Dichiarazione politica-elettorale e qualche riflessione - Omar Onnis
La campagna elettorale sarda non
è ancora ufficialmente iniziata, ma le sue fasi preparatorie sono ormai a uno
stadio avanzato. Chiarisco la mia posizione.
Come dicevo
in un altro post (questo), non intendo parlare della campagna
elettorale imminente. Non perché la reputi poco interessante,
tutt’altro, ma per correttezza. Sono parte in causa.
Dall’anno
scorso sto seguendo il percorso di Sardegna chiama
Sardegna, lo spazio
politico aperto con la chiamata pubblica del 6 novembre 2022. Non si tratta
(ancora) di un’organizzazione, tanto meno di un partito, ma piuttosto di un
tentativo di rivitalizzare la politica sarda in termini democratici e
partecipativi, con lo sguardo centrato sull’isola ma ben aperto sul contesto
internazionale.
È un percorso
difficile e accidentato, per ragioni oggettive interne ed esterne. Quelle
interne discendono dalla sua natura post-ideologica e dalla sua composizione
anagrafica (prevalentemente persone intorno ai trent’anni in gran parte con
poca o nulla esperienza di militanza politica).
Post-ideologico
non significa privo di valori di riferimento e di obiettivi strategici, ma
semplicemente che non esiste un ancoraggio dogmatico alle scuole di pensiero
ereditate dal secolo scorso. Post-ideologico e anche, come ha lucidamente
evidenziato Maurizio Onnis, post-indipendentista. Non nel senso di
considerare chiusa la prospettiva indipendentista, ma nel senso di cercare una
via per superarla in avanti, tenendo conto della crisi epocale dello
stato-nazione e dello scenario globale.
E qui
veniamo alle ragioni esterne della difficoltà del percorso di ScS. Nel contesto
sardo, così debilitato e in fase di ulteriore involuzione, è faticosissimo
rispondere alla crisi presente con un rilancio democratico fatto di ottime
intenzioni, metodi nuovi e una prospettiva non banalmente elettoralistica. È
un’impresa che giusto una generazione giovane ma già matura può concepire. Dare
una mano a tale tentativo, per quel che si può, è il minimo, per quanto mi
riguarda.
Non ho mai
concepito l’impegno intellettuale come una sfera diversa e
distinta dall’impegno politico e sociale. Tutto ciò che è pubblico – ossia
rivolto alla polis, alla collettività di cui si è parte – è
interconnesso. Tutto è politica, potremmo dire in sintesi. Che ci piaccia o no.
O anche: se non ti interessi della politica, la politica comunque si
interesserà a te.
Dopo un
lungo e non semplice dibattito interno, ScS ha scelto di partecipare
alla tornata elettorale prossima ventura e di farlo con le proprie
forze. Il quadro politico tuttavia al momento non è affatto così semplice come
lo vorrebbero i fautori a oltranza del bipolarismo maggioritario e
presidenzialista. Tale schema non ha mai corrisposto alle reali
articolazioni sociali e ideali della comunità sarda, tanto meno nella vigenza
della scandalosa legge elettorale regionale approvata nel 2013 proprio
per bloccare qualsiasi tentativo di opporsi all’assetto oligarchico e
consociativo al potere.
Paradossalmente,
a scardinare il disegno oligarchico in queste settimane è proprio un soggetto
che ne ha fatto parte, sia pure a modo suo, fino a poco fa: Renato Soru.
Di Renato
Soru si possono evidenziare pregi e difetti, sbagli e scelte indovinate. Non è
un personaggio pubblico facile da interpretate e ha sempre costituito un’anomalia
nel sistema sardo. Per questo detestato e combattuto fin dai suoi esordi in
politica, e dalla sua parte non meno che dagli avversari conclamati.
La sua
esperienza da presidente della RAS, nel 2004, ha avuto un primo
biennio di grande impatto, di rottura totale con le esperienze del passato,
compresa la giunta Melis degli anni Ottanta, figlia del “vento sardista”.
Quelle premesse tuttavia sono state in larga misura
tradite. Anche per scelte sbagliate dello stesso Soru. (Beninteso, non
pretendo che la mia idea di scelte sbagliate sia universalmente condivisa. In
ogni caso, non è questo l’oggetto principale del post.)
La sua mancata
rielezione, davanti a un concorrente non certo irresistibile come Ugo
Cappellacci, fu conseguenza prima di tutto di una delusione
generalizzata, certo alimentata dai suoi avversari, ma spesso sincera.
