Per non farsi sfuggire preziosi accordi economici, Stati Uniti e alleati tentano di convincere l’opinione pubblica dell’opportunità di normalizzare i rapporti con il regime. Altrimenti i contratti li faranno altri, è il ricatto. “Non è ciò che ci chiedono le attiviste in lotta”, denuncia il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane
Nel
tentativo strisciante di portare l’opinione pubblica verso il riconoscimento
del governo dei Talebani la nuova parola magica è “engagement”, nella
versione italiana dell’ambasciatrice per l’Afghanistan Natalia Quintavalle, o “normalizzazione” in quella dell’inviata speciale
degli Stati Uniti per i diritti umani e le donne afghane Rina Amiri al Forum di Doha .
Questa
“nuova” definizione serve a nascondere all’opinione pubblica, indignata per il
trattamento riservato in Afghanistan alla popolazione e in particolare alle
donne, la reale volontà degli Stati Uniti e dei governi occidentali, cioè
quella di riprendere con i Talebani quei colloqui che li avevano riportati al
governo del Paese nel 2021. Un dialogo poi ufficialmente interrotto perché
difficilmente giustificabile, data l’evidenza del persistere del loro
fondamentalismo e della gravità dei provvedimenti antidemocratici presi da quel
governo, ritornato al potere dopo 20 anni di una guerra che l’Occidente diceva
fatta appositamente per eliminarli.
Quindi
ancora non si accetta di “riconoscere” ufficialmente il governo talebano ma si
ammette la necessità di dialogare, come atteggiamento pragmatico che riconosce
che questo è un dato di fatto e che, se non lo facciamo noi, il dialogo e i
contratti economici li faranno solo le altre potenze regionali più o meno
grandi. La giustificazione di questo cedimento è nello stato di bisogno
immenso in cui si trova la popolazione afghana, ridotta alla fame da
quarant’anni di conflitti, da fattori economici e climatici (freddo, carestia,
terremoto) e, non ultima, dalla politica dei Talebani stessi.
Questa
strada era stata aperta nella primavera scorsa quando John Sopko, l’Ispettore generale speciale per la ricostruzione afghana (Sigar), aveva affermato
pubblicamente e con grande indignazione che gli aiuti umanitari largamente
mandati in Afghanistan erano stati per lo più sequestrati dai Talebani per far
funzionare il loro apparato statale e mantenere i loro sostenitori, lasciando
così alla popolazione sole le briciole. Si erano aggiunti i resoconti dei vari
importanti enti internazionali che si occupano di aiuti all’Afghanistan che
affermavano delusi che i risultati in termini di miglioramenti per la
popolazione erano molto scarsi.
Si è così cominciata
a insinuare l’idea della necessità di un cambiamento di strategia, la necessità
di dare un aiuto non solo emergenziale quanto invece un sostegno alla ripresa
dell’economia del Paese. Erano quindi iniziate le manovre di avvicinamento,
prima dando al turco Feridun Sinirlioğlu, coordinatore speciale delle Nazioni Unite
per gli affari afghani, l’incarico di stendere un rapporto “indipendente” per
indicare la strada con cui arrivare alla “piena normalizzazione e integrazione
dell’Afghanistan nel sistema internazionale”. Quindi con riunioni
internazionali a vari livelli, infine, il 10 e 11 dicembre, con il contatto
diretto tra Stati Uniti e Talebani avuto con il Forum di Doha.
Conferenza
che, dopo le raccomandazioni e le lamentele sul mancato riconoscimento del
diritto all’istruzione e al lavoro delle ragazze e delle donne, si è
concentrata sui veri problemi che interessano ai Talebani e agli Stati
convenuti: le modalità di sblocco dei soldi afghani trattenuti dagli Usa e le
possibilità di ripresa dell’economia afghana, con conseguenti accordi
economici, commerciali, in vista di una “normalizzazione” senza “riconoscimento”
che faccia dell’Afghanistan uno dei tanti Paesi al mondo che non rispettano i
diritti umani come dovrebbero ma con i quali si fanno affari economici perché
“se si ferma l’economia si ferma tutto e anche la popolazione affamata ne
risente”.
Anche
l’Italia è perfettamente inserita nella prospettiva di dialogo con i Talebani,
come ha spiegato chiaramente l’ambasciatrice Quintavalle in una
intervista pubblicata da Avvenire a fine novembre 2023. Ha detto
che la sua funzione è proprio quella di fare da ponte tra le ambasciate fuori
sede (che, come la nostra, non vogliono mostrare di avere contatti diretti con
Kabul), i funzionari delle Ong, gli esuli afghani e i Talebani.
Incontra
regolarmente esponenti di Kabul per fare engagement, cioè
coinvolgerli nelle cose concrete (intervento umanitario, terrorismo, economia),
perché su queste tematiche pratiche è più facile trovare un accordo che non sui
discorsi di principio, l’anti-fondamentalismo e la laicità, il rispetto dei
diritti umani e delle donne. Problematiche che, una volta enunciate e
contestate da entrambe le parti, vengono appunto accantonate per passare a
problemi più stringenti, pratici. Su questi i Talebani dialogano volentieri,
anzi sono addirittura d’accordo sul concedere l’istruzione alle ragazze, non
fosse per quel “cattivo” dell’emiro che, da lontano comanda però su tutto e
tutti e non la vuole. Ma forse ce la faranno a mandare le ragazze almeno nelle
scuole religiose, dove non si impara niente tranne che la religione (abbiamo
visto recentemente che perfino i ragazzi che le hanno frequentate ne sono
usciti delusi perché si sono resi conto di non avere niente in mano di spendibile per il loro futuro) ma, insomma, almeno queste ragazze
possono uscire di casa, poverine, svagarsi un po’, e forse non si suicideranno
più così tanto come ora.
L’ambasciatrice
afferma che questo le chiedono le donne e le ragazze rimaste in Afghanistan. Ma
appare difficile che da lontano e dalla sua posizione istituzionale abbia
contatti diretti con loro e sappia che cosa vogliono. Sono infatti le ex leader politiche
uscite dal Paese che vengono invitate ai vari consessi internazionali, e che
sicuramente lei avrà spesso incontrato. Pensiamo a Fazia Kofi, Rangina Hamidi,
Hoda Khamosh, Mahbouba Seraj, le stesse che hanno partecipato direttamente ai
Colloqui di Doha del 2019, che si spendono in ogni occasione per perorare la
necessità di dialogare con i Talebani e convincerli a fare un governo più
“inclusivo”, cioè un governo che permetta loro di tornare a occupare quelle
posizioni di leader, fosse anche di secondo piano, che avevano nel
vecchio esecutivo.
Non è
questo, invece, che vogliono e ci chiedono le attiviste che vivono in
Afghanistan, che lottano e manifestano in tutti i modi la loro opposizione al
regime dei Talebani e alla sua normalizzazione. Perché non c’è niente in
quell’ideologia e in quella pratica di governo che possa essere considerato
accettabile anche solo in minima parte o tradursi in leggi che consentano la
vita e i diritti delle donne e della popolazione afghana.
Beatrice
Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)
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