martedì 24 marzo 2020

L’AGROINDUSTRIA E LE EPIDEMIE - Rob Wallace




(Le domande sono state poste da Yaak Pabst)

Quanto è pericoloso il nuovo coronavirus?
Rob Wallace: Dipende da dove ci si trova nella tempistica della propria epidemia locale di Covid-19: all’inizio, al picco, tardi? Quanto è buona la reazione della sanità pubblica della propria regione? A quale segmento demografico si appartiene? Quanti anni si hanno? Si è immunologicamente compromessi? E per considerare una possibilità non diagnosticabile: la propria immunogenetica, la genetica alla base della propria reazione immunitaria, è in linea con il virus o no?

Dunque, tutto questo clamore riguardo al virus è solo una tattica per spaventare?
No, certamente no. A livello di popolazione il Covid-19 segnava tra il 2% e il 4% di tasso di mortalità dei casi (CFR) all’inizio dell’epidemia a Wuhan. Fuori da Wuhan il CFR risulta scendere intorno all’un per cento, o anche meno, ma risulta anche avere dei picchi qua è là, compresi luoghi come l’Italia e gli Stati Uniti. La sua percentuale non pare alta in confronto, diciamo, con la SARS al 10%, l’influenza del 1918 tra il 5 e il 20%, l’”influenza aviaria” H5N1 al 60% o, in certi punti, l’Ebola al 90%. Ma certamente supera il CFR dell’influenza stagionale: 0,1%. Il pericolo non è tuttavia solo una questione di tasso di mortalità. Dobbiamo vedercela quello che è chiamato tasso di penetrazione o attacco comunitario: quanta della popolazione globale è infettata dall’epidemia.

Può essere più specifico?
La rete globale dei trasporti di passeggeri è a un livello record di connessione. Senza vaccini o antivirali specifici per il coronavirus, né a questo punto alcuna immunità di gregge, anche un ceppo di solo l’un per cento di mortalità può presentare un pericolo considerevole. Con un periodo di incubazione di fino a due settimane e una crescente evidenza di alcune trasmissioni prima della malattia – prima di sapere che le persone sono contagiate – pochi luoghi probabilmente sarebbero privi di infezioni. Se, diciamo, il Covid-19 registrasse l’un per cento di mortalità nel corso dell’infezione di quattro miliardi di persone, si tratterebbe di 40 milioni di morti. Una piccola percentuale di un grande numero può essere comunque un grande numero.

Sono cifre paurose per un patogeno verosimilmente meno virulento…
Decisamente, e siamo solo all’inizio dell’epidemia. E’ importante capire che molte nuove infezioni cambiano nel corso dell’epidemia. La contagiosità, la virulenza o entrambe possono attenuarsi. D’altro canto altre epidemie aumentano di virulenza. La prima ondata della pandemia di influenza nella primavera del 1918 fu un’infezione relativamente leggera. Furono la seconda e la terza ondata quell’inverno e nel 1919 che uccisero milioni di persone.

Ma gli scettici della pandemia sostengono che è stato contagiato e ucciso dal coronavirus un numero di pazienti minore di quello della tipica influenza stagionale. Che cosa ne pensa?
Sarei il primo a festeggiare se questa epidemia si dimostrasse una bomba inesplosa. Ma questi tentativi di scartare il Covid-19 come un possibile pericolo citando altre malattie mortali, specialmente l’influenza, sono un artificio retorico per interpretare la preoccupazione del coronavirus come mal riposta.

Dunque il confronto con l’influenza stagionale è zoppicante…
Ha poco senso paragonare due patogeni in parti diverse delle loro epicurve. Tuttavia l’influenza stagionale fa contagiare gli uni gli altri molti milioni di persone, uccidendone, secondo stime dell’OMS, fino a 650.000 l’anno. Il Covid-19, tuttavia, sta solo cominciando il suo percorso epidemiologico. E diversamente dall’influenza non abbiamo né un vaccino, né l’immunità di gregge per rallentare l’infezione e proteggere le popolazioni più vulnerabili.

