giovedì 25 gennaio 2024

aspettando le elezioni in Sardegna, di Omar Onnis

Dichiarazione politica-elettorale e qualche riflessione - Omar Onnis

La campagna elettorale sarda non è ancora ufficialmente iniziata, ma le sue fasi preparatorie sono ormai a uno stadio avanzato. Chiarisco la mia posizione.

Come dicevo in un altro post (questo), non intendo parlare della campagna elettorale imminente. Non perché la reputi poco interessante, tutt’altro, ma per correttezza. Sono parte in causa.

Dall’anno scorso sto seguendo il percorso di Sardegna chiama Sardegna, lo spazio politico aperto con la chiamata pubblica del 6 novembre 2022. Non si tratta (ancora) di un’organizzazione, tanto meno di un partito, ma piuttosto di un tentativo di rivitalizzare la politica sarda in termini democratici e partecipativi, con lo sguardo centrato sull’isola ma ben aperto sul contesto internazionale.

È un percorso difficile e accidentato, per ragioni oggettive interne ed esterne. Quelle interne discendono dalla sua natura post-ideologica e dalla sua composizione anagrafica (prevalentemente persone intorno ai trent’anni in gran parte con poca o nulla esperienza di militanza politica).

Post-ideologico non significa privo di valori di riferimento e di obiettivi strategici, ma semplicemente che non esiste un ancoraggio dogmatico alle scuole di pensiero ereditate dal secolo scorso. Post-ideologico e anche, come ha lucidamente evidenziato Maurizio Onnis, post-indipendentista. Non nel senso di considerare chiusa la prospettiva indipendentista, ma nel senso di cercare una via per superarla in avanti, tenendo conto della crisi epocale dello stato-nazione e dello scenario globale.

E qui veniamo alle ragioni esterne della difficoltà del percorso di ScS. Nel contesto sardo, così debilitato e in fase di ulteriore involuzione, è faticosissimo rispondere alla crisi presente con un rilancio democratico fatto di ottime intenzioni, metodi nuovi e una prospettiva non banalmente elettoralistica. È un’impresa che giusto una generazione giovane ma già matura può concepire. Dare una mano a tale tentativo, per quel che si può, è il minimo, per quanto mi riguarda.

Non ho mai concepito l’impegno intellettuale come una sfera diversa e distinta dall’impegno politico e sociale. Tutto ciò che è pubblico – ossia rivolto alla polis, alla collettività di cui si è parte – è interconnesso. Tutto è politica, potremmo dire in sintesi. Che ci piaccia o no. O anche: se non ti interessi della politica, la politica comunque si interesserà a te.

Dopo un lungo e non semplice dibattito interno, ScS ha scelto di partecipare alla tornata elettorale prossima ventura e di farlo con le proprie forze. Il quadro politico tuttavia al momento non è affatto così semplice come lo vorrebbero i fautori a oltranza del bipolarismo maggioritario e presidenzialista. Tale schema non ha mai corrisposto alle reali articolazioni sociali e ideali della comunità sarda, tanto meno nella vigenza della scandalosa legge elettorale regionale approvata nel 2013 proprio per bloccare qualsiasi tentativo di opporsi all’assetto oligarchico e consociativo al potere.

Paradossalmente, a scardinare il disegno oligarchico in queste settimane è proprio un soggetto che ne ha fatto parte, sia pure a modo suo, fino a poco fa: Renato Soru.

Di Renato Soru si possono evidenziare pregi e difetti, sbagli e scelte indovinate. Non è un personaggio pubblico facile da interpretate e ha sempre costituito un’anomalia nel sistema sardo. Per questo detestato e combattuto fin dai suoi esordi in politica, e dalla sua parte non meno che dagli avversari conclamati.

La sua esperienza da presidente della RAS, nel 2004, ha avuto un primo biennio di grande impatto, di rottura totale con le esperienze del passato, compresa la giunta Melis degli anni Ottanta, figlia del “vento sardista”. Quelle premesse tuttavia sono state in larga misura tradite. Anche per scelte sbagliate dello stesso Soru. (Beninteso, non pretendo che la mia idea di scelte sbagliate sia universalmente condivisa. In ogni caso, non è questo l’oggetto principale del post.)

