venerdì 27 gennaio 2023

Chi e come può accedere alla nostra eredità digitale - Giuditta Mosca

  

Lo scorso 27 settembre il New York Times ha diffuso la notizia dell’imminente pubblicazione di una biografia postuma e non autorizzata di Anthony Bourdain, noto cuoco e personaggio televisivo morto suicida nel 2018. Due giorni dopo il sito Slate ha approfondito l’argomento chiedendosi quanto fosse lecito che persone estranee potessero accedere ai dati di un defunto, considerato che la biografia è stata scritta attingendo a piene mani sia al computer sia ai dispositivi mobili dello stesso Bourdain, “parte della sua eredità”.

Se qualcuno ha potuto accedere ai suoi dati privati, inclusi i messaggi, significa che anche i nostri potranno essere non solo letti ma anche diffusi pubblicamente dai nostri eredi? si è chiesto Slate. O magari i dati di qualcuno che non c’è più e con cui avevamo un rapporto di qualche tipo? Più in generale, chi ha il diritto di accedere ai dati di un defunto, in quali situazioni e in base a quali autorizzazioni? E quali sono i limiti legali e tecnici che potrebbero rendere difficile o impossibile per degli eredi accedere a dispositivi, profili e magari anche portafogli online? C’è infatti anche da considerare che i dispositivi di chi è mancato possono essere protetti da password. O che possedesse delle criptovalute, e qui le possibili complicazioni sono diverse.

 

Il dilemma di cosa fare con un dispositivo personale

Che sia protetto da password (codice di sblocco) o accesso mediante dati biometrici (impronta digitale o riconoscimento del volto) ci si trova davanti a un bivio: sbloccare o non sbloccare lo smartphone di un defunto? Nell’ipotesi di riuscire a trovarne il codice di sblocco, esiste davvero il diritto di scartabellare nei rapporti che il defunto ha intrattenuto con altre persone (ancora vive) e che, magari, avrebbe voluto mantenere inaccessibili ai propri familiari?

Eppure, accedere ai dati del defunto rientra nelle pratiche da svolgere quando una persona cara passa a miglior vita, infatti, ci sono buone possibilità che avesse sottoscritto online vari tipi di contratti (per la fornitura di energia elettrica o del gas, così come non è del tutto fuori luogo immaginare che avesse una relazione bancaria online o degli abbonamenti a contenuti multimediali in streaming). Esistono diversi tipi di rapporti commerciali che prevedono la totale (o quasi totale) assenza di corrispondenza cartacea, sostituita da comunicazioni via email. 

Dal punto di vista tecnico-tecnologico, sbloccare uno smartphone può non essere una missione impossibile, soprattutto quando si tratta di modelli non recenti. Ma la questione va oltre: con quale diritto lo si può sbloccare (in assenza di indicazioni chiare del suo precedente proprietario)?

 

Cosa dice la legge italiana: accesso consentito ma con limiti

Per la legge i defunti hanno diritto alla privacy, come spiega Giovanni Ziccardi, professore di Informatica giuridica all’Università degli studi di Milano e autore, sull’argomento, del volume: “Il libro digitale dei morti. Memoria, lutto, eternità e oblio nell’era dei social network” (Utet, 2017): “Da tempo la normativa sulla protezione dei dati tratta anche il problema della protezione dei dati delle persone decedute. Il motivo è che è riconosciuto anche alle persone decedute una sorta di controllo sui propri dati anche post-mortem. Già il Codice Privacy disciplinava, prima del Gdpr, questo tema, e anche post-GDPR la normativa italiana – opportunamente adeguata – continua a disporre delle regole sul punto. In estrema sintesi, la normativa stabilisce che si possano ottenere i dati personali di una persona deceduta soltanto per ragioni familiari meritevoli di protezione, per chi ha un interesse proprio o se agisce a tutela dell’interessato come mandatario. Il riferimento è l’articolo 2-terdecies del Codice Privacy. Se ci pensiamo, è un segnale di civiltà cercare di trovare un compromesso tra la privacy dei defunti e permettere, comunque, a chi dovesse avere necessità di quei dati di ottenerli. Le ragioni degli affetti , ossia le ragioni familiari, escludono però l’accesso ai dati per mera curiosità. Occorre una ragione meritevole di protezione. In sintesi, quindi, è consentito un accesso ai dati di una persona deceduta ma con dei limiti ben stabiliti dalla legge. 

Un caso recente, che ha riguardato un giovane chef morto in un incidente d’auto, si è concluso con un invito da parte del Tribunale di Milano alla piattaforma di collaborare per recuperare dei dati del defunto da dare alla famiglia: si trattava di un insieme di ricordi, di ricette, di foto e video che i parenti volevano custodire come memoria. In questo caso, la ragione degli affetti è stata vista dal Tribunale come centrale per poter ottenere quei dati.
La domanda relativa al diritto alla privacy dei defunti non ha però sempre una risposta ben definita ma multistrato. L’argomento non può ritenersi esaurito perché, nell’impossibilità di stabilire per quale motivo il defunto non si sia fatto cruccio di fare avere agli eredi le password per accedere ai suoi dispositivi, si dà per scontato che non lo abbia fatto perché non voleva farlo. 