Anche se il confronto è fuorviante, entrambe le malattie appartengono a virus, persino a un gruppo specifico, i virus RNA. Entrambe causano malattie. Entrambe colpiscono la bocca e l’area della gola e a volte anche i polmoni. Entrambe sono molto contagiose.
Queste sono somiglianze superficiali che non colgono una parte cruciale nel confrontare due patogeni. Sappiamo molto riguardo alla dinamica dell’influenza. Sappiamo pochissimo riguardo a quella del Covid-19. E’ immerso nell’ignoto. In effetti c’è molto riguardo al Covid-19 che non è conoscibile fino a quando l’epidemia non si manifesterà appieno. Al tempo stesso, è importante capire che non è questione di Covid-19 rispetto all’influenza. Si tratta di Covid-19 e influenza. L’emergere di infezioni multiple capaci di diventare pandemiche, attaccando popolazioni in combinazione, dovrebbe essere al centro della preoccupazione.

Lei conduce ricerche sulle epidemie e le loro cause da molti anni. Nel suo libro “Big Farms Make Big Flu” [Grandi fattorie causano grandi influenze] lei tenta di ricavare questi collegamenti tra le pratiche agricole industriali, l’agricoltura organica e l’epidemiologia virale. Quali sono i suoi approfondimenti?
Il vero pericolo di ogni nuovo focolaio è l’assenza o, detto meglio, il rifiuto interessato di capire che ciascun nuovo Covid-19 non è un incidente isolato. L’accresciuto presentarsi di virus è strettamente legato alla produzione di cibo e ai profitti delle imprese multinazionali. Chiunque miri a capire perché i virus stanno diventando più pericolosi deve indagare il modello industriale dell’agricoltura e, più specificamente, la produzione di bestiame. Attualmente pochi governi, e pochi scienziati, sono preparati a farlo. Tutto il contrario.
Quando sorgono le nuove epidemie i governi, i media e persino gran parte della dirigenza medica sono così concentrati su ciascuna emergenza separata che scartano le cause strutturali che stanno spingendo molteplici patogeni marginali a un’improvvisa celebrità globale, uno dopo l’altro?

Di chi la colpa?
Ho detto dell’agricoltura industriale, ma c’è un ambito più vasto al riguardo. Il capitale sta capeggiando arraffamenti di terre nell’ultima delle foreste primarie e in piccole proprietà agricole in tutto il mondo. Queste investimenti determinano la deforestazione e gli sviluppi urbani che conducono all’emergere di malattie. La diversità e complessità funzionali di questi vasti territori sono ridotte in modo tale che patogeni in precedenza bloccati si stanno riversando in bestiame e comunità umane locali. In poche parole, capitali come Londra, New York e Hong Kong andrebbero considerati come i nostri principali punti caldi della malattia.

Di quali malattie parliamo?
A questo punto non ci sono patogeni che non arrivino nelle capitali. Anche le più remote sono colpite, anche se a distanza. Ebola, Zika, i coronavirus, di nuovo la febbre gialla, una varietà di influenze aviarie, la febbre suina africana nei maiali sono tra i molti patogeni che si fanno strada dagli entroterra più remoti a circuiti peri-urbani, a capitali regionali e alla fine nella rete globale dei trasporti passeggeri. Dai pipistrelli della frutta in Congo a uccidere chi si abbronza a Miami, nel giro di poche settimane.

Qual è il ruolo delle multinazionali in questo processo?
Il Pianeta Terra a questo punto è in larga misura il Pianeta Fattoria, quanto a biomasse e terre usate. L’agroindustria sta mirando a monopolizzare il mercato alimentare. La quasi interezza del progetto neoliberista è organizzata intorno al sostegno di sforzi di imprese con sede nei paesi industriali più avanzati di prendersi la terra e le risorse dei paesi più deboli. In conseguenza, molti di questi patogeni in precedenza tenuti sotto controllo dalle ecologie forestali dalla lunga evoluzione sono liberati, minacciando il mondo intero.

