C’è chi lo sussurra e chi lo grida ai quattro venti. La giunta militare golpista in Birmania/Myanmar è sull’orlo del collasso. Non me l’ha detto mio cugino al bancone del bar FaceB. Lo annuncia Zin Mar Aung in un’intervista concessa al settimanale giapponese Nikkei lo scorso 29 novembre. La voce cioè della ministra degli esteri del governo ombra del NUG-National Unity Government che abita l’esilio ma che opera sul terreno birmano con l’ala militare People’s Defence Force-PDF. Sa quello che dice Zin Mar Aung o esprime solo un desiderio? Ha trascorso undici anni in carcere, di cui nove in isolamento. Una scuola montessoriana che tempra alla concretezza.
Sono in
agitazione le alte sfere del Tatmadaw, il funesto esercito birmano?
Alle prese come al solito con cabale numeriche, rituali di divinazione e di
interrogazione dei nat per avvistare il futuro? Con “la
politica degli Spiriti”, come l’ha chiamata qualcuno? Grande risorsa birmana
che scandaglia negli antri oscuri della psiche singola e collettiva. Non dà
certezze, eroga rassicurazioni e inquietudini e illude di dominare il tempo.
Non è una società disincantata, quella birmana.
Prossimo
febbraio sono tre anni dal golpe, neanche tanti in un paese che si era sorbito
una dittatura dal 1962 al 2011. Troppi, se si sommano l’accumulo di sofferenza,
di disgregazione e di morte che i Signori della Guerra hanno procurato, insediati nella nuova capitale
luccicante di messianismo urbanistico, Naypyidaw. È dall’indipendenza
dal Regno Unito (1948) che Birmania/Myanmar pratica il suo
interminabile Nation Building, il suo Risorgimento senza
fine, impiegando il collaudato dispositivo della sovrapposizione a incastro
di guerre civili di ogni formato, dimensione e foggia. Da dove proviene la
sicurezza di Zin Mar Aung?
I geografi
militari del colonialismo britannico avevano disegnato una “Birmania vera e
propria” [Burma proper] giù da basso e tutt’intorno, sulle
alture più o meno alte, le avevano incollato Stati grandi e piccini, comunità
indipendenti, regni transitori, micro federazioni, principati, città-stato,
poco o per niente buddhisti, non birmanofoni, imparentati con l’oltre confine,
miti di fondazione e sistemi economico-produttivi molto differenti.
Elegantemente definiti “Zone di Frontiera” o “Aree Escluse”. I
geografi coloniali aspiravano non solo alla gratitudine dei loro sovrintendenti
politici, ma anche dei geografati, convinti che lo Stato
nazione che stavano battezzando fosse un geniale e meritorio stratagemma
politico e amministrativo. Questa cartografia corazzata ha imbalsamato genti e
frontiere, riuscendo a rendere ontologica la diversità tra
il centro e la periferia molteplice, la pianura e le colline-montagne,
una lingua v/s lingue e via biforcando. Ogni Area Esclusa avendo poi la sua
interna Area Esclusa. Un’architettura di gerarchie sociali e
politiche sostenute da eserciti, milizie, formazioni combattenti spesso in
contrasto tra di loro ma “unificate” idealmente dalla centralizzazione bellica
condotta dal Tatmadaw, l’esercito del centro che è pure gigantesca
impresa economica e comando politico.
Vaneggia
dunque Zin Mar Aung? Non conosce la storia del proprio paese? No, non
straparla, esprime un pronostico non campato per aria, che potrebbe anche
essere suffragato dal cedimento strutturale del regime in tempi imprevedibili.
A sostegno del suo annuncio ha una serie di eventi, così sintetizzabili:
– lo
scorso 27 ottobre tre gruppi ribelli dislocati in regioni diverse hanno
lanciato l’offensiva Operazione 1027. Si tratta di Myanmar National Democratic Alliance Army (MNDAA), Ta’ang
National Liberation Army (TNLA) e Arakan Army (AA) con aggregazione di altri gruppi più
piccoli, alcuni nati dopo il colpo di Stato del ’21, altri con cinquant’anni di
esperienza bellica. Per l’occasione hanno ripescato un marchio del 2016: The
Three Brotherhood Alliance. La Triplice Fratellanza, non
il Comando Supremo Unificato. È un buon segno, se le parole hanno un
senso. Sta a dire: fiducia reciproca e coordinamento. Mai visti prima.
