mercoledì 3 marzo 2021

Scappare dal clima: le migrazioni che non fanno rumore - Ilaria Cagnacci

 

Si stima che entro il 2050 una persona su 45 sarà un migrante ambientale. Il Centre for research on the epidemiology of disasters (CRED) nel 2019 ha registrato 396 disastri naturali che hanno comportato la morte di più di 11mila persone e 24,9 milioni di sfollati: si tratta del più alto numero mai registrato a partire dal 2012, di tre volte più alto rispetto a quello riferito a spostamenti causati da conflitti e violenza.

A livello regionale l’Asia è risultato il continente più colpito da questi eventi estremi con il 40% dei disastri naturali e il 45% delle morti sul totale registrato, seguita da Africa, America ed Europa.

Negli ultimi vent’anni il numero delle inondazioni è più che raddoppiato, passando da 1.389 a 3.254 (40% del totale dei disastri climatici), mentre l’incidenza delle tempeste è cresciuta da 1.457 a 2.034 (28%), seguite da terremoti (8%) e temperature estreme (6%). L’evento più letale del 2019 invece è stato l’ondata di caldo che ha colpito l’Europa e che ha causato la morte di più di 2500 persone.

Cambiamenti climatici e migrazioni

Il motore delle catastrofi naturali è senz’altro il cambiamento climatico. Già in un rapporto pubblicato nel 2014 il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) aveva previsto che i rischi associati ad eventi estremi sarebbero aumentati di pari passo con l’aumento della temperatura globale riconoscendo anche che l’influenza antropogenica sul clima, secondo le sempre più numerose evidenze di tipo scientifico, è una delle cause principali del progressivo riscaldamento che stiamo registrando.

Il cambiamento climatico non è solo responsabile di eventi estremi ma anche di cambiamenti radicali sul pianeta che avvengono in maniera lenta e graduale. Come la desertificazione delle terre, che porta ad un vero e proprio sconvolgimento dell’ecosistema. Questo fenomeno sta aggravando le condizioni di Paesi già in poverissimi e dipendenti dalle rese minime che possono essere garantite da un’agricoltura di sussistenza così come nel caso dei Paesi presenti nella fascia del Sahel, zona più colpita al mondo dal fenomeno della desertificazione dove siccità permanente, mancanza di cibo, conflitti che nascono per la diminuzione delle risorse naturali e migrazioni di massa sono solo alcune delle devastanti conseguenze di questo fenomeno.

 

 

Chi scappa degli effetti dei cambiamenti climatici non ha protezione

Lo spostamento in alcuni casi è l’unica via di salvezza per un individuo in cerca di protezione dagli effetti dei cambiamenti climatici ma è bene sottolineare che solo una piccolissima fetta di coloro che ‘decidono’ di emigrare attraversa le frontiere del proprio paese. L’86% delle migrazioni ambientali infatti riguarda spostamenti a corto raggio: o all’interno del paese stesso o verso i Paesi vicini, soprattutto Paesi cosiddetti ‘in via di sviluppo’ che ad oggi ospitano l’84% dei migranti ambientali.

 

Nonostante la portata sempre più ampia del fenomeno ancora oggi non esiste alcun tipo di accordo internazionale che fornisca protezione a queste persone. Chi si ritrova al di fuori dei propri confini nazionali, quindi, viene considerato un migrante ‘irregolare’ e rischia di subire ulteriori violenze e discriminazioni. I migranti ambientali restano quindi esclusi da quello che a livello internazionale è ritenuto uno dei documenti più autorevoli e fondamentali in tema di protezione: la Convenzione di Ginevra del 1951.