L’indipendentismo organizzato, allora in ascesa, fu respinto da Soru medesimo,
che non ne comprese fino in fondo le ragioni profonde, al di là degli
ideologismi. Si era obiettivamente esaurita la spinta rinnovatrice del 2004. Le
forze conservatrici, comprese quelle interne al centrosinistra, ebbero la
meglio. Le giunte regionali successive smantellarono diverse innovazioni e
molte misure virtuose e soprattutto rinnegarono l’approccio complessivo della
prima giunta Soru, ripiombando l’isola indietro di dieci o vent’anni.
Alla luce di
quanto precede, per come la vedo io, Renato Soru è politicamente in
debito con la Sardegna. Che provi oggi a ripagarlo, a me sta bene. Mi
interessano poco le motivazioni personali che lo hanno spinto a cimentarsi in
questa prova. Trovo sbagliato il ragionamento secondo cui le critiche rivolte
da me e altri a esperienze del passato debbano inficiare o impedire prese di
posizione odierne. Già il solo fatto che stia contribuendo fattivamente a disarticolare
l’apparato di potere coloniale che ha dominato la scena fin qua e a
cui egli stesso è stato in qualche modo organico mi fa apprezzare la sua
decisione di rompere col centrosinistra italiano e lanciare questa sfida.
La considero
in linea con la prospettiva aperta a suo tempo da Progetto Sardegna, poi in
larga misura ripresa, precisata e irrobustita teoricamente, da Sardegna
Possibile 2014 (nell’incomprensione di molti, compreso Renato Soru,
che ora – guarda caso – subisce un trattamento analogo). Riaprire tale
prospettiva oggi è ancora (e forse persino più) necessario, possibilmente in
una versione forte e non immemore dei precedenti.
In questo
senso, è doveroso evidenziare come molte delle partite aperte dalla
giunta Soru nel 2004 fossero strategicamente importanti, anche a
dispetto della loro conclusione o del loro mancato compimento. Dalla
modernizzazione delle istituzioni, all’enfasi posta sulla scuola e sulla
formazione. Dal ragionamento su una sanità efficiente e non vincolata agli appetiti
clientelari, alla pianificazione urbanistica virtuosa. Dal rilancio della
questione linguistica (ricordiamo la fondamentale indagine
socio-linguistica del 2006), alla nuova attenzione sui beni culturali. Fino
ai trasporti interni ed esterni e al contrasto dell’asservimento militare della
Sardegna. Tutte materie in cui allora ci fu una svolta a tratti epocale.
Sono temi
tornati finalmente in agenda, con un taglio lontano dalla superficialità e
dalla cialtroneria a cui ci hanno abituato negli anni cdx e csx (compresa la
disastrosa giunta “dei professori”), così come aveva provato a fare Sardegna
Possibile 2014. Temi e taglio su cui si può discutere, entrando nel merito,
valutando le opzioni del passato per adeguarle al presente oppure abbandonarle
a favore di altre, ma non se ne può negare la forza e la rilevanza.
Il processo
decisionale che ha condotto Sardegna chiama Sardegna ad
aderire alla Coalizione Sarda non è stato facile. Come tutte le decisioni
collettive serie. Le condizioni di contesto, i rapporti di
forza e la normativa elettorale vigente non
lasciavano molte alternative. ScS non poteva limitarsi a fare testimonianza,
correndo da sola (posto che ce ne fossero i presupposti concreti), senza
possibilità di avere un peso reale. E tuttavia la partecipazione alle elezioni
era un passo importante e necessario, per un percorso in fase di definizione,
che ha bisogno di collaudarsi e di “far fare le ossa” alle/ai sue/suoi
aderenti. Ma ci sono anche buone ragioni di merito che giustificano questa
scelta.
La maggior
parte dei punti programmatici elaborati da ScS sono
nell’agenda della nascente Coalizione Sarda. Tutto il contrario della risposta
del csx, avvicinato da ScS in funzione di un’apertura politica reale verso le
lotte in corso e verso la costruzione un programma di forte rilancio
democratico.
L’adesione
alla coalizione soriana di forze residuali del progressismo e
dell’indipendentismo (iRS e ProgReS) mi pare anch’essa figlia delle
circostanze, ma non scontata. Con iRS e ProgReS ScS formerà una lista unitaria.
Certo che c’è del calcolo, perché mai non dovrebbe esserci? È la stessa forma
della competizione elettorale a richiederlo. Poi, chiaro, non è detto che gli
obiettivi di tutte le componenti coincidano fino in fondo, ma in questi casi
l’importante è che ci sia una condivisione di solidi punti programmatici e un
rispetto e una lealtà di fondo. La politica è essenzialmente l’arte del
possibile, è negoziazione, è fare i conti con i dati di realtà.