Convinzione o convenienza? Si vedrà. Al momento il risultato militare è
notevole: cattura di 300 basi militari, soprattutto di frontiera con la Cina,
ad alto transito commerciale, e di una ventina di città. Il risultato
strategico lo è ancora di più. Tatmadaw non è più l’esercito
invincibile per definizione, il morale delle sue truppe è a terra (la morale è sempre
stata sotto terra), aumentano le diserzioni anche di interi reparti. Cominciano
ad andarsene gruppetti di dipendenti pubblici del settore militare. La giunta
chiede alla Cina di fare da mediatrice per un cessate il fuoco con
la Fratellanza, forse si è resa conto che controlla stabilmente solo il 17% del
territorio;
– nella
grande regione centrale di Sagaing è attiva una resistenza in parte
guidata dall’ala militare del governo in esilio, il People’s Defence
Force e da altre formazioni autonome. Hanno a che fare con
l’artiglieria pesante, i droni e i bombardamenti aerei, che in questo momento
sono l’ambient sonoro anche da altre parti del pianeta. Hanno una
caratteristica del tutto inedita nella storia della guerra civile come forma
birmana di vita: sono barmani, cioè la popolazione prevalente,
birmanofona, per lo più buddhista, che ha sempre espresso la leadership di
governo, partecipando, volente o nolente, ai piani di
birmanizzazione/barmanizzazione da questa intrapresi. Dopo il colpo di Stato
molti sono insorti armi alla mano contro sé stessi, si potrebbe dire. Contro il
gruppo di appartenenza. Questo lo shock simbolico. Il Tatmadaw non
deve solo combattere contro le disprezzate genti di frontiera, ma anche contro
la propria ombra nel centro del paese.
Il
postcolonialismo non è mai abbastanza post. Il colonialismo
europeo (britannico) in India prima, in Burma/Birmania dopo, articolava il suo
sguardo e le sue operazioni secondo un tracciato abbastanza netto: i
colonizzati sono natura e materia, il femminile, che si sottopone
alla potenza di spirito e ragione, il maschile colonizzatore,
che ha il compito storico di fecondare e ammaestrare ai livelli superiori di
civiltà. Congegno ripreso tale e quale dopo l’indipendenza: le popolazioni
delle Aree Escluse sono popolazioni naturali, tribali, materiali,
femminili. Birmanizzandole accedono a una più elevata razionalità e
spiritualità. Diventano in fine maschili. Le diverse guerre
civili sono il versante bellico di questa impiantistica completamente
neocoloniale anche se in epoca post coloniale. Ci vorrebbe, e forse c’è, uno
sguardo simultaneamente pre/post coloniale. Un angelo della storia strabico capace
nello stesso tempo di considerare antiche governance e teologie politiche, come
l’Artashastra e la teoria del Mandala, e approfittare delle più evolute forme
di democrazia, là dove sono ancora in piedi.
L’implacabile
brutalizzazione della popolazione praticata dalla giunta al potere ha forse
esaurito la sua traiettoria e sta iniziando la fase calante. Se il resto del mondo coglierà
questa nuova direzione di vettore anche i militari dovranno cambiare
linguaggio. Distruggere, radere al suolo, ma anche proporre la fine delle
distruzioni e avviare tregue. Troppa è la sproporzione tra le forze resistenti
e la potenza di fuoco del regime per attendersi il famoso collasso. Nessuna
faustiana cavalcata della Valchirie spazzerà i generali. Si è però aperta una nuova
finestra di narrazione. Il David resta David con la sua fionda, ma il
Golia non è più ciecamente convinto di essere Golia, l’imbattibile gigante. C’è
da sperare.
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