L’art. 1 della Convenzione considera “rifugiato” «qualsiasi persona che, a causa di un ben fondato timore di essere perseguitata per questioni di razza, religione o opinioni politiche, si trova all’esterno del paese di cui possiede la nazionalità e non può, o a motivo di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di quel paese». È evidente che l’inapplicabilità della Convenzione derivi sia dalla stessa definizione di rifugiato sia dal fatto che ad essere protetti da suddetta normativa siano soltanto coloro che si ritrovano a far richiesta di asilo in un altro Stato: il che escluderebbe la maggioranza dei casi riguardanti spostamenti dovuti a questioni ambientali che, come già sottolineato, avvengono all’interno dei confini degli Stati di origine.

A partire da quale sia il termine più appropriato da utilizzare, migrante, rifugiato o sfollato climatico, fino ad arrivare al tipo di percorso giuridico da intraprendere, una modifica della Convenzione di Ginevra o un testo ad hoc, le questioni aperte sul riconoscimento e la tutela dei migranti ambientali rimangono ancora molte.

Di positivo c’è che sul piano internazionale stiamo assistendo ad un sempre più esplicito riconoscimento del legame tra il cambiamento climatico e le sue implicazioni a livello sociale. Il Patto Globale sulle Migrazioni del 2018, ad esempio, ha ribadito la necessità di un impegno della comunità internazionale per ridurre al minimo i fattori avversi che costringono le persone a lasciare il proprio paese d’origine, tra cui quelli che derivano dagli effetti negativi del cambiamento climatico. Nell’Agenda 2030 sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile troviamo invece quello di “adottare misure urgenti per combattere il cambiamento climatico e il suo impatto”.

Lotte e resistenza

 

A pagare le conseguenze di un modello di sviluppo che getta le proprie basi su una logica di dominio e violenza, sia contro gli umani che la natura, sono le popolazioni più povere e vulnerabili del mondo, laddove vulnerabili significa tutt’altro che passive al cambiamento. Oggi, infatti, stiamo assistendo a un incredibile proliferazione di movimenti locali e transnazionali che si oppongono alla distruzione della terra e che mirano a ristabilire una sinergia tra l’uomo e la natura. Tra queste l’incredibile iniziativa della Grande Muraglia Verde, un movimento a guida africana con l’ambizione di far crescere una fascia di vegetazione di 8.000 km attraverso l’intera larghezza dell’Africa, fino alle innumerevoli lotte portate avanti dalle comunità indigene protettrici dell’80% della biodiversità sul nostro pianeta che da decenni continuano a essere oggetto di violenza fisica, psicologica e sessuale, nonché di razzismo, esclusione, sgomberi forzati, espropriazioni illegali. E che troppo spesso pagano con la vita la difesa dell’ambiente: soltanto nel 2019 sono stati uccisi 212 difensori dell’ambiente, il che significa una media di più di quattro persone a settimana.


Ingiustizia climatica, da dove ripartire

Sottolineare la natura antropogenica del cambiamento climatico è senz’altro un punto di partenza ma ciò che bisogna riconoscere è le responsabilità di uno specifico sistema di produzione e consumo di tipo capitalista che ha comportato negli anni non solo un incredibile aumento delle disuguaglianze in termini di ricchezza bensì anche in termini di costi ambientali: secondo un rapporto di Oxfam e Stockholm Environment l’1% più ricco degli abitanti del pianeta inquina il doppio del 50% più povero.

Oltre a dover far fronte a quelle che sono le cause reali e tangibili del cambiamento climatico ecco quindi che risulta fondamentale affrontare anche un certo tipo di considerazioni di natura etica che riguardano l’ingiustizia del cambiamento climatico e la necessità di un cambiamento sistemico.

Affrontare il cambiamento climatico significa in primo luogo affrontare un certo tipo di sistema di potere razzista e privilegiato che per decenni ha respirato il mito della supremazia occidentale sbranando le terre e le risorse del sud del mondo. Questa sarà la vera premessa di un cambiamento radicale sia nel modo di relazionarci gli uni agli altri sia nel modo di relazionarci alla natura trasformando la presenza umana sulla Madre Terra da presenza distruttiva a presenza costruttiva di un futuro sostenibile per le generazioni che verranno.

da qui

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