lunedì 30 gennaio 2023

Mai più schiavi. La lotta contro lo sfruttamento dei lavoratori del distretto tessile di Prato - Dario Nicheri

 

Per decenni la manodopera straniera ha patito condizioni di lavoro al limite della schiavitù. Ma a Prato oggi i lavoratori si stanno organizzando e, nonostante le difficoltà, stanno ottenendo risultati importanti

 

Avevo appuntamento con Sarah al presidio di fronte alla Iron & Logistic un venerdì pomeriggio di ottobre. Ventidue lavoratori dell’azienda di proprietà italiana erano stati licenziati senza preavviso (la mattina si erano presentati a lavoro e qualcuno, via citofono, aveva detto loro di tornare a casa) e, da allora, non avevano più abbandonato l’ingresso della ditta; secondo il Cobas la loro unica colpa sarebbe quella di essere iscritti al sindacato e di aver preteso il rispetto dei propri diritti.

Era il mese di ottobre più caldo di cui avessi memoria, perciò cercavo riparo all’ombra tenue dei cordoli del capannone. Lei l’avevo già incontrata altre volte, di fronte a una fabbrica di grucce, seduta insieme agli operai in picchetto permanente, nella tenda dei ragazzi della stamperia a conduzione cinese Texprint, che per otto mesi avevano protestato contro licenziamenti illegittimi e condizioni di lavoro disumane dormendo di fronte allo stabilimento, e nel piazzale del tribunale di Prato, ad attendere il rilascio di quattro sindacalisti, portati dentro perché si erano rifiutati di lasciare la piazza del comune dove erano in sciopero della fame da tre giorni.

Sarah è una ragazza minuta, con gli occhi chiari incorniciati da un paio di grossi occhiali da vista e lunghi capelli castani raccolti dietro la nuca, ed è anche la coordinatrice pratese di Sì Cobas (Sindacato Intercategoriale Cobas). Quando arrivo, però, lei non c’è. Un minuto dopo mi squilla il telefono. «Scusami, possiamo vederci domani? avevo bisogno di andare a casa, di riposare», mi dice «dormire dentro alle tende sul marciapiede non è il massimo».

Anche le facce dei ragazzi, sdraiati su dei materassini di lattice addossati al muro scrostato del capannone sono stravolte; non sono stati giorni semplici, è arrivata la polizia e le conseguenze della visita non sono state piacevoli: occupazione di suolo pubblico, passeggiata in questura dei resistenti al pubblico ufficiale e denuncia di rito, senza contare che durante l’assenza degli scioperanti qualcuno si è portato via tutto quello che era rimasto al presidio. Succede anche di peggio da queste parti, più volte squadre di picchiatori pagati dai padroni delle fabbriche sono saltate fuori da camion con i vetri oscurati picchiando gli scioperanti e distruggendo i banchini.

Da un anno a questa parte il distretto tessile pratese è in ebollizione perché una sorta di cartello, costituito da aziende di proprietà cinese e italiana, controlla il mercato e impone ai lavoratori condizioni di estremo sfruttamento: i turni sono di 12 ore al giorno per sette giorni la settimana, paghe in nero e la negazione di tutti i diritti, anche quelli più elementari, come le ferie e i riposi festivi. Gli operai, per lo più africani, bengalesi e pakistani hanno capito che i diritti si rivendicano con la lotta e le vittorie recenti (il reintegro dei lavoratori della Texprint deciso dal tribunale del lavoro di Prato e la certificazione da parte dell’ispettorato del lavoro delle condizioni di sfruttamento a cui erano sottoposti) hanno mostrato che l’unione e la perseveranza, a volte, pagano; in tutto questo il ruolo del sindacato è stato fortissimo.

«Il tessuto sociale in cui si è instaurato il sistema è autoctono, e anche se la cosa non deve assolutamente essere normalizzata, c’è da dire che qui si è sempre lavorato così, da ben prima che arrivassero i cinesi», mi dice Sarah quando, il giorno seguente, riusciamo a incontrarci. «All’inizio di tutta questa storia, la cosa più assurda era vedere con quanta incredulità gli imprenditori italiani reagivano alle richieste dei lavoratori che chiedevano orari da contratto nazionale; a Prato si fa il nero e si lavora 12 ore al giorno da cinquant’anni e voi venite a chiedere le otto ore e il riposo la domenica, ma siete matti?».

