
quella che cerca di articolare la rabbia e le idee dal basso, cioè la
tradizione delle comuni, dei comitati o delle assemblee. E naturalmente, per
ragioni storiche o di altro tipo, ci sono anche organizzazioni che combinano le
due tradizioni in un rapporto di tensione, produttiva o distruttiva.
4. Le nostre
disperazioni assumono forme diverse, come è giusto che sia. Il capitalismo è un’Idra
dalle molte teste, che ci attacca continuamente in molti modi diversi. Per
alcuni di noi è l’attacco ai migranti che ci fa arrabbiare di più, per altri è
il numero crescente di femminicidi, per altri ancora la distruzione della
biodiversità, il riscaldamento del pianeta, la militarizzazione della società.
Tutte queste cose ci terrorizzano, ma poi decidiamo di concentrarci su una o
sull’altra, e questo si riflette nella struttura dei workshop di questo
incontro. I workshop sono necessariamente incentrati su temi particolari:
l’ascesa del militarismo, l’ascesa del fascismo, la distruzione dell’ambiente
naturale e così via. Questa attenzione al particolare è necessaria, ma solleva
sempre un problema, quello di come passare dal particolare all’universale. È il
problema dell’Idra: tagliata una testa, ne spunteranno altre tre. Dobbiamo
colpire il cuore, il cuore senza cuore del mostro. Finché vivremo in una
società dominata dal denaro, dominata dal capitale, cioè finché vivremo in una
società in cui il legame tra le persone si stabilisce attraverso lo scambio di
merci, tutti questi orrori continueranno a ripetersi in un modo o nell’altro.
Fino a che non si riuscirà a creare una società in cui il legame sociale non
sia stabilito attraverso il denaro ma attraverso una sorta di condivisione,
probabilmente non ci sarà una via di scampo dalla spirale di distruzione in cui
ci troviamo.
Ma come
possiamo esprimere questo concetto? Dobbiamo partire dal particolare e poi
espanderci. La vecchia tradizione rivoluzionaria iniziava forse al contrario,
dicendo “il vero problema è il capitalismo, se non ci liberiamo di questo,
tutto il resto saranno solo riforme che riprodurranno il sistema”. Credo che
ora si debba partire dall’altra parte, dalle preoccupazioni più immediate della
gente: la lotta per fermare la distruzione della biodiversità, per fermare
l’uso dei combustibili fossili, per porre fine al razzismo. E poi dobbiamo
espanderci: e, a proposito, l’unico modo per fermare la distruzione della
biodiversità, o l’unico modo per fermare il riscaldamento globale, è abolire il
potere del denaro, e questo significa abolire il denaro come connessione sociale
e creare qualcos’altro. Penso a questa politica come a una politica del Post
Scriptum, in cui aggiungiamo un P.S. alle nostre lotte particolari: “Conservare
la biodiversità e P.S. abolire il denaro”. In altre parole, non pensiamo a noi
stessi come a un gruppo illuminato di attivisti rivoluzionari separati dalle
“masse”, ma partiamo dalla crescente disperazione di massa nel mondo e ci
allarghiamo da lì per creare connessioni. Creare connessioni e porre domande.
L’organizzazione è sempre una domanda, non una risposta.
5. Vogliamo
vincere. Sembra quasi
scioccante dirlo, siamo così abituati a perdere. Ma ora vogliamo e dobbiamo
vincere. Dobbiamo fermare la dinamica che sta distruggendo il mondo, vogliamo
che la bambina tra 120 anni abbia una vita e una vita di libertà e felicità.
Questo significa che dobbiamo spezzare il potere del denaro, la dinamica del
capitale. Sembra impossibile, folle. Siamo pazzi, perché l’unico modo per
essere umani è essere pazzi, l’unico modo per essere umani è dire No al mondo della
disumanità e creare qualcos’altro.
Abolire il
capitalismo significa creare qualcos’altro. Se il capitalismo è costruito sul
fatto che ci relazioniamo l’un l’altro attraverso lo scambio di merci, cioè
attraverso il denaro, allora l’unico modo in cui possiamo abolire il
capitalismo è creare altri modi di relazionarci l’un l’altro, altre forme di
connessione sociale – che è ciò che i popoli del Rojava e le aree zapatiste del
Chiapas – e un milione di piccoli gruppi in tutto il mondo – stanno già facendo.
Ma non è abbastanza. Dobbiamo continuare a creare una sorta di condivisione
comune in tutti gli ambiti dell’attività umana, una sorta di comunanza.
Come Sisifo,
stiamo spingendo dei massi su per una collina e spesso ci sembra di essere
condannati a farlo per sempre. Ma no, stiamo spingendo sempre più in alto e
vogliamo raggiungere un punto di svolta. E mentre andiamo avanti, scopriamo due
cose. In primo luogo, che è più difficile di quanto pensassimo: la cima della
collina sembra arretrare man mano che procediamo. Ma in secondo luogo, ci
rendiamo conto che questa collina, questo capitalismo che stiamo cercando di
superare, è in realtà molto più fragile di quanto pensassimo. La sua
riproduzione si basa su un debito in continua espansione, perché non è in grado
di generare abbastanza plusvalore per la propria espansione. La sua crescita è
sempre più basata su una finzione e questa finzione potrebbe crollare molto
rapidamente, come è successo nel 2007/8, ma ora forse su una scala molto più
ampia. La crisi del 2007/8 è stata un evento che ha cambiato radicalmente i
contorni della possibilità e dell’impossibilità nel mondo, anche se non
necessariamente in meglio. Siamo in una tormenta, ma la tormenta non è solo
disastro, è anche volatilità, fragilità, imprevedibilità. E in questa tormenta
stiamo spingendo i nostri massi su per la collina e cerchiamo di raggiungere il
punto di svolta, la cima della collina dove le pietre rotoleranno giù e
prenderanno il sopravvento e sempre più persone vedranno che quello che stiamo
dicendo è buon senso, che ovviamente dobbiamo sbarazzarci del capitalismo e
creare qualcos’altro.
Ed eccoci
qui, in questa grande conferenza, a spingere massi su per la collina, a
costruire la nostra forza e a espanderci perché sappiamo che dobbiamo creare un
mondo diverso. Questo è ciò che faremo nei workshop: spingere e spingere verso
il punto di svolta, sapendo che questa volta dobbiamo vincere. E che vinceremo.
Traduzione
per Comune di Mariasilvia Giamberini, Pisa.
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