La sua mancata rielezione, davanti a un concorrente non certo irresistibile come Ugo Cappellacci, fu conseguenza prima di tutto di una delusione generalizzata, certo alimentata dai suoi avversari, ma spesso sincera. L’indipendentismo organizzato, allora in ascesa, fu respinto da Soru medesimo, che non ne comprese fino in fondo le ragioni profonde, al di là degli ideologismi. Si era obiettivamente esaurita la spinta rinnovatrice del 2004. Le forze conservatrici, comprese quelle interne al centrosinistra, ebbero la meglio. Le giunte regionali successive smantellarono diverse innovazioni e molte misure virtuose e soprattutto rinnegarono l’approccio complessivo della prima giunta Soru, ripiombando l’isola indietro di dieci o vent’anni.

Alla luce di quanto precede, per come la vedo io, Renato Soru è politicamente in debito con la Sardegna. Che provi oggi a ripagarlo, a me sta bene. Mi interessano poco le motivazioni personali che lo hanno spinto a cimentarsi in questa prova. Trovo sbagliato il ragionamento secondo cui le critiche rivolte da me e altri a esperienze del passato debbano inficiare o impedire prese di posizione odierne. Già il solo fatto che stia contribuendo fattivamente a disarticolare l’apparato di potere coloniale che ha dominato la scena fin qua e a cui egli stesso è stato in qualche modo organico mi fa apprezzare la sua decisione di rompere col centrosinistra italiano e lanciare questa sfida.

La considero in linea con la prospettiva aperta a suo tempo da Progetto Sardegna, poi in larga misura ripresa, precisata e irrobustita teoricamente, da Sardegna Possibile 2014 (nell’incomprensione di molti, compreso Renato Soru, che ora – guarda caso – subisce un trattamento analogo). Riaprire tale prospettiva oggi è ancora (e forse persino più) necessario, possibilmente in una versione forte e non immemore dei precedenti.

In questo senso, è doveroso evidenziare come molte delle partite aperte dalla giunta Soru nel 2004 fossero strategicamente importanti, anche a dispetto della loro conclusione o del loro mancato compimento. Dalla modernizzazione delle istituzioni, all’enfasi posta sulla scuola e sulla formazione. Dal ragionamento su una sanità efficiente e non vincolata agli appetiti clientelari, alla pianificazione urbanistica virtuosa. Dal rilancio della questione linguistica (ricordiamo la fondamentale indagine socio-linguistica del 2006), alla nuova attenzione sui beni culturali. Fino ai trasporti interni ed esterni e al contrasto dell’asservimento militare della Sardegna. Tutte materie in cui allora ci fu una svolta a tratti epocale.

Sono temi tornati finalmente in agenda, con un taglio lontano dalla superficialità e dalla cialtroneria a cui ci hanno abituato negli anni cdx e csx (compresa la disastrosa giunta “dei professori”), così come aveva provato a fare Sardegna Possibile 2014. Temi e taglio su cui si può discutere, entrando nel merito, valutando le opzioni del passato per adeguarle al presente oppure abbandonarle a favore di altre, ma non se ne può negare la forza e la rilevanza.

Il processo decisionale che ha condotto Sardegna chiama Sardegna ad aderire alla Coalizione Sarda non è stato facile. Come tutte le decisioni collettive serie. Le condizioni di contesto, i rapporti di forza e la normativa elettorale vigente non lasciavano molte alternative. ScS non poteva limitarsi a fare testimonianza, correndo da sola (posto che ce ne fossero i presupposti concreti), senza possibilità di avere un peso reale. E tuttavia la partecipazione alle elezioni era un passo importante e necessario, per un percorso in fase di definizione, che ha bisogno di collaudarsi e di “far fare le ossa” alle/ai sue/suoi aderenti. Ma ci sono anche buone ragioni di merito che giustificano questa scelta.

La maggior parte dei punti programmatici elaborati da ScS sono nell’agenda della nascente Coalizione Sarda. Tutto il contrario della risposta del csx, avvicinato da ScS in funzione di un’apertura politica reale verso le lotte in corso e verso la costruzione un programma di forte rilancio democratico.

L’adesione alla coalizione soriana di forze residuali del progressismo e dell’indipendentismo (iRS e ProgReS) mi pare anch’essa figlia delle circostanze, ma non scontata. Con iRS e ProgReS ScS formerà una lista unitaria. Certo che c’è del calcolo, perché mai non dovrebbe esserci? È la stessa forma della competizione elettorale a richiederlo. Poi, chiaro, non è detto che gli obiettivi di tutte le componenti coincidano fino in fondo, ma in questi casi l’importante è che ci sia una condivisione di solidi punti programmatici e un rispetto e una lealtà di fondo. La politica è essenzialmente l’arte del possibile, è negoziazione, è fare i conti con i dati di realtà.