Quali effetti hanno su questo i metodi produttivi dell’agroindustria?
L’agricoltura capitalistica che sostituisce ecologie più naturali offre esattamente i mezzi attraverso i quali i patogeni possono evolvere i fenotipi più virulenti e infettivi. Non si potrebbe ideare un sistema migliore per coltivare malattie mortali.

Come mai?
Allevare monocolture genetiche di animali domestici rimuove qualsiasi barriera possa essere disponibile per rallentarne la trasmissione. Le dimensioni e le densità di popolazioni più vaste facilitano tassi maggiori di trasmissione. Tali condizioni affollate deprimono la risposta immunitaria. L’elevata capacità di trasmissione, parte di ogni produzione industriale, offre una quantità continuamente rinnovata di soggetti sensibili, il carburante dell’evoluzione della virulenza. In altre parole, l’agroindustria è così concentrata sui profitti che selezionare un virus che potrebbe uccidere un miliardo di persone è trattato come un rischio da correre.

Cosa!?
Queste società possono semplicemente scaricare su tutti gli altri i costi delle loro attività epidemiologicamente pericolose. Dagli stessi animali ai consumatori, lavoratori agricoli, ambienti e governi locali attraverso giurisdizioni. I danni sono così estesi che dovessimo riportare quei costi sui bilanci delle società, l’agroindustria che conosciamo sarebbe finita per sempre. Nessuna società potrebbe sostenere i costi dei danni che impone.

Su molti media si afferma che il punto di partenza del coronavirus è stato un “mercato di cibi esotici” a Wuhan. Questa descrizione è vera?
Sì e no. Ci sono indizi spaziali a favore dell’idea. Il tracciamento dei contatti ha ricollegato le infezioni al Mercato all’Ingrosso del Pesce di Hunan in Wuhan, dove erano venduti animali selvatici. Il campionamento ambientale in effetti risulta indicare la parte occidentale del mercato, dove erano tenuti gli animali selvatici.
Ma quanto indietro e quanto diffusamente dovremmo indagare? Quando esattamente è realmente iniziata l’epidemia? La concentrazione sul mercato non coglie le origini dell’agricoltura selvatica negli entroterra e la sua recente capitalizzazione. Globalmente, e in Cina, il cibo selvatico sta diventando più formalizzato come settore economico. Ma la sua relazione con l’agricoltura industriale si estende oltra la mera condivisione degli stessi sacchi di soldi. Quando la produzione industriale – maiali, pollame e simili – si espande nella foresta primaria, esercita pressioni sugli operatori del cibo selvatico perché frughino più addentro nella foresta in cerca di fonti, aumentando l’interfaccia con, e il riversamento di, nuovi patogeni, incluso il Covid-19.

Il Covid-19 non è il primo virus a svilupparsi in Cina che il governo ha cercato di nascondere.
Sì, tuttavia questo non rende eccezionali i cinesi. Anche Stati Uniti ed Europa sono stati epicentri di nuove influenze, recentemente H5N2 e H5Nx, e le loro multinazionali e vassalli neocoloniali hanno spinto l’emergere dell’Ebola in Africa Occidentale e della Zika in Brasile. I dirigenti della sanità pubblica statunitense hanno coperto l’agroindustria durante le epidemie di H1N1 (2009) e H5N2.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha ora dichiarato una “emergenza sanitaria di interesse internazionale”. Tale passo è corretto?
Sì. Il pericolo di un tale patogeno è che le autorità sanitarie non devono basarsi sulla distribuzione statistica del rischio. Non abbiamo idea di come il patogeno possa rispondere. Siamo passati da un focolaio in un mercato a infezioni schizzate in tutto il mondo nel giro di settimane. Il patogeno potrebbe semplicemente esaurirsi. Sarebbe grandioso. Ma non lo sappiamo. Una preparazione migliore accrescerebbe le probabilità di ridurre la velocità di fuga del patogeno.
La dichiarazione dell’OMS fa anche parte di quello che io chiamo teatro pandemico. Organizzazioni internazionali sono morte a causa dell’inazione. Viene in mente la Lega delle Nazioni. Il gruppo di organizzazioni dell’ONU teme sempre per la propria rilevanza, potere e finanziamenti. Ma tale azionismo può anche convergere nell’effettiva preparazione e prevenzione di cui il mondo ha bisogno per bloccare le linee di trasmissione del Covid-19.