Naturalmente
ogni critica è lecita. Che non piaccia lo scenario elettorale così come si è
delineato è comprensibile. Non piace fino in fondo nemmeno a me. Ma mi pare
migliore di una riproposizione stantia e sempre meno presentabile del finto
duopolio cdx/csx.
Le possibili
forze alternative, in questa fase, sono o a fine ciclo, come pressoché
tutto l’indipendentismo organizzato e il progressismo borghese (che alternativo
in realtà non è mai stato), o ancora in fase di emersione, come appunto ScS.
Sarà il post-elezioni a dirci qualcosa di più su come si configurerà lo
scenario politico prossimo venturo. I sommovimenti sociali e le nuove
forme di aggregazione e azione politica già in campo animano una
possibile, nuova domanda democratica, secondo l’andamento ciclico della storia
contemporanea sarda. Bisognerà vedere se si troverà una forma per politicizzare
e portare fin dentro le istituzioni tale movimento.
Dopo aver
letto e sentito in proposito, in Rete e di persona, commenti più o meno
autorevoli e più o meno disinteressati (di solito meno), non voglio concludere
senza dire qualcosa su un problema generale della sfera politica sarda.
In Sardegna
la democrazia è così debole (a bassa intensità, si dice qualche volta) anche
perché non disponiamo di un dibattito pubblico all’altezza delle
necessità. I mass media sardi sono perlopiù schierati, ma quasi sempre
senza dichiararlo. I presunti osservatori esterni non sono quasi mai né esterni
né obiettivi, e anche qui troppo spesso senza chiarire in modo trasparente i
loro posizionamenti e la loro agenda. L’intellighenzia sarda, accademica
e non, troppo organica ai centri di potere, preferisce tacere o al limite
delegittimare possibili outsider e oppositori dello status quo.
La discussione
pubblica in Sardegna è pesantemente inquinata dalla
televisione italiana e dalle pessime forme della comunicazione
politica derivate da oltre Tirreno. Soffriamo di evidenti deficit
relazionali, dovuti sia alla scomparsa delle forme di partecipazione
politica novecentesca, sia all’abuso dei social media. È difficilissimo
imbastire un confronto che non sfoci nella mera contrapposizione tifosa o nel
banale sabotaggio dialettico. La mediocrità dilagante della politica e
dell’informazione produce effetti di diseducazione democratica che si
riverberano ad ampio spettro sulla vita associata, disincentivando la
partecipazione attiva e precludendo alla cittadinanza la possibilità di
formarsi un’idea compiuta, basata su fatti e su dati reali, dei problemi e
delle possibili soluzioni.
Non è un
contesto nel quale sia facile fare politica, specie se si concepisce la politica non come
possibilità di arricchimento e/o carriera personale ma come partecipazione
libera e costruttiva alla sfera pubblica. Eppure mai come nelle situazioni
complicate è necessario provarci. Bisogna provare a resistere alla corrente,
bisogna costruire appoggi e punti di approdo solidi. Bisogna
immaginare e perseguire un futuro diverso da quello, che oggi sembra segnato,
fatto di impoverimento e spopolamento.
Se non ci
sono le forze per imporre un cambio di rotta deciso, bisogna almeno sapersi
destreggiare tra i flutti, salvaguardando una scialuppa di salvataggio
accogliente per chi non voglia arrendersi. Che in termini elettorali significa
offrire alla cittadinanza una possibilità di voto diversa e non
organica al sistema di potere vigente.
Io la vedo
così e mi regolo di conseguenza. Beninteso, fino all’inizio della campagna
elettorale vera e propria potranno esserci sorprese. Non sarebbe la prima
volta. Tuttavia, al momento, la scelta fatta da Sardegna chiama Sardegna mi
pare sensata, per quanto complicata. Le elezioni passeranno e allora bisognerà
riprendere il discorso, facendo tesoro anche di questa esperienza.
L’irresistibile pulsione razzista dei media italiani verso la Sardegna - Omar Onnis
Un articolo sul giornale (un tempo) progressista La Repubblica parla dell’imminente campagna elettorale sarda e in particolare della rottura di Renato Soru col centrosinistra a guida PD. E, come per magia, spuntano fuori paternalismo fuori luogo, ignoranza crassa e stereotipi razzisti. Non è un caso e non è un caso isolato.
Neanche
finito di dire che non mi sarei occupato della campagna elettorale sarda, e mi
ritrovo qui a smentire me stesso. In realtà, però, non parlerò della campagna
elettorale. Ma la campagna elettorale sarda, non per la prima volta, offre
spunti di ragionamento su tematiche in questo caso collaterali, ma che in
generale fanno parte integrante dell’irrisolta “questione sarda”.
