Ci risiamo: nei pressi di Santa Cesarea Terme (Le) un cane, un paio di settimane fa un maremmano reo – a quanto pare – di avere ucciso per fame due galline, è stato legato al paraurti di una macchina e trascinato fino a incontrare un’orribile morte. Autore dell’ignobile gesto il proprietario delle galline, un uomo anziano, che lo ha costretto a correre alla velocità dell’auto fino a quando non ce l’ha fatta più: a quel punto il cane si è lasciato andare ed è stato trainato sull’asfalto. Una guardia ambientale (Dania Carelli, che ha poi dato il nome di White al cane) li ha incrociati: con ammirevole determinazione ha costretto l’uomo a fermarsi e ha fatto intervenire le forze dell’ordine. Sta facendo il giro di molti giornali e siti on line la foto che vede il povero animale a terra, morto, ancora umiliato dal cappio al collo, e, sullo sfondo, (oscurato dai media main stream, ma non dai social) l’autore di tanta nefandezza, mano in tasca e sguardo altrove.
Episodio in drammatica fotocopia di quello che a Priolo Gargallo (Sr,
maggio 2019) ha visto un altro cane fare identica fine ad opera di un
altro sessantenne che ha poi gettato in un campo, a mo’ di spazzatura, quel che
restava di lui mentre era ancora in vita: Matteo (questo il nome con cui ci si
è poi riferiti alla povera bestia) è morto poco dopo, ridotto a carne
smembrata, sul tavolo del veterinario da cui era stato portato dai soccorritori,
allertati da due coraggiosi ragazzi, che avevano avuto la prontezza di scattare
foto che riprendevano anche il numero di targa dell’auto.
Lecito pensare che in entrambi i casi, in assenza di testimoni, il
rinvenimento dei corpi martoriati dei cani non avrebbe indotto a nessuna
indagine, perché collegato a fatti di consueta malvagità, come dimostrano i resti
di tanti animali ritrovati in discariche con segni di torture, ai quali solo in
casi assolutamente eccezionali fa seguito al più un brevissimo trafiletto su
qualche notiziario locale particolarmente sensibile. È auspicabile che
l’indignazione sollevata da questo ennesimo episodio non si esaurisca in un
orrore solubile in breve nell’indifferenza dell’abitudine, ma costringa a
riflettere su quale possa essere il percorso di formazione di quella oscenità
che porta degli uomini a infierire contro esseri incatenati e indifesi,
insensibili alla sofferenza che urla sotto i loro stessi occhi, e anzi
pervicacemente determinati a portarla a termine. Fino alla morte. Siamo di
fronte al male allo stato puro: ingiustificabile, estremo, opera compiaciuta
di menti lucide; non delitti d’impeto, generati da emozioni che
esondano e obnubilano i pensieri, ma massacri precisi e scrupolosi.
I cupissimi tempi che stiamo vivendo, fianco a fianco con l’imperversare di
una guerra, feroce mezzo di risoluzione dei conflitti che ci eravamo illusi di
potere archiviare nella barbarie del passato, sono un pozzo senza fondo di
comportamenti simili: tra tutti l’ignominia delle camere di tortura è quella che più si
attaglia alla dinamica che vediamo proposta e riproposta negli episodi di cui
stiamo parlando. E che, lo sappiamo fin troppo bene, sono solo la punta
dell’iceberg della violenza gratuita contro i nonumani, che solo in casi
ripresi edamplificati dai media raggiungono l’opinione pubblica: la
cagnolina Pilù (Pescia, 2015), orrendamente torturata a morte per
ritorsione contro la fidanzata da un tizio, che completa poi la sua opera con
la pubblicazione on line del video con tutte le fasi dell’orrore; il
gattino ucciso a bastonate dal bidello in una scuola elementare di
Gioia Tauro perché reo di essere entrato abusivamente nel cortile; il
cane Angelo massacrato per divertimento da tre balordi a Sangineto con
il vanto successivo di un filmato sui social. Solo per citare i più famosi: per
avere dare un’idea dell’ampiezza del fenomeno, più che mai utili i
“Rapporti sul maltrattamento Animale in Italia”, elenchi dei fatti di cronaca
registrati dai media in due diversi anni, stilati dalla lega antivivisezionista
LEAL: basti dire che gli episodi riferiti riempiono centinaia di pagine.