 

Distinguere tra i ricordi e le conversazioni private con terzi

Questo ha delle conseguenze sia sul piano giuridico, sia su quello pratico, come spiega ancora Ziccardi: “Il problema principale, in questo caso, non riguarda l’accesso in sé, ma i contenuti. I contenuti ritrovati su un dispositivo di una persona deceduta, e trattati dai parenti (perché anche la semplice consultazione è un trattamento di dati) possono essere di due tipi: contenuti legati a ricordi, ad esempio foto, video, messaggi, che hanno un valore affettivo e per così dire sentimentale per i parenti, e contenuti che riguardano anche altre persone (si pensi a corrispondenza riservata, chat con soggetti terzi, documenti di lavoro segreti o da non rendere pubblici).
A mio avviso, – prosegue Ziccardi – nel caso gli eredi dovessero entrare in possesso di dati digitali contro la volontà del defunto (che, ad esempio, non aveva volontariamente comunicato ai parenti il pin o i codici di accesso, né aveva nominato eredi digitali), occorrerebbe prestare particolare attenzione a mantenere riservati e, nel caso, distruggere il secondo tipo di dati, soprattutto perché possono coinvolgere persone ancora vive. La motivazione dei parenti è comunque, solitamente, la prima: cercare di recuperare più ricordi possibili in tutti i formati. D’altro canto, può esistere un defunto che in vita abbia manifestato l’intenzione chiara di escludere tutti i parenti dall’accesso ai suoi dati (ad esempio prevedendo codici e password particolarmente complessi e non rivelandoli)”.

 

La possibilità di nominare “eredi digitali” sulle piattaforme

Tuttavia, anche lasciare i codici di sblocco alle persone care o agli eredi equivale a un testamento digitale subordinato alle norme dei codici di legge: “Tutti i sistemi più usati permettono, oggi, di nominare degli eredi digitali che potranno operare sui dati secondo le indicazioni date dal defunto – spiega Ziccardi – ad esempio, la persona deceduta potrà sia trasferire i suoi codici di accesso, per permettere la consultazione di tutti i suoi dati, ma anche, ad esempio, indicare all’erede di cancellare tutte le informazioni, o di trasformare il proprio profilo in commemorativo. Occorre, però, fare attenzione al tipo di beni, e ambienti, cui si potrà accedere. È chiaro che se, ad esempio, sarà garantito l’accesso all’home banking o a un conto corrente online, andranno comunque rispettate le regole tradizionali dell’eredità e delle ripartizioni previste per legge”. 

Allo stesso tempo vi sono defunti che hanno accumulato comunque un grandissimo valore con la loro presenza online: si pensi al valore di un sito, o di un profilo, o ancora di un canale YouTube, calcolato in base ai follower o all’indotto pubblicitario. “Anche in questo caso andranno seguite le regole ‘tradizionali’ che disciplinano le eredità”, spiega Ziccardi.

Tutto ciò vale tanto per i dati fisicamente custoditi nei dispositivi quanto per quelli online e non potrebbe essere che così, poiché i servizi di cloud computing raccolgono copie di ciò che c’è sui dispositivi fisici. Il professor Ziccardi evidenzia come i dati siano trattati senza discriminazioni a prescindere dalla loro archiviazione: “Tendenzialmente i dati sono trattati tutti allo stesso modo, indipendentemente dalla loro collocazione. Anzi, in molti casi sono gli stessi dati che sono presenti in più ‘luoghi’.” 

Si pensi, ad esempio, al backup del nostro cellulare che può essere almeno in altri due luoghi: il nostro computer e su un servizio di cloud. Spesso si possono trovare dati che sono cifrati in un luogo (ad esempio: sul telefono) a cui non si riesce ad accedere ma non sono cifrati, ad esempio, sul cloud o in un servizio di backup.
“È prassi, quindi, domandare ai gestori di tali servizi l’accesso. Può anche essere una buona strategia ‘investigativa’: nel caso il dispositivo del defunto fosse bloccato, o inaccessibile, il cercare di capire se i dati possano essere in altri luoghi, online o offline, o in diversi dispositivi”.

 

Come si comportano le piattaforme

Facebook ha una procedura, chiamata contatto erede, che consente a ogni utente di nominarne un altro, quale curatore del proprio account dopo il suo decesso. In assenza di questa scelta che l’utente deve fare prima del suo decesso, Facebook non concede l’accesso ad account di persone defunte.
Pure nominando un erede, questo non gode di totale libertà, potendo scegliere tra due opzioni: o la cancellazione dell’account o trasformarlo in un profilo commemorativo che, di suo, prevede funzionalità ridotte, limitandosi a permettere ai contatti di condividere ricordi. Gli account commemorativi si riconoscono dalla dicitura “In memoria di” posta accanto al nome della persona a cui il profilo è intestato.

Instagram adotta la medesima filosofia di Facebook con l’unica differenza che non prevede la figura del contatto erede e che, di conseguenza, dietro richiesta validata da un certificato di morte, un account può essere trasformato in commemorativo.

