Siamo abituati a considerare il territorio come lo spazio connesso con un atto di sovranità. Il potere sovrano definisce lo spazio da governare e le leggi che descrivono i limiti e le condizioni della sua giurisdizione. Questo, ovviamente, si verifica nel caso di accordi di potere che si basano su processi di legalità e relative sanzioni. Il potere, tuttavia, può anche fondare il proprio dominio su un territorio e sui suoi abitanti (umani e non umani) sulla pura violenza: l’espressione di una volontà di dominio e un insieme di pratiche che tentano di garantire l’obbedienza.
Il territorio può essere concepito anche in un altro modo: i popoli
indigeni dell’America, ad esempio, equiparano il territorio alla produzione
della vita in tutte le sue forme. La terra per loro è la Madre Terra
e si sentono obbligati a proteggerla piuttosto che a controllarla,
considerandola come un insieme di relazioni da governare. Governare la terra in
un contesto del genere sembrerebbe totalmente contrario alle pratiche di cura
della terra. Le persone che rivendicano il ruolo di custodi del territorio
trascendono il problema della giurisdizione e, quindi, degli obblighi derivanti
da uno specifico insieme di leggi o di direttive di potere.
Da questo insieme di pratiche e visioni del mondo emerge un diverso tipo di
rapporto con il territorio: invece di essere definito come risorsa ed
entità concreta che appartiene a chi lo utilizza come risorsa, il territorio
diventa una condizione di dipendenza reciproca: le comunità hanno bisogno del
territorio tanto quanto il territorio ha bisogno delle loro cure. La
cura è, quindi, il contrario dell’estrazione, se con quest’ultima parola si può
indicare una riduzione del territorio ad area di saccheggio: saccheggio
del lavoro umano e della creatività che crescono in un certo territorio, così
come dell’abitare e inorganici che costituiscono il territorio stesso.
Naturalmente, alla base stessa dell’approccio estrattivista, così come a
quella della definizione sovrana di territorio, ci sono quelle istituzioni
sociali che sanciscono le regole dell’appropriazione. Chi e a quali
condizioni può appropriarsi di un determinato territorio per il proprio
interesse? “Di chi è questo territorio?” sembra essere una domanda che condensa
i dilemmi dell’appropriazione. La proprietà è forse il modo più ovvio per
rispondere a tali dilemmi. Tuttavia, si è sviluppata una storia ricca e
complicata riguardo alle condizioni e allo status della proprietà nelle diverse
società. Nel capitalismo, la proprietà incarna la confluenza delle
regole di sovranità con i diritti di appropriazione delle risorse. Il
proprietario è il “governatore” sovrano e legittimo utilizzatore della sua
proprietà. E leggi, i documenti e le decisioni politiche (come nel caso
dell’esproprio forzato delle terre a causa delle condizioni coloniali)
assicurano che questa sovranità sia protetta.
Il territorio è stato però considerato in diverse società come proprietà
collettiva di una famiglia, di una comunità o di un insieme di comunità. È il caso, per
esempio, degli aborigeni australiani che definiscono il loro territorio
attraverso canti che attraversano un continente e assicurano gli scambi e la
comunicazione tra persone diverse.
E se invece il territorio potesse essere nuovamente considerato come la
condizione della vita collettiva, la sua fonte e il suo significativo
sostegno? Cosa accadrebbe se, al di là dell’estrattivismo e dell’appropriazione
violenta e discriminatoria, potessimo vedere ancora una volta il territorio
come il modo più inclusivo di intendere la società: la società, dunque, come un
insieme complesso di relazioni che si dispiega in continua interazione con lo
spazio che occupa?
Questo significherebbe semplicemente cercare una sorta di armonia con la
natura? Oppure implicherebbe un nuovo insieme di istituzioni sociali destinate
a riformulare il problema della governance così come quello dell’appropriazione? La
caratteristica più importante delle istituzioni cercate sarebbe sicuramente una
etica rinnovata della collaborazione. La collaborazione può offrire un
percorso al di là dell’appropriazione selettiva, così come al di là di un ethos
estrattivista che tratta gli altri (compresi i non umani) come mezzi piuttosto
che come partner. La collaborazione può diventare la via per stabilire
rapporti di reciprocità, uguaglianza, cura e sostegno reciproco.
Il territorio, così, può trasformarsi nella spazialità della
collaborazione. Sarà sia ciò che modella come anche il risultato della
collaborazione. Inoltre, sviluppando forme di collaborazione per
trattare i territori come partner, le società umane potranno sviluppare modi
per prevenire l’accumulo di potere sia all’interno dei limiti di ciascuna
società sia, in alcune di esse, in relazione alle altre. Né soggetti
privilegiati che si appropriano né governatori autoproclamati, dunque. Territorio
come comune: questo significa aprire la vita sociale a pratiche di condivisione
e sviluppare regole del mettere in comune basate sull’uguaglianza e sul
sostegno reciproco. Una società emancipata, pertanto, è una società
che non lotta per garantire che il proprio territorio sia un’area di
emancipazione, ma piuttosto una società che cerca con tutte le sue forze di
garantire che i territori siano aree di scambi comuni.
Fonte: Desinformemonos
Traduzione per Comune-info: marco calabria
Stavros Stavrides è un architetto e attivista nato in Grecia, docente alla
Scuola di Architettura dell’Università Tecnica Nazionale di Atene, dedito al
lavoro sulle reti urbane di solidarietà e sostegno reciproco e alla
comprensione degli atti e dei gesti sparsi di tacita disobbedienza nelle
metropoli.
Nessun commento:
Posta un commento