mercoledì 25 gennaio 2023

E quindi uscimmo a riveder le stelle (ci riusciremo?)

 

L’inquinamento luminoso è alle stelle - Valentina Guglielmo

Più di 50mila cittadini di Europa e Nord America hanno osservato il cielo a occhio nudo per 11 anni, vedendo sempre meno stelle. L’inquinamento luminoso sta letteralmente rubando le stelle e l’oscurità al cielo: a questo ritmo di cambiamento, un bambino nato in un luogo in cui dieci anni fa erano visibili 250 stelle sarà in grado di vederne solo 100 al compimento dei 18 anni

Non si vedono più le stelle. La maggior parte dei cieli che possiamo vedere dalla Terra non diventa mai scuro, e permane in una sorta di eterno crepuscolo. La colpa, ancora una volta, dell’uomo. E di una forma di inquinamento che deriva dalle tante, troppe, luci che utilizziamo nei centri abitati. Luci che, in molti casi, sono superflue, in altri sono utili ma vengono progettate male e risultano troppo diffuse o orientate in modo sbagliato. Luci che, addirittura, sconvolgono la fauna notturna e influiscono negativamente sui ritmi circadiani di flora, fauna, persone. E offuscano le stelle. E secondo uno studio pubblicato su Science, stiamo messi peggio di quanto pensavamo: nell’arco di circa 11 anni, dal 2011, la luminosità del cielo è aumentata del 7-10 per cento all’anno nella banda visibile, quella che possiamo apprezzare con i nostri occhi.

Per valutare la variazione dell’intensità luminosa del cielo dal 2011 al 2022, gli scienziati hanno analizzato le osservazioni di 51.351 citizen scientist che hanno preso parte al programma di scienza partecipata Globe at Night, gestito dal NoirLab. Il progetto raccoglie dati sulla visibilità stellare ogni anno dal 2006 e chiunque può inviare osservazioni attraverso l’omonima applicazione che funziona su desktop o smartphone. Dopo aver inserito la data, l’ora e la località di riferimento, ai partecipanti viene mostrata una serie di mappe stellari. I partecipanti registrano quale corrisponde meglio a ciò che possono vedere nel cielo senza telescopi o altri strumenti. In questo modo si ottiene una stima della cosiddetta magnitudine limite a occhio nudo, che misura quanto deve essere luminoso un oggetto per essere visto. Si tratta già di una stima della luminosità del cielo, perché quando il cielo si illumina, gli oggetti più deboli scompaiono dalla vista.

La maggior parte delle osservazioni utilizzate nello studio ha coperto i cieli di Europa e Nord America, con un buon campionamento sia temporale (le osservazioni venivano fatte ogni anno) sia spaziale (la distribuzione è abbastanza uniforme sui due continenti). Si tratta della prima valutazione nella variazione di luminosità del cielo su larga scala (cioè su scala continentale).

«In passato abbiamo già esaminato le tendenze dei dati satellitari globali, ma finora le pubblicazioni delle tendenze della luminosità del cielo riguardavano solo singoli siti o un numero ridotto di siti», spiega a Media Inaf Christopher Kyba, ricercatore all’istituto di Remote Sensing and Geoinformatics del Deutsches GeoForschungsZentrum a Potsdam, in Germania, e primo autore dell’articolo. «L’altra grande novità è che si basa interamente sulla visione umana, piuttosto che sulle osservazioni strumentali».

Una scelta che potrebbe suonare bizzarra, quella di basare la valutazione del cielo interamente sull’esperienza umana anziché su una strumentazione oggettiva, ma che se effettuata su larga scala si può rivelare molto potente. Gli scienziati, infatti, sono ben consapevoli che ci sia una variazione sostanziale e soggettiva nel numero di stelle che le persone possono vedere. In generale, i giovani possono vedere più stelle degli anziani e gli osservatori più esperti possono vederne di più rispetto a chi osserva le stelle per la prima volta. Queste differenze rendono poco sensato e affidabile osservare le tendenze in un singolo luogo e fare una misura precisa di come il cielo stia cambiando, ma se le testimonianze raccolte sono in numero sufficiente (decine di migliaia, in questo caso), statisticamente la variabilità tra gli osservatori si annulla.