Naturalmente ogni critica è lecita. Che non piaccia lo scenario elettorale così come si è delineato è comprensibile. Non piace fino in fondo nemmeno a me. Ma mi pare migliore di una riproposizione stantia e sempre meno presentabile del finto duopolio cdx/csx.

Le possibili forze alternative, in questa fase, sono o a fine ciclo, come pressoché tutto l’indipendentismo organizzato e il progressismo borghese (che alternativo in realtà non è mai stato), o ancora in fase di emersione, come appunto ScS. Sarà il post-elezioni a dirci qualcosa di più su come si configurerà lo scenario politico prossimo venturo. I sommovimenti sociali e le nuove forme di aggregazione e azione politica già in campo animano una possibile, nuova domanda democratica, secondo l’andamento ciclico della storia contemporanea sarda. Bisognerà vedere se si troverà una forma per politicizzare e portare fin dentro le istituzioni tale movimento.

Dopo aver letto e sentito in proposito, in Rete e di persona, commenti più o meno autorevoli e più o meno disinteressati (di solito meno), non voglio concludere senza dire qualcosa su un problema generale della sfera politica sarda.

In Sardegna la democrazia è così debole (a bassa intensità, si dice qualche volta) anche perché non disponiamo di un dibattito pubblico all’altezza delle necessità. I mass media sardi sono perlopiù schierati, ma quasi sempre senza dichiararlo. I presunti osservatori esterni non sono quasi mai né esterni né obiettivi, e anche qui troppo spesso senza chiarire in modo trasparente i loro posizionamenti e la loro agenda. L’intellighenzia sarda, accademica e non, troppo organica ai centri di potere, preferisce tacere o al limite delegittimare possibili outsider e oppositori dello status quo.

La discussione pubblica in Sardegna è pesantemente inquinata dalla televisione italiana e dalle pessime forme della comunicazione politica derivate da oltre Tirreno. Soffriamo di evidenti deficit relazionali, dovuti sia alla scomparsa delle forme di partecipazione politica novecentesca, sia all’abuso dei social media. È difficilissimo imbastire un confronto che non sfoci nella mera contrapposizione tifosa o nel banale sabotaggio dialettico. La mediocrità dilagante della politica e dell’informazione produce effetti di diseducazione democratica che si riverberano ad ampio spettro sulla vita associata, disincentivando la partecipazione attiva e precludendo alla cittadinanza la possibilità di formarsi un’idea compiuta, basata su fatti e su dati reali, dei problemi e delle possibili soluzioni.

Non è un contesto nel quale sia facile fare politica, specie se si concepisce la politica non come possibilità di arricchimento e/o carriera personale ma come partecipazione libera e costruttiva alla sfera pubblica. Eppure mai come nelle situazioni complicate è necessario provarci. Bisogna provare a resistere alla corrente, bisogna costruire appoggi e punti di approdo solidi. Bisogna immaginare e perseguire un futuro diverso da quello, che oggi sembra segnato, fatto di impoverimento e spopolamento.

Se non ci sono le forze per imporre un cambio di rotta deciso, bisogna almeno sapersi destreggiare tra i flutti, salvaguardando una scialuppa di salvataggio accogliente per chi non voglia arrendersi. Che in termini elettorali significa offrire alla cittadinanza una possibilità di voto diversa e non organica al sistema di potere vigente.

Io la vedo così e mi regolo di conseguenza. Beninteso, fino all’inizio della campagna elettorale vera e propria potranno esserci sorprese. Non sarebbe la prima volta. Tuttavia, al momento, la scelta fatta da Sardegna chiama Sardegna mi pare sensata, per quanto complicata. Le elezioni passeranno e allora bisognerà riprendere il discorso, facendo tesoro anche di questa esperienza.

da qui

 

  

L’irresistibile pulsione razzista dei media italiani verso la Sardegna - Omar Onnis

Un articolo sul giornale (un tempo) progressista La Repubblica parla dell’imminente campagna elettorale sarda e in particolare della rottura di Renato Soru col centrosinistra a guida PD. E, come per magia, spuntano fuori paternalismo fuori luogo, ignoranza crassa e stereotipi razzisti. Non è un caso e non è un caso isolato.

Neanche finito di dire che non mi sarei occupato della campagna elettorale sarda, e mi ritrovo qui a smentire me stesso. In realtà, però, non parlerò della campagna elettorale. Ma la campagna elettorale sarda, non per la prima volta, offre spunti di ragionamento su tematiche in questo caso collaterali, ma che in generale fanno parte integrante dell’irrisolta “questione sarda”.