Sarebbe interessante se i processi (se e quando vengono celebrati nei
tribunali: quindi quasi mai) andassero a scrutare nel profondo la personalità
di tali individui, alla ricerca del bandolo dell’oscura matassa della loro
psiche; ma l’uccisione di un animale, ancorché ritenuto d’affezione e
quindi più stimabile degli altri, non è considerata degna di
un impiego di mezzi tanto onerosi: consulenti, perizie, psicologi e psichiatri
non sono mai al servizio della giustizia dovuta a un animale, neppure se
sollecitata se non altro dalla preoccupazione indotta dai tanti studi che
mettono in luce il link comprovato tra la crudeltà agita sugli animali umani e
quella sui nonumani, che dovrebbe spingere a ben diverse reazioni. In assenza
dell’auspicabile scandaglio del mondo psichico dei colpevoli condotto con i
mezzi offerti dalle discipline deputate a farlo, sono comunque i fatti stessi a
parlare: e dicono di personalità in cui la violenza è evidentemente il
linguaggio conosciuto, la lingua madre imparata, la modalità di relazione e
di reazione, il modo consueto per affermare il proprio potere e sancire la
propria superiorità.
Se ogni persona è quella che è diventata coniugando il proprio patrimonio
genetico con i modelli appresi e con le vicende di tutta una vita, anche questi
personaggi avranno pure una loro biografia su cui sono andati sistemandosi i
tasselli della brutalità di cui sono portatori; andare a ricostruirli aiuterebbe
a meglio conoscere (ed evitare) i percorsi che sollecitano l’espressione delle
parti peggiori di noi. Parti che è lecito supporre che avranno già avuto modo
di manifestarsi nella loro vita, perché le nostre mani così come la nostra
mente non improvvisano ciò che non conoscono e ciò che non sono: lo vanno
imparando su altri corpi, su altre vittime. Fino a divenirne esperti e cultori.
Ma c’è dell’altro: perché gli atti privati sono sempre inseriti in un
contesto non solo familiare, ma anche di portata sociale, come testimoniano
tante situazioni, su cui non si riflette mai abbastanza: già Primo Levi, reduce
dallo sconvolgimento del lager, grande concentrato delle mostruosità che la
mente umana può ideare, aveva affidato a I sommersi e i salvati la
scrittura di pagine preziose sulla considerazione che anche i peggiori
criminali sono esseri umani tristemente ordinari, che il contesto è in grado di
modellare. Non mostri, su cui ci piace tanto gettare la
responsabilità di quello che di noi stessi riteniamo inaccettabile, e che
invece dimora come Ombra disconosciuta proprio nel fondo della nostra psiche,
parte di noi che può restare silente o esplodere, a seconda delle situazioni.
Senza rendercene conto, ce ne vergogniamo tanto da accusare non noi stessi, ma
qualcun altro con cui non abbiamo da condividere neppure l’appartenenza alla
specie umana: non è un uomo, ma una bestia è allora il mantra
salvifico a cui viene affidata la difesa della nostra innocenza come individui,
ma anche quella della nostra specie. Quindi umano come
sinonimo di nobile, bestia e animale come
sinonimi di brutalità e indecenza. Meccanismo profondamente ingiusto dal
momento che gli animali nonumani, che sono vittime, vengono trasformati
implicitamente in colpevoli, in quanto sarebbero i contenitori di quel male che
non riconosciamo in noi.
L’importanza del contesto è tale per cui anche delitti che appaiono
individuali, totalmente attribuibili alla responsabilità di un singolo
individuo, in realtà risentono di variabili che vanno a costituirne il brodo di
cultura.
In fondo la lezione un po’ la stiamo imparando: è da qualche anno, per
esempio, che ogni episodio di violenza sulle donne non provoca solo la
richiesta di una punizione adeguata del colpevole, ma risolleva dibattiti sulla
cultura e i pensieri dominanti che lo rendono possibile. Si comincia in altri
termini a capire che il contrasto ai femminicidi non può prescindere dalla
necessità di ridefinire le convinzioni diffuse che restano ancora intrise dei
residui di quanto veniva serenamente sostenuto fino a pochi decenni fa, quando
veniva dato diritto di cittadinanza al delitto d’onore: si sanciva , anche dal
punto di vista giuridico, la convinzione che non i diritti delle donne, ma la
tutela dell’onore ferito maschile dovesse essere oggetto di attenzione e cura.