Sul giornale
Repubblica si sono accorti che in Sardegna sono avviate le manovre preliminari
in vista della prossima scadenza elettorale, ma anziché spiegare appunto che ci
saranno le elezioni in Sardegna e analizzare le questioni aperte e i movimenti
in corso, preferiscono dedicarsi a quella che loro vedono come una spaccatura
nel fronte del centrosinistra a guida PD.
È legittimo.
È il loro campo politico di riferimento. Poi però dipende da come lo fai.
Inevitabilmente,
lo sguardo è quello esterno (rispetto all’isola), centrato sull’Italia e sugli
interessi del suo establishment politico-affaristico, della cosiddetta classe
dirigente italiana (o di una sua parte). Come vede la Sardegna la classe
dirigente italiana? Be’, sarebbe tema per uno studio approfondito e per un
saggio ben documentato e referenziato. Del resto, c’è materiale in abbondanza.
Io ne ho già accennato qualcosa, su SardegnaMondo (per esempio, qui e qui).
Nella
circostanza presente, il cronista Stefano Cappellini si dedica a raccontare a lettrici e lettori lo strano caso del “derby” (gergo calcistico,
mai manchi!) o, per meglio dire, della “faida” (si parla di Sardegna, dopo
tutto) tra Renato Soru e Alessandra Todde.
Lascerei
stare i contenuti politici (che comunque nell’articolo non ci sono) e
analizzerei il taglio e il lessico del pezzo.
È nel titolo
che si descrive lo scontro come “derby”, ma, dato che appunto si tratta di un
“derby sardo”, non può che essere “feroce”. Ed è un fatto rilevante perché tale
dissidio può “regalare l’isola alla destra”.
Lasciamo
stare la faccenda della destra e della sinistra, su cui ci sarebbe da
discutere. Faccio solo notare che inquadrando così la vicenda già si nega in
radice ogni possibile soggettività alla cittadinanza sarda, si sottrae
qualsiasi agency (per dirla in termini politologici)
all’ambito politico locale e all’elettorato isolano. Non contano niente i
problemi concreti, le istanze ideali in campo, le aspettative, i conflitti
sociali e culturali aperti. Tutto ruota intorno allo schema – fallace e tossico
– del bipolarismo all’italiana.
Nel sommario
del pezzo, altre cose degne di nota:
Si vota il
24 febbraio. Tredici liste al fianco dell’ex viceministra: “Solo uniti si può
tornare a vincere”. Il comizio in dialetto stretto del fondatore di Tiscali
agli indipendentisti
Ci si
riferisce a Soru come al fondatore di Tiscali (vero), ma si precisa subito che
fa “un comizio” rivolto “agli indipendentisti” e soprattutto lo fa in “dialetto
stretto”.
Ora, non so
cosa sia, se esiste, un dialetto largo, a meno che non si intenda dire che
Soru, nell’occasione dell’assemblea di presentazione della lista “Vota
Sardigna” a Oristano, domenica scorsa, ha parlato nel suo sardo di Sanluri. Ma
non credo che il senso sia questo. È solo che evidentemente risulta spontaneo
associare un termine denigratorio come “dialetto” a un “comizio” rivolto agli
“indipendentisti”. Tutte cose brutte, sporche e cattive. Che non fosse nemmeno
un comizio in senso stretto e che Soru non si rivolgesse (solo) agli
indipendentisti poco importa.
Nel pezzo
vero e proprio sono rilevabili diversi ulteriori elementi significativi. Il
taglio è piuttosto ironico, al limite della satira, a dispetto della serietà
delle questioni in ballo e anche della drammaticità della situazione in cui
versa la Sardegna attuale.
Nel primo
paragrafo c’è già praticamente tutto (grassetti miei):
Prima di
introdurre i protagonisti di questa storia va detto che, nel pur ricchissimo
repertorio di divisioni della sinistra italiana, la vicenda sarda svetta per il
livello della faida, più intricata della trama d’un cesto
di pane Carasau: partiti contro partiti, pezzi di un partito contro pezzi
dello stesso partito, figlie contro padri, amicizie interrotte, tessere
stracciate, alleanze rimescolate con il criterio della legge del
beduino: il nemico del mio nemico è mio amico.
La scelta
lessicale non è fortuita né accessoria. Se c’è un dissidio politico in Sardegna
non può che degenerare in una faida. Se devi usare un’ardita allegoria, non
puoi rinunciare a tirare in ballo, anche a sproposito, il pane carasau (con una
maiuscola reverenziale fuori luogo, forse usata erroneamente invece del
corsivo, chissà). E le divisioni politiche sono etichettate in modo spregiativo
– e razzista – come effetti di una pretesa “legge del beduino”.