Sul giornale Repubblica si sono accorti che in Sardegna sono avviate le manovre preliminari in vista della prossima scadenza elettorale, ma anziché spiegare appunto che ci saranno le elezioni in Sardegna e analizzare le questioni aperte e i movimenti in corso, preferiscono dedicarsi a quella che loro vedono come una spaccatura nel fronte del centrosinistra a guida PD.

È legittimo. È il loro campo politico di riferimento. Poi però dipende da come lo fai.

Inevitabilmente, lo sguardo è quello esterno (rispetto all’isola), centrato sull’Italia e sugli interessi del suo establishment politico-affaristico, della cosiddetta classe dirigente italiana (o di una sua parte). Come vede la Sardegna la classe dirigente italiana? Be’, sarebbe tema per uno studio approfondito e per un saggio ben documentato e referenziato. Del resto, c’è materiale in abbondanza. Io ne ho già accennato qualcosa, su SardegnaMondo (per esempio, qui e qui).

Nella circostanza presente, il cronista Stefano Cappellini si dedica a raccontare a lettrici e lettori lo strano caso del “derby” (gergo calcistico, mai manchi!) o, per meglio dire, della “faida” (si parla di Sardegna, dopo tutto) tra Renato Soru e Alessandra Todde.

Lascerei stare i contenuti politici (che comunque nell’articolo non ci sono) e analizzerei il taglio e il lessico del pezzo.

È nel titolo che si descrive lo scontro come “derby”, ma, dato che appunto si tratta di un “derby sardo”, non può che essere “feroce”. Ed è un fatto rilevante perché tale dissidio può “regalare l’isola alla destra”.

Lasciamo stare la faccenda della destra e della sinistra, su cui ci sarebbe da discutere. Faccio solo notare che inquadrando così la vicenda già si nega in radice ogni possibile soggettività alla cittadinanza sarda, si sottrae qualsiasi agency (per dirla in termini politologici) all’ambito politico locale e all’elettorato isolano. Non contano niente i problemi concreti, le istanze ideali in campo, le aspettative, i conflitti sociali e culturali aperti. Tutto ruota intorno allo schema – fallace e tossico – del bipolarismo all’italiana.

Nel sommario del pezzo, altre cose degne di nota:

Si vota il 24 febbraio. Tredici liste al fianco dell’ex viceministra: “Solo uniti si può tornare a vincere”. Il comizio in dialetto stretto del fondatore di Tiscali agli indipendentisti

Ci si riferisce a Soru come al fondatore di Tiscali (vero), ma si precisa subito che fa “un comizio” rivolto “agli indipendentisti” e soprattutto lo fa in “dialetto stretto”.

Ora, non so cosa sia, se esiste, un dialetto largo, a meno che non si intenda dire che Soru, nell’occasione dell’assemblea di presentazione della lista “Vota Sardigna” a Oristano, domenica scorsa, ha parlato nel suo sardo di Sanluri. Ma non credo che il senso sia questo. È solo che evidentemente risulta spontaneo associare un termine denigratorio come “dialetto” a un “comizio” rivolto agli “indipendentisti”. Tutte cose brutte, sporche e cattive. Che non fosse nemmeno un comizio in senso stretto e che Soru non si rivolgesse (solo) agli indipendentisti poco importa.

Nel pezzo vero e proprio sono rilevabili diversi ulteriori elementi significativi. Il taglio è piuttosto ironico, al limite della satira, a dispetto della serietà delle questioni in ballo e anche della drammaticità della situazione in cui versa la Sardegna attuale.

Nel primo paragrafo c’è già praticamente tutto (grassetti miei):

Prima di introdurre i protagonisti di questa storia va detto che, nel pur ricchissimo repertorio di divisioni della sinistra italiana, la vicenda sarda svetta per il livello della faida, più intricata della trama d’un cesto di pane Carasau: partiti contro partiti, pezzi di un partito contro pezzi dello stesso partito, figlie contro padri, amicizie interrotte, tessere stracciate, alleanze rimescolate con il criterio della legge del beduino: il nemico del mio nemico è mio amico.

La scelta lessicale non è fortuita né accessoria. Se c’è un dissidio politico in Sardegna non può che degenerare in una faida. Se devi usare un’ardita allegoria, non puoi rinunciare a tirare in ballo, anche a sproposito, il pane carasau (con una maiuscola reverenziale fuori luogo, forse usata erroneamente invece del corsivo, chissà). E le divisioni politiche sono etichettate in modo spregiativo – e razzista – come effetti di una pretesa “legge del beduino”.