Pensiero che sopravvive sotto pelle e si riaffaccia, sotto mentite spoglie,
nella motivazione di comportamenti di uomini ancora intrisi di convinzioni
fortemente sessiste. Lo dice bene Francesca, figlia di Lia Rizzone Favacchio, uccisa
dal marito nel lontano 1973, quando, richiesta di dire se nel corso di tanti
anni abbia potuto trovare una motivazione al gesto omicida di suo padre,
risponde solo ”Ha ucciso perché figlio di una cultura patriarcale”. Non
altro che la convinzione del proprio potere, che arriva a esprimersi come
diritto di vita e di morte, è il motore propulsivo di gesti altrimenti
incomprensibili.
Riflessioni di questo genere sono tutt’altro che estranee alle vicende
oscene di questi animali uccisi barbaramente, con lucidità e freddezza, nella
convinzione di poterlo fare giusto perché appartenenti alla specie umana,
notoriamente superiore alle altre: l’assenza quasi assoluta di conseguenti
condanne giuridiche non può che rafforzare la convinzione: si può fare, è
lecito e normale, come dimostra l’assenza di conseguenze.
Il male fatto agli animali è una realtà che, per limitarci al nostro paese,
a macchia di leopardo, investe tutte le regioni. Ma non si può tacere
che vi siano luoghi in cui la concentrazione è più preoccupante, non certo per
caratteristiche genetiche della popolazione ma perché l’ambiente con le sue
variabili ne costruisce le specificità. Sulla base delle informazioni raccolte,
risulta per esempio che il piccolo paese in cui era stata portata a termine la
tortura del cane Matteo solo poche settimane prima era stato teatro, a opera di
responsabili rimasti ignoti, di sevizie a danno di un altro cagnolino inerme,
prima torturato e poi impiccato. Se si allarga lo sguardo, la visuale ingloba
territori più vasti, che vedono per esempio la Sicilia spesso in una posizione
tutt’altro che lusinghiera in tema di tutela animale: nelle sue strade
vagherebbe (il condizionale è d’obbligo in assenza di censimenti) la bellezza
di 100.000 randagi, triste primato europeo. Nemmeno della Calabria esistono
registri sul randagismo, ma chiunque la visiti non può che rimanere basito dai
branchi di cani randagi visibili ovunque. È innegabile che, in buna
parte delle regioni del sud, non vengono attuate le previste politiche di
sterilizzazione e scarseggiano adeguate strutture di accoglienza; le periferie
delle città si trasformano allora in discariche di cucciolate indesiderate e
i canili esistenti fungono da depositi di cani dismessi. A parte la squalifica
morale, questa situazione comporta uno stato di cose drammatico: gli
animali a causa del loro stesso numero strabordante sono spesso considerati e
trattati come pericolosi, quindi scacciati, presi a sassate o bastonate.
Spaventati e in cerca di cibo, può succedere a qualcuno di loro di rendersi
responsabile di un’aggressione a danno di una persona: e allora la reazione che
era lì pronta ad esplodere trova una giustificazione ad hoc per scatenarsi,
perché, se la vittima è pericolosa, allora del mio infierire non mi devo
vergognare, ma posso anzi inorgoglirmi spacciandomi per difensore della
collettività.
È all’interno di queste dinamiche che periodicamente si registrano
avvelenamenti di massa, qualcuno incapace per la prepotenza dei numeri di
sottrarsi ai riflettori dei media, come fu il caso delle decine di cani uccisi
a Sciacca nel febbraio del 2018. Ma ci sono cronache ancora più spaventevoli
che parlano di animali inermi che neppure tentano di sottrarsi all’infierire su
di loro di umani furiosi, fino alla morte.
È necessario riflettere su come anche questo genere di situazioni alimenti
comportamenti desensibilizzati: nei luoghi in cui la quotidianità è marcata
dall’indifferenza verso animali in evidente difficoltà e stato di bisogno, in
cui l’abitudine contempla abbandoni, maltrattamenti, ingiurie, tutto si ammanta
di normalità: prepotenze e violenze, essendo tanto diffusi e non perseguiti,
vengono interiorizzati e sdoganati come accettabili.