Per rendersene conto, basta osservare il grafico accanto. Sebbene la differenza fra le singole osservazioni possa essere significativa, l’errore associato a tutte le osservazioni – dato il loro grande numero – si riduce e la differenza fra il 2011 e il 2021 risulta lampante. «La tendenza che si legge nella figura è molto più drammatica di quanto mi aspettassi», commenta Kyba. «L’aumento annuale della luce che abbiamo visto dal satellite era piuttosto piccolo in confronto».

La valutazione, dicevamo, riguarda soprattutto Europa e Nord America, e l’andamento che si è delineato potrebbe non essere valido per gli altri continenti. Il trend “globale” di cui parlano gli autori deve quindi essere inteso come relativo alle località del mondo in cui si effettuano osservazioni del globo notturno.

«Sarebbe fantastico se potessimo ottenere un maggior numero di osservazioni, non solo a livello mondiale, ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Se avessimo un numero di osservazioni dieci volte superiore ogni anno, potremmo iniziare a esaminare le tendenze dei singoli Paesi. Sarebbe molto interessante, per verificare, ad esempio, se la legge nazionale di regolamentazione dell’inquinamento luminoso della Francia ha avuto un effetto».

Per quanto riguarda la differenza tra ciò che vediamo qui e ciò che vedono i satelliti, di cui si fa menzione sopra, gli autori spiegano che ci sono due possibilità che potrebbero spiegare i dati. La prima è che la luce che il satellite vede quando guarda in basso non proviene dalle stesse fonti di luce che le persone vedono quando guardano in alto. Per esempio, i satelliti hanno difficoltà a vedere i cartelli, perché brillano soprattutto lateralmente, non verso l’alto. Ma la luce laterale ha un peso molto importante e costituisce forse il contributo maggiore nella produzione del bagliore del cielo. L’altra possibilità è che la differenza di visione sia legata a una diversa finestra di sensibilità alle lunghezze d’onda dello spettro.

«L’unico satellite di osservazione globale attivo al momento non è in grado di rilevare la luce blu (sotto i 500 nm), quindi il passaggio dalle lampade arancioni al sodio ad alta pressione ai Led bianchi appare come un oscuramento nel set di dati satellitari», spiega Kyba. «Per quanto riguarda la luminosità del cielo però, la luce blu è la più problematica, perché il cielo è in grado di diffonderla molto bene. Inoltre, la luce blu ha un effetto più forte sulla visione umana di notte, e quindi il contributo di questa discrepanza risulta ancora più significativo se si valuta la brillanza del cielo a occhio nudo».

Per saperne di più:

§  Leggi su Science l’articolo Citizen scientists report global rapid reductions in the visibility of stars from 2011 to 2022“, di Christopher C. M. Kyba, Yigit Öner Altintas, Constance E. Walker, and Mark Newhouse

 da qui

 

 

Atlante del numero di stelle visibili a occhio nudo

Intervista di Luca Nardi a Fabio Falchi

Un nuovo studio condotto da due ricercatori italiani ha cercato di trovare un metodo per stimare quante stelle sono visibili nel cielo notturno da qualunque località del mondo tenendo conto anche dell’inquinamento luminoso. Ne parliamo con Fabio Falchi, uno dei due autori della ricerca

L’inquinamento luminoso è una fra le più gravi minacce all’amore per il cielo notturno che tutti, chi più chi meno, condividiamo. Se la risposta alla domanda “quante stelle ci sono nell’universo?” non è per nulla scontata, quella a “quante stelle possiamo vedere dalla Terra?” non è certo da meno. Nel calcolo del numero di stelle visibili da un qualunque luogo della Terra entrano infatti in gioco molti fattori, tra cui anche l’inquinamento luminoso.

Hanno provato a dare una risposta a questa domanda due ricercatori italiani, Pierantonio Cinzano e Fabio Falchi dell’Istituto di Scienza e Tecnologia dell’Inquinamento Luminoso di Thiene.