Faccio solo notare che il cronista accenna anche nel testo al sardo usato da Soru in pubblico (sommo scandalo), ma definendolo “lingua sarda” (bontà sua). Salvo poi incorrere nel solito vezzo da italiani ammiccanti (quelli che “io amo la Sardegna: ci vado in vacanza e ho anche amici sardi”): una frase in sardo buttata lì, più o meno a caso. La frase, come quasi sempre, è scritta in modo scorretto: asibiri a tottusu. Troppo sforzo preoccuparsi dell’ortografia.

(Che poi, se pure il cronista avesse chiesto lumi in proposito, a seconda dell’interpellato/a locale la risposta potrebbe essere stata: “scrivilo come ti pare, tanto non esiste una norma ufficiale”. E va be’, siamo messi così. Ma è un altro discorso.)

Sempre a proposito di lingua sarda, nel prosieguo dell’articolo il cronista precisa quanto segue:

Per raccontare cosa Soru ha detto agli indipendentisti è necessario aspettare la traduzione a cura di giornalisti indigeni.

Chiaro, che altro aggettivo puoi usare per definire persone native di un luogo esotico come la Sardegna, dove si parla addirittura una lingua incomprensibile, se non “indigeni”?

Il resto della lettura è del tutto perdibile, non fosse altro che per la sua inutilità. Non serve a chiarire nulla di quello che sta succedendo in queste fasi preparatorie della campagna elettorale. Serve solo a piegare l’intera faccenda dentro le cornici predeterminate della propaganda di parte a cui ormai è patologicamente votata la cronaca politica anche dei maggiori organi di stampa italiani.

Quel che intendo far notare, però, al di là del contenuto informativo e della scarsissima qualità giornalistica dell’articolo, è proprio la postura del cronista verso l’oggetto di cui tratta il suo testo.

Ripeto, non è un fatto occasionale e nemmeno eccezionale. Esiste una casistica mastodontica di esempi analoghi, a volte anche peggiori. Non da oggi. I luoghi comuni razzisti e colonialisti a proposito della Sardegna e delle vicende sarde sono una costante di tutta la storia italiana, da che esiste lo stato italiano.

A ciò si aggiunge, coerentemente, il fastidio e, oltre un certo livello, la preoccupazione suscitati nei gruppi dominanti italiani da qualsiasi proposta politica e/o culturale sarda realmente autonoma, non eterodiretta, che irrompa sulla scena normalizzata e sedata del nostro dibattito pubblico.

Tanto più se appare, anche solo vagamente e/o impropriamente, come “indipendentista”. Quindi, minacciosa. Non tanto per questioni teoriche o ideali, ma perché rischia di minare corposi interessi materiali e, in generale, il fondamento stesso della necessaria (per loro) subalternità della Sardegna. In tali casi, ecco scattare immediatamente l’allarme “pensiero indipendente” (che non vuol dire necessariamente indipendentista, mi tocca precisarlo).

Ne abbiamo avuto assaggi in molte occasioni. Una soprattutto, in cui ero coinvolto direttamente, è stata la campagna elettorale (guarda un po’) del 2014, con Michela Murgia e Sardegna Possibile. Non mi stupisce se le stesse reazioni, interne e esterne, comincia a suscitarle questa proposta politica, pur differente e nata in un contesto a sua volta diverso, della Coalizione Sarda di Renato Soru.

A tale atteggiamento generalizzato e sistematico dei media e dell’establishment italiano non risponde mai – MAI! – una vera reazione compatta e forte dell’intellighenzia, del mondo politico e dei mass media isolani. La mancata reazione e, a monte, la mancata assunzione di responsabilità in queste evenienze è conseguenza della storica attitudine dei gruppi dirigenti sardi a volersi integrare negli omologhi gruppi italiani. Quasi sempre senza molto successo, ma con ostinazione e, non di rado, imbarazzante sfoggio di opportunismo e servilismo.

Anche questo è un problema consolidato con cui dobbiamo fare i conti. Prima di tutto acquisendone coscienza. Perciò, a parte l’indignazione momentanea, in realtà, in casi come questo, bisognerebbe in un certo senso essere grati. Sono occasioni in cui è più facile far risaltare l’evidente necessità storica di un affrancamento collettivo che va oltre la contingente lotta politico-elettorale. E che resterà sul tappeto comunque vadano le prossime elezioni.

da qui


Nessun commento:

Posta un commento