Twitter sostiene di non essere in grado di concedere l’accesso all’account di un defunto a chicchessia e a prescindere dal grado di parentela dimostrato, permettendo però di cancellarne il profilo riempiendo un modulo che poi verrà esaminato dalla stessa Twitter prima di essere accettato. Tra i documenti che occorre allegare alla richiesta figurano sia il certificato di morte sia copia del documento di identità del richiedente.

Linkedin permette di rendere commemorativo o di chiudere l’account di una persona passata a miglior vita, e in entrambi i casi chiede copia del certificato di morte.

TikTok non prevede altro che la cancellazione di un profilo e, dopo avere inviato un email all’indirizzo feedback@tiktok.com, verranno inviate le istruzioni relative ai documenti da inviare. 

Google ha un modello simile e prevede anche che ognuno possa impostare la cancellazione dell’account dopo un periodo prolungato di non utilizzo o, in alternativa, permette di scegliere fino a 10 contatti con i quali condividere dati e informazioni.

 

I memoriali

Sono procedure, spiega il professor Ziccardi, che hanno un fondamento giuridico: “Occorre cercare sempre di equilibrare le politiche delle piattaforme, che assumono valore per gli utenti, con le norme previste dai vari ordinamenti. Ad esempio, nel caso un utente morisse e i familiari volessero continuare a farlo ‘vivere’ aggiornando il suo profilo come se fosse lui/lei a parlare (perché in possesso delle credenziali dell’account), se la piattaforma venisse informata con una “death proof” (ad esempio: un articolo di giornale) della morte di quell’utente, trasformerebbe immediatamente quell’utenza in utenza commemorativa togliendone la disponibilità ai parenti. Questo, come è chiaro, per tutelare la fiducia degli altri utenti e, in un certo senso, per preservare l’ambiente online. Le piattaforme sono in generale molto preoccupate circa la presenza di profili di persone decedute (anche da un punto di vista dell’immagine) e cercano, pertanto, di controllarli o di confinarli in determinate aree”.

 

Quando l’eredità digitale è anche economica: il caso delle criptovalute

Come devono comportarsi gli eredi se il defunto avesse accumulato delle criptovalute? “Qui abbiamo due problematiche tecniche – spiega a Guerre di Rete il consulente informatico forense Paolo Dal Checco – se le credenziali sono relative a cambiavalute online (exchange), ovvero aree online dove il defunto aveva messo le sue criptovalute, può essere inutile conoscerle perché ormai non sono quasi mai utilizzate da sole. Oltre alle credenziali è sempre presente anche l’autenticazione a due fattori e quindi occorrono l’accesso alla posta elettronica, al cellulare del defunto oppure alle sue app di autenticazione come Google Authenticator”.
Questo significa che, anche conoscendo le credenziali, non è detto che gli eredi riescano ad accedere, a meno di non contattare l’exchange dimostrando di essere legittimati ad accedere, ma potrebbe essere più difficile con gli exchange esteri.

“Se, invece – prosegue Dal Checco –  il defunto ha comunicato agli eredi le chiavi private di un wallet locale (la parte crittografica del protocollo, diversa dalle credenziali d’accesso richieste da un exchange online) a quel punto non c’è nessuna difficoltà tecnica. L’aspetto giuridico sarà affrontato dai giudici che stabiliranno come gli eredi avranno diritto di muovere le criptovalute, ma dal punto di vista tecnico, gli eredi devono solo importare le chiavi private nei vari wallet per avere accesso al loro contenuto. 

Può darsi anche che il defunto abbia lasciato un wallet hardware, oggetti che sembrano delle pendrive e che in alcuni casi, soprattutto se obsoleti, possono essere forzati, ma non è una cosa comunque facile”.

 

La privacy dei morti è anche quella dei vivi

Uta Kohl, professoressa della University of Southampton (Regno Unito) ha offerto degli spunti interessanti tracciando un parallelo tra la privacy post-mortem e la confidenzialità in ambito medico partendo da un presupposto elementare: così come un medico è tenuto a mantenere il riserbo sul quadro clinico del defunto, deve esistere anche un riserbo digitale.

Secondo la professoressa Kohl, “la riservatezza – e, per estensione, la privacy delle informazioni – raramente può essere collocata in un’unica relazione binaria isolata tra un portatore di doveri e un titolare di diritti, ma è invischiata nella grande e disordinata socialità della vita, che comporta molteplici relazioni di fiducia che si sovrappongono e sono interdipendenti”. Inoltre: “Ciò che la cosiddetta privacy post-mortem ci dice sulla privacy è che questa ha un chiaro orientamento verso il futuro; alla morte del titolare dei diritti, si concentra sui vivi, come strumento per prendere decisioni autonome e libere dallo sguardo pubblico. La privacy post-mortem amplifica anche il fatto che la privacy si situi nelle relazioni e come tale sia profondamente sociale; non è protettiva dell’individuo rispetto alla comunità, ma degli individui all’interno delle comunità”.
L’eredità digitale, conclude la professoressa Kohl, non sconvolge i fondamenti della privacy ma ne accentua il significato, rafforzando l’argomentazione sulla natura profondamente sociale della privacy.

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