In una zona come questa, che fu operaia e di sinistra, i lavoratori in sciopero dovrebbero essere accolti a braccia aperte, eppure non lo sono. Questi uomini sono fantasmi che si muovono invisibili all’interno di una comunità anacronisticamente ancorata a un passato dove il comparto tessile costituiva ancora il motore unico dell’economia indigena, talmente importante da aver plasmato alle proprie esigenze tessuto urbano e cittadini.

La città è particolare, con il vecchio distretto industriale e i suoi capannoni a mattoni rossi che ancora si schiacciano alle antiche mura comunali, quasi a voler ricordare gli antichi fasti produttivi ai vicoli gentrificati del centro storico. Quel quartiere, dopo la Seconda guerra mondiale, era infatti sede del primo dei molti comparti manifatturieri cittadini, costruito con una morfologia il cui tratto distintivo è la vicinanza, se non addirittura l’integrazione, tra spazi di lavoro e abitazione. Al piano terra le macchine, al primo piano la casa.

Poi il mercato globalizzato e le cattive abitudini lavorative hanno favorito l’arrivo di una crisi che ha stravolto la natura della città. Molti dei vecchi stanzoni di famiglia, una volta fiore all’occhiello dei piccoli imprenditori locali, sono stati prima chiusi e poi venduti – a prezzi maggiorati – ai cittadini asiatici che, in massa, sono immigrati qui negli anni Novanta. Così i vecchi capannoni, che gli italiani avevano abbandonato e lasciato cadere nel degrado, sono stati rioccupati da cittadini originari della regione cinese del Zhejiang che hanno trasformato il vecchio distretto tessile nella China Town più grande della Toscana.

La particolare conformazione urbana ha facilitato molto gli imprenditori cinesi, consentendogli di far arrivare i compatrioti senza doversi preoccupare degli alloggi, bastava stipare gli operai dentro al piano adibito ad abitazione e il gioco era fatto.

Il rapporto tra i vecchi abitanti di Prato e i nuovi, di origine cinese, non è mai stato idilliaco. Gli stessi che si sono approfittati della loro presenza, vendendogli immobili al triplo del valore reale, li hanno poi sempre mal sopportati. La situazione non è cambiata neppure quando le ditte asiatiche hanno iniziato a far girare cifre di denaro importanti, coinvolgendo i grossi marchi della moda italiana attratti dai prezzi bassi e incuranti delle condizioni di lavoro degli operai.

Per rendersi conto del contesto prossimo alla schiavitù che sta dietro al fenomeno basta ricordare il rogo del 2013, dove morirono sette operai che lavoravano e vivevano dentro una fabbrica, stretti all’interno di loculi di cartongesso. Un episodio talmente drammatico che i soccorritori trovarono una delle vittime carbonizzata dentro a un bagno di fortuna, con una mano fuori dal vetro della finestra che aveva rotto nel vano tentativo di salvarsi. Una tragedia largamente prevedibile, frutto di circostanze tanto gravi quanto note.

«In un contesto industriale come questo, però, è difficile distinguere tra aziende buone e aziende cattive, tra imprenditori italiani e imprenditori cinesi, è naturale che il distretto funzioni come una rete di relazioni funzionali e interdipendenti, è un sistema che coinvolge quasi tutti», racconta Sarah davanti al pezzo di focaccia che si concede alle sei del pomeriggio, dopo aver passato la giornata a cercare un camper che li aiutasse a rendere meno pesanti le notti ai picchetti.

«C’è una netta separazione tra i lavoratori, anche dentro le fabbriche a proprietà locale. Magari i padroni e i quadri più alti sono italiani, ma gli operai sono per lo più immigrati e le condizioni di lavoro a cui sono costretti a sottostare sono le stesse delle fabbriche cinesi. I pratesi hanno sempre fatto così, è solo cambiata la provenienza della manodopera, prima la manovalanza veniva dal Sud Italia, adesso dal Sud del mondo».

Il distretto è tuttora una realtà enorme (45.000 lavoratori dipendenti per quasi 7.000 aziende attive nel 2021, con un fatturato che ha superato abbondantemente i tre miliardi di euro) e in continua evoluzione. In termini prettamente numerici, nei passati vent’anni, è stata la piccola imprenditoria tessile orientale a rendersi protagonista di una vera e propria ascesa e, quando la parziale frenata dell’immigrazione cinopopolare ha coinciso con l’avvio di ondate migratorie da altre parti del mondo, le ditte cinesi hanno iniziato a impiegare anche lavoratori pakistani, bengalesi e africani; il tutto sotto gli occhi di una città che si rifiuta di vedere cosa succede agli ultimi, ossatura invisibile della narrazione locale sul distretto dell’eccellenza tessile.