A tutto questo fa da contrappunto una straordinaria coraggiosissima
abnegazione di tanti volontari, tra i quali gli stessi che denunciano
i fatti: sono tanti quelli che condannano, cittadini (e soprattutto cittadine)
sensibili, che lottano strenuamente contro questo stato di cose, pagando prezzi
elevati in termini di sofferenza psichica, e non solo: ma non possono supplire
con le sole loro forze alla latitanza delle istituzioni. E, in una società
civile, la strada non può essere quella di sperare nell’empatia personale che
supplisca alle colpevoli negligenze di chi avrebbe il dovere di intervenire e
non lo fa.
Scandaloso che da anni la soluzione sia stata individuata nel continuo
spostamento dalle regioni del sud a quelle del nord di cani e gatti randagi o
reclusi in rifugi dal fine pena mai: realtà dilagante
tanto che le staffette sono ormai diventate un’istituzione,
con i puntualissimi arrivi settimanali in luoghi precisi delle città del nord,
con il loro carico di vite sospese, disorientate e a volte pietrificate dalla
paura, purché lontano dai luoghi dove la vita è una scommessa quotidiana. A
quanto pare solo gli amministratori locali persistono a ignorare testardamente
uno stato delle cose sotto gli occhi di tutti e a considerarsi esentati dal
dovere di occuparsene.
È in questa ottica che urge approvare leggi che sanzionino in modo adeguato
i maltrattamenti a danno degli animali: all’interno dei quali non possono
certo essere ignorate le sagre che abusano indecentemente di loro con tanto di
autorizzazione delle autorità regionali (in)competenti; le corse
clandestine dei cavalli, che comportano la chiusura al traffico di
intere zone di città, off limits per la gente comune per dettato delle varie
criminalità organizzate. Le autorità, se c’erano, dormivano.
Per completezza di argomentazione, il discorso dovrebbe estendersi
alla caccia, alla pesca, ai macelli, alla vivisezione…
Ma fermiamoci ai maltrattamenti considerati penalmente
punibili: finché le pene resteranno blande e/o non applicate, torturare un
animale sarà interiorizzato come lecito, di certo tollerabile, da derubricare
nel nostro codice morale a crimine bagatellaro, perché di fatto come tale viene
trattato dalla giurisprudenza. Si tratta di un comportamento grave, perché
sottostima la funzione e il potere delle leggi, che, modificate nel tempo in
funzione della cultura che evolve, vengono poi interiorizzate e concorrono a
trasformare non solo i comportamenti, ma anche la morale.
È poi improcrastinabile occuparsi della prevenzione, che ha
inizio dalla sensibilizzazione della popolazione, a partire dalle fasce più
giovani, al rispetto per tutte le forme senzienti, dalla costruzione
progressiva di un pensiero e di un sentire in cui qualunque tipo di efferatezza
nei confronti di un essere debole venga ripudiata, in cui la diffusa assenza di
sentimenti di empatia verso la sofferenza corrisponda a un allarme sociale, in
cui l’attenzione verso tutte le vite senzienti sia prioritaria in ogni progetto
educativo.
Discorso non facile, certo, soprattutto nei tempi nefasti che sembrano
tornare nella convivenza seppure indiretta con tutte le crudeltà belliche in
atto. Ma non si può cedere alla tentazione di pensare che ci sia ben altro di
cui occuparsi e preoccuparsi e dare così giustificazione all’immobilismo e
all’assuefazione, che è matrice di passività e indifferenza: è invece doveroso
reagire in modo adeguato, consapevole, strutturato, non solo dando la stura
alla rabbia reattiva di un momento. Il cane White, il cane Angelo, il cane
Matteo e tutti gli altri senza neppure un nome non avranno mai giustizia,
perché di giusto non ci sarà mai nemmeno l’ombra per loro, morti di una morte
atroce per mano di individui cinici, sadici, violenti; è il regno
dell’ingiustizia quello in cui hanno vissuto e sono morti, senza averne colpa,
come succede a tanti diseredati sulla faccia della terra, che cercano di
strappare ogni giorno di vita con le unghie e coi denti perché la vita è
l’unica cosa che possiedono, per quanto umiliata e offesa.
Infinitesimale è il contributo che ognuno di noi può dare alla necessaria
trasformazione dello stato delle cose: comunque sia, diamolo, assicurandoci,
con le parole di Walt Disney, di non fare mai meno del nostro meglio.
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