Innanzitutto, dottor Falchi, qual è l’obiettivo del vostro studio?

«Il nostro obiettivo è quello di tracciare la via su come calcolare il numero di stelle visibili da ogni località. Questo numero potrebbe sembrare semplice da ottenere, dopotutto basterebbe contare quante stelle ci sono più brillanti di quelle di sesta magnitudine (mediamente il limite per l’occhio umano) e il gioco parrebbe fatto».

Come mai è invece così complicato capire quante stelle si possono osservare da una località?

«Il problema è che la magnitudine non basta: il numero di stelle dipende anche da numerosi altri fattori, tra i quali la trasparenza atmosferica, la luminosità di fondo del cielo, sia naturale che artificiale, l’acutezza visiva e l’esperienza dell’osservatore. Se in cielo ci sono cinquemila stelle più brillanti della sesta magnitudine, non basta quindi dividere il numero per due per ottenere quante ne sono visibili in un emisfero. Ad esempio, se siamo sul livello del mare e allo zenit riusciamo a vedere una stella di sesta magnitudine, a venti gradi di altezza sull’orizzonte vedremo solo stelle di quinta magnitudine perché la luce avrà dovuto attraversare una distanza tripla nell’atmosfera terrestre. Se siamo in montagna la trasparenza atmosferica maggiore ci permetterà di vedere stelle più deboli. L’inquinamento luminoso dipende poi anche dalle caratteristiche del sito da cui osserviamo e varia in ogni posizione in cielo».

Come avete fatto, quindi, a tenere in considerazione tutti questi fattori?

«Abbiamo diviso la volta celeste in molte aree all’interno delle quali i fattori descritti possono essere considerati uniformi: principalmente la luminosità di fondo dovuta all’inquinamento e l’estinzione atmosferica, a loro volta dipendenti da molti fattori come l’altitudine del sito e la distribuzione delle sorgenti di luce nel raggio di circa 200 km. A quel punto possiamo calcolare la magnitudine limite, cioè quali sono le stelle più deboli visibili in ognuna di queste aree. Poi, in base alla densità delle stelle, cioè al numero di stelle di una data luminosità per area di cielo, possiamo ottenere il numero di stelle in ogni area di cielo. Infine sommando tutto si ottiene il numero totale visibile in ogni particolare sito».

Quelle che vediamo alzando gli occhi al cielo…

«Più precisamente, il numero di stelle che vedrebbe un osservatore medio. Per osservatori esperti e con vista acutissima il numero può anche triplicare. La mappa di esempio che abbiamo pubblicato (immagine a sinistra) mostra come, per ottenere il massimo numero di stelle visibili, sia necessario essere in siti incontaminati e, allo stesso tempo, a quote elevate. In Italia non abbiamo mai queste condizioni, tranne in un’area piccolissima della Sardegna e due altre, altrettanto piccole in Sud Tirolo, al confine con l’Austria. In tutta la Val Padana nove decimi delle stelle sono nascoste dal chiarore del fondo cielo dovuto a milioni di luci artificiali. Nelle grandi città, poi, rimangono visibili solo le stelle più luminose».

Il vostro studio si intitola “Verso un atlante del numero di stelle visibili”. Per quando è prevista la pubblicazione di questo atlante?

«Non ci siamo posti una scadenza definita. L’atlante del numero di stelle visibili potrebbe far parte del progetto della terza versione dell’atlante mondiale della brillanza del cielo, che comunque non vedrà la luce prima di tre anni. Speriamo che nel frattempo la nuova minaccia al cielo stellato dovuta alle megacostellazioni di satelliti non ci costringa a cambiare il titolo della nostra ricerca in “atlante del numero di satelliti visibili”… Confidiamo che la SpaceX e le altre compagnie con progetti simili riescano a contenere i danni scientifici e naturalistici che potrebbero arrecare al cielo notturno».


Per saperne di più:

§  Leggi su Journal of Quantitative Spectroscopy and Radiative Transfer l’articolo “Toward an atlas of the number of visible stars”, di P. Cinzano e F. Falchi

 

da qui

 

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