mercoledì 25 marzo 2020

Elogio della paura e altre storie (lezioni da un viaggio in Afghanistan) - Paolo Rumiz


In guerra si imparano le cose in fretta. Capita anche ai reporter più collaudati. A me è capitato in Afghanistan, nel novembre del 2001, due mesi dopo l'attacco alle Torri gemelle di New York. E' stato lì, che in soli cinque giorni, ho imparato tre delle cose più importanti della mia vita.

La Nato aveva iniziato a bombardare i Taliban e io ero stato mandato a Islamabad, in Pakistan, per tentare di passare la frontiera e raggiungere Kabul alla prima occasione. E' il 7 novembre quando arrivo in volo dall'Italia. Dopo pochi giorni sono preso dalla claustrofobia. Sono in mezzo a colleghi di tutto il mondo, le comunicazioni sono facili, il ristorante è buono, ma mi annoio. Sono troppo lontano dagli eventi. Lontano dalla realtà. Ho bisogno di polvere, di strade, di facce, delle montagne dell'Hindukush.
Il 13 novembre salto su un autobus per il Kyber Pass, la mitica frontiera, sbarrata da due mesi a causa della guerra. Percorro al contrario la stessa strada seguita da Alessandro Magno ventiquattro secoli prima. Non ho un interprete ma mi esprimo a gesti. Ho uno zaino di sei chili e con dentro un telefono satellitare. Sono libero. Respiro.

Al passo trovo centinaia di pakistani e afghani di etnia pashtun in attesa di passare. Sono lì in attesa da settimane, un mese. Hanno pazienza. Pregano sulle alture desertiche, accendono piccoli fuochi, scaldano del thè, comprano pane e formaggio dai pastori. La notte si raggomitolano sotto un plaid e dormono sotto le stelle.
Fraternizzo con loro a gesti. Divido il mio cibo. Dormo accanto ai loro fuochi. Ascolto i loro canto melanconici e provo a cantare qualcosa anch'io. Riesco a comunicare a gesti e con dieci parole base di inglese. Gli uomini delle montagne cominciano a conoscermi, a fidarsi di me. Divento uno di loro. E, incredibilmente, delle notizie trapelano. Non conosco la lingua, ma il destino di quelle vite mi consente di avere un primo quadro della situazione.
Sono stupefatto. Mi sento a casa. Sulla nuda terra, sotto le stelle dell'Hindukush mi sento più protetto e ho più notizie che nell'albergo internazionale di Islamabad. Le facce che mi circondano sono le facce dei miei avi. Facce, familiari, indo-europee. Mi accorgo di avere appreso una prima grande lezione: la condivisione è un'arma formidabile, abbatte ogni ostacolo. Anche la barriera linguistica.
Il 14 novembre il tam-tam delle voci comunica che è attesa una carovana di camion carichi di mujaheddin armati che hanno il permesso di entrare in Afghanistan per combattere i Taliban. E' un'occasione da non perdere. Forse potrò superare il confine. Come non so, ma ci provo. Mi sistemo su un tornante a un chilometro dalla frontiera e aspetto, col cuore che batte a mille.
Verso l'una una colonna di camion scende verso il posto di blocco lasciandosi alle spalle una scia di polverone. Sono più di cento. Il cassone dei mezzi è pieno di guerrieri barbuti con fucili mitragliatori. Facce contente, come di chi va in vacanza. I Pashtun sono fatti per la guerra. La colonna si ferma davanti alla sbarra di confine, lasciandosi alle spalle una coda interminabile…

Nessun commento:

Posta un commento