Faccio solo
notare che il cronista accenna anche nel testo al sardo usato da Soru in
pubblico (sommo scandalo), ma definendolo “lingua sarda” (bontà sua). Salvo poi
incorrere nel solito vezzo da italiani ammiccanti (quelli che “io amo la
Sardegna: ci vado in vacanza e ho anche amici sardi”): una frase in sardo
buttata lì, più o meno a caso. La frase, come quasi sempre, è scritta in modo
scorretto: asibiri a tottusu. Troppo sforzo preoccuparsi
dell’ortografia.
(Che poi, se
pure il cronista avesse chiesto lumi in proposito, a seconda
dell’interpellato/a locale la risposta potrebbe essere stata: “scrivilo come ti
pare, tanto non esiste una norma ufficiale”. E va be’, siamo messi così. Ma è
un altro discorso.)
Sempre a
proposito di lingua sarda, nel prosieguo dell’articolo il cronista precisa
quanto segue:
Per
raccontare cosa Soru ha detto agli indipendentisti è necessario aspettare la
traduzione a cura di giornalisti indigeni.
Chiaro, che
altro aggettivo puoi usare per definire persone native di un luogo esotico come
la Sardegna, dove si parla addirittura una lingua incomprensibile, se non
“indigeni”?
Il resto
della lettura è del tutto perdibile, non fosse altro che per la sua inutilità.
Non serve a chiarire nulla di quello che sta succedendo in queste fasi
preparatorie della campagna elettorale. Serve solo a piegare l’intera faccenda
dentro le cornici predeterminate della propaganda di parte a cui ormai è
patologicamente votata la cronaca politica anche dei maggiori organi di stampa
italiani.
Quel che
intendo far notare, però, al di là del contenuto informativo e della
scarsissima qualità giornalistica dell’articolo, è proprio la postura del
cronista verso l’oggetto di cui tratta il suo testo.
Ripeto, non
è un fatto occasionale e nemmeno eccezionale. Esiste una casistica mastodontica
di esempi analoghi, a volte anche peggiori. Non da oggi. I luoghi comuni
razzisti e colonialisti a proposito della Sardegna e delle vicende sarde sono
una costante di tutta la storia italiana, da che esiste lo stato italiano.
A ciò si
aggiunge, coerentemente, il fastidio e, oltre un certo livello, la
preoccupazione suscitati nei gruppi dominanti italiani da qualsiasi proposta
politica e/o culturale sarda realmente autonoma, non eterodiretta, che irrompa
sulla scena normalizzata e sedata del nostro dibattito pubblico.
Tanto più se
appare, anche solo vagamente e/o impropriamente, come “indipendentista”.
Quindi, minacciosa. Non tanto per questioni teoriche o ideali, ma perché
rischia di minare corposi interessi materiali e, in generale, il fondamento
stesso della necessaria (per loro) subalternità della Sardegna. In tali casi,
ecco scattare immediatamente l’allarme “pensiero indipendente” (che non vuol
dire necessariamente indipendentista, mi tocca precisarlo).
Ne abbiamo
avuto assaggi in molte occasioni. Una soprattutto, in cui ero coinvolto
direttamente, è stata la campagna elettorale (guarda un po’) del 2014, con
Michela Murgia e Sardegna Possibile. Non mi stupisce se le stesse reazioni,
interne e esterne, comincia a suscitarle questa proposta politica, pur
differente e nata in un contesto a sua volta diverso, della Coalizione Sarda di
Renato Soru.
A tale
atteggiamento generalizzato e sistematico dei media e dell’establishment
italiano non risponde mai – MAI! – una vera reazione compatta e forte
dell’intellighenzia, del mondo politico e dei mass media isolani. La mancata
reazione e, a monte, la mancata assunzione di responsabilità in queste
evenienze è conseguenza della storica attitudine dei gruppi dirigenti sardi a
volersi integrare negli omologhi gruppi italiani. Quasi sempre senza molto
successo, ma con ostinazione e, non di rado, imbarazzante sfoggio di
opportunismo e servilismo.
Anche questo
è un problema consolidato con cui dobbiamo fare i conti. Prima di tutto
acquisendone coscienza. Perciò, a parte l’indignazione momentanea, in realtà,
in casi come questo, bisognerebbe in un certo senso essere grati. Sono
occasioni in cui è più facile far risaltare l’evidente necessità storica di un
affrancamento collettivo che va oltre la contingente lotta politico-elettorale.
E che resterà sul tappeto comunque vadano le prossime elezioni.
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