Le lotte più recenti del sindacato di base nel territorio pratese, di Campi Bisenzio e Calenzano

Quello che cittadini e istituzioni si rifiutano di vedere, però, riesce a vederlo benissimo il sindacato di base.

«Le ditte asiatiche avrebbero volentieri fatto a meno di aprirsi ad altri gruppi etnici, ma cominciavano a mancare gli operai», continua Sarah, «gli operai cinesi sono più facilmente sfruttabili perché la loro comunità lavorativa è un mondo chiuso, gli imprenditori fanno arrivare i lavoratori direttamente dalla Cina e li mettono in condizione di essere completamente dipendenti dal padrone, che gli dà l’alloggio, lo stipendio ed è presente in ogni aspetto della loro vita. La lingua poi è un ostacolo enorme, è molto difficile per loro imparare l’italiano, tanto che hanno bisogno di qualcuno che traduca anche soltanto per una semplice richiesta all’Inps, è chiaro che in queste condizioni l’autonomia si riduce moltissimo. Per i pakistani, per esempio, non è così; hanno meno difficoltà a comunicare e, di conseguenza, anche a comprendere quali sono i loro diritti; e poi non hanno un padrone che controlla ogni aspetto della loro vita, così qualcuno di loro si è avvicinato al sindacato e il passaparola all’interno della comunità ne ha portati altri. Vedere che con la lotta si riesce a far valere i propri diritti è contagioso, perciò il giochino dello sfruttamento ha cominciato a incepparsi».

“Sfruttamento” è decisamente la parola corretta per definire il sistema a cui gli operai si ribellano e che prevede, tra le altre cose, finti contratti part time per giornate di lavoro che vanno ben oltre le dodici ore, oppure contratti a termine di due o tre mesi dopodiché i lavoratori vengono fatti stare a casa, con una continua turnazione di disperati che, in questo modo, non riescono mai a entrare pienamente nella legalità. In un contesto come questo avvicinarsi al sindacato non è una cosa semplice e, spesso, comporta l’inserimento del lavoratore all’interno di un regime vessatorio volto all’emarginazione (come l’operaio della Pelletteria Due Generazioni, licenziato dopo essersi avvicinato al sindacato, i ragazzi delle fabbriche di grucce, marginalizzati perché partecipanti a uno sciopero, o i ventidue della Iron & Logistic, anche loro allontanati per la loro vicinanza al Cobas), perciò la solidarietà è così importante.

«Tutti gli operai sono con noi, ma molti hanno paura», mi aveva raccontato Shahid qualche mese prima, durante uno sciopero. Il ragazzo, pakistano, addetto nel settore grucce per l’abbigliamento, ventidue anni che sembrano diciassette e barba rasata di fresco, aveva poi continuato: «Il padrone non vuole che stiamo insieme, ci vuole divisi, soprattutto non vuole che fraternizziamo con gli operai cinesi, a loro infatti offre 400 euro in più al mese, a nero ovviamente, e gli dà pure la casa, mentre noi siamo trattati come schiavi. Io però non ho paura, ne ho passate tante prima di venire qui».

Racconta del suo viaggio dal Pakistan alla Turchia, poi il gommone per la Grecia, il campo nell’isola di Lesbo, le botte dei poliziotti greci, la rotta balcanica, il freddo, di nuovo le botte in Serbia, poi le bastonate in Bosnia, le notti nascosti nei boschi, i tentativi di passare la frontiera, una, due, anche tre volte, fino all’arrivo in Italia.

«Il cugino di uno di noi è stato anche rapito, da qualche parte tra la Turchia e la Macedonia, non so dove con precisione», aveva aggiunto Syed, compagno di lavoro e di lotta di Shadid: «Succede a tanti di noi, qualche parente che è in viaggio scompare, poi arriva un video sul telefono di qualcuno che è già qui a lavorare e si chiedono soldi per liberarlo, di solito facciamo una colletta e paghiamo».

La prima volta che ho incontrato un gruppo di questi operai per fotografarli ho avuto l’impressione di stare guardando attraverso una macchina del tempo, facce da un’altra epoca osservavano con timidezza l’obbiettivo. Occhi vivaci, barbe curate e sorrisi sfuggenti incorniciavano volti che sembravano provenire da una litografia del secolo scorso, l’epoca del mondo che ha visto gli ultimi battersi per la dignità del lavoro di tutti.

da qui

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