I principali avvenimenti del 2023, dalla Cop28 di
Dubai ai rapporti che inchiodano banche e finanza sul clima. E cosa può farci
ancora sperare
La crisi climatica è sempre più al centro dell’attenzione. Che sia per la cronaca degli eventi meteorologici estremi, o per l’illogica querelle tra comunità scientifica e ong, da un lato, e negazionisti dall’altro, almeno se ne parla. Per lo meno su social network e stampa alternativa, visto che quella mainstream continua a relegare quasi sempre le notizie sul clima nei trafiletti a pagina 32.
Valori
considera quello del riscaldamento un problema reale, gigantesco e che va
trattato nei termini a più riprese indicati dalle Nazioni Unite, a cominciare
dal segretario generale António Guterres. Che la transizione ecologica sia
imprescindibile (a partire da quella energetica che implica l’abbandono delle
fonti fossili e lo sviluppo delle rinnovabili) lo può ancora negare solo chi è
in malafede o chi è ignorante. Non tutti invece hanno chiaro quanto, per
operare tale cambiamento, sia necessario
l’apporto del mondo finanziario.
Il
rapporto Banking on climate chaos, in primavera, ha
spiegato che le banche continuano a concedere a chi sfrutta a vario titolo
carbone, petrolio e gas cifre semplicemente folli: 5.500 miliardi soltanto tra
il 2016 e il 2022. Quanto basta per spingerci dritti verso la catastrofe
climatica. Con il solito apporto anche delle italiane Unicredit e Intesa
Sanpaolo. D’altra parte, anche le banche che affermano di impegnarsi per
sostenere la transizione e la decarbonizzazione in realtà utilizzano
metriche che permettono di dichiarare di aver ridotto le
“emissioni finanziate” anche senza agire troppo sui fondi concessi. E i
portafogli dei grandi asset manager sono quasi tutti incoerenti con i piani di
decarbonizzazione.
Allo stesso
modo, per quanto riguarda le aziende private nel loro complesso, troppo spesso
le promesse assomigliano molto, troppo ad operazioni di greenwashing.
Un report dell’organizzazione non governativa Carbon Disclosure Project ha analizzato
più di 18mila aziende: tra queste, più di 4mila hanno pubblicato un piano di
transizione climatica. Eppure, solo 81 di questi risultano «credibili», secondo
la stessa ong. Lo 0,4%! Passando all’automotive, la musica non cambia. Dopo
il Dieselgate del 2015, livelli di emissione “sospetti” continuano in
almeno il 77% dei test effettuati su auto diesel
in Europa. E c’è perfino chi si è adoperato per boicottare
le verità scientifiche sugli impatti sulla salute delle
emissioni domestiche.
Tutto
cambia, insomma, affinché nulla cambi. O comunque troppo poco. Il risultato è
che l’obiettivo di limitare la crescita della temperatura media globale ad 1,5
gradi centigradi, come indicato nell’Accordo di Parigi, è quasi fuori portata. Ad esserne responsabili
sono soprattutto i Paesi ricchi del mondo. Per la precisione, in particolare, i
ricchi che abitano soprattutto nei Paesi ricchi. Ciò mentre le popolazioni indigene continuano a
pagare il prezzo più alto del riscaldamento climatico, e quelle dei Paesi a
basso reddito potrebbe presto non
avere ospedali a sufficienza, proprio per colpa (tra gli altri
fattori) della crisi climatica.
Gli eventi
meteorologici estremi, quelli invece non risparmiano già nessuno. Il disastro
dell’Emilia-Romagna è solo uno dei drammi che abbiamo vissuto,
stiamo vivendo e vivremo in futuro. Anche per questo si moltiplicano le
azioni in giustizia contro i governi: ultime in ordine di tempo quella che ha
portato alla condanna del Belgio e
quella intentata da Greenpeace e ReCommon contro Eni in Italia.
Ciò
nonostante, a livello istituzionale perfino l’Europa ha scelto di piazzare al
posto del sincero ambientalista olandese Frans Timmermans il suo
connazionale Wopke Hoekstra: ex del colosso petrolifero
Shell e di McKinsey. È il mondo che non vuole cambiare. Quello che scopre che
siamo sommersi da inquinanti eterni e ancora non legifera
per porvi rimedio (ammesso che ciò sia almeno in parte possibile). Quello che
continua ad estrarre dal mondo molte più risorse di quante esso sia in grado di
riprodurne. Quello che sceglie come presidente della Cop28 un petroliere.
Quello che privilegia i profitti di pochi rispetto al benessere di tanti.
Quello che continua a finanziare l’industria della difesa inondando il mondo di
armi in un nome della “salvaguardia della pace e della sicurezza” mentre
ovunque si moltiplicano i conflitti.
Ma non c’è
da stupirsi. È il nostro modello di sviluppo ad imporre tutto questo. Il
sistema economico nel quale viviamo si nutre di questo: della massimizzazione
del profitto ad ogni costo, dell’accumulo di risorse e ricchezza nelle mani di
pochi, delle disuguaglianze, del vendere la bugia secondo la quale ci si
dovrebbe accontentare delle briciole che piovono da chi se la spassa. L’augurio
per il 2024 è che la trasformazione, inevitabile, avvenga il più presto
possibile. L’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis ne è certo:
«Quando il feudalesimo stava già crollando, tutto attorno era ancora basato su
di esso. Oggi il capitalismo è già finito, anche se tutto è ancora basato su di
esso». Il cambiamento, secondo l’ex ministro, rivoluzionerà sia i mercati
finanziari che quelli del lavoro: «La speranza è il mio dovere e ad essa mi
aggrappo – ha affermato -. Anche contro ogni evidenza empirica».
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