La ristrutturazione neoliberista del sistema dell’assistenza sanitaria ha peggiorato sia la ricerca sia la cura generale dei pazienti, ad esempio negli ospedali. Quale differenza potrebbe fare un sistema di assistenza sanitaria finanziato meglio nel combattere il virus?
C’è la storia terribile ma indicativa del dipendente di una società di consulenza medica di Miami che, tornato dalla Cina con sintomi di tipo influenzale, ha fatto la cosa giusta per la sua famiglia e la sua comunità chiedendo a un ospedale locale di sottoporlo a test per il Covid-19. Era preoccupato che la sua opzione minima del [programma di assistenza sanitaria] Obamacare non avrebbe coperto il costo. Aveva ragione. Si è trovato improvvisamente indebitato di 3.270 dollari. Una rivendicazione statunitense potrebbe essere che sia approvato un decreto d’emergenza che preveda che nel corso dello scoppio di un’epidemia, tutte la parcelle mediche relative a test per infezioni e a cure dopo un test positivo siano pagate dal governo federale. Vogliamo incoraggiare le persone a cercare aiuto, dopotutto, piuttosto che nascondersi – e contagiare altri – perché non possono permettersi le cure. L’ovvia soluzione è un servizio sanitario nazionale – pienamente dotato di personale e attrezzature per gestire tali emergenze a livello di comunità – in modo che un problema tanto ridicolo quale lo scoraggiamento della cooperazione comunitaria non sorga mai.

Non appena il virus è scoperto in un paese, i governi dovunque reagiscono con misure autoritarie e punitive, quali la quarantena obbligatoria di intere aree e città. Simili misure drastiche sono giustificate?
Usare un’epidemia come beta test del più recente controllo autocratico post epidemia è capitalismo dei disastri oltre i limiti. In termini di sanità pubblica io sbaglierei dalla parte della fiducia e della compassione, che sono importanti variabili epidemiologiche. Senza di esse le giurisdizioni perdono il sostegno delle loro popolazioni. Un senso di solidarietà e comune rispetto è parte cruciale del suscitare la cooperazione di cui abbiamo bisogno per sopravvivere insieme a simili minacce. L’auto-quarantena con appropriati controlli di sostegno da parte di catene di vicinato addestrate, forniture di beni alimentari porta a porta, permessi dal lavoro e indennità di disoccupazione, possono suscitare quel genere di cooperazione, che siamo tutti nella stessa barca.

Come forse sa, in Germania con l’AfD abbiamo un partito di fatto nazista con 94 seggi in parlamento. La destra nazista dura e altri gruppi associati a politici dell’AfD usano la crisi del coronavirus per la loro agitazione. Diffondono notizie (false) riguardo al virus e chiedono misure più autoritarie da parte del governo: limitazioni dei voli e blocco dell’ingresso dei migranti, chiusure dei confini e quarantena forzata…
I divieti dei viaggi e le chiusure dei confini sono richiesti mediante le quali la destra radicale vuole rendere razziali quelle che sono affezioni globali. Questo, naturalmente, è insensato. A questo punto, considerato che il virus è già in corso di diffondersi dovunque, la cosa sensata da fare è lavorare allo sviluppo del genere di resilienza della sanità pubblica in cui non importa chi si presenta con un’infezione, noi abbiamo i mezzi per trattarlo e curarlo. Naturalmente, smettere di sottrarre terre all’estero e di causare esodi, tanto per cominciare, e possiamo innanzitutto evitare che i patogeni emergano.

Quali sarebbero cambiamenti sostenibili?
Al fine di ridurre l’emergere di nuove epidemie virali, la produzione alimentare deve cambiare radicalmente. L’autonomia degli agricoltori e un forte settore pubblico possono frenare […] le infezioni fuori controllo. Introdurre varietà di bestiame e raccolti – e una riforestazione strategica – sia a livello di fattoria sia a livelli regionali. Permettere che gli animali si riproducano in luogo per trasferire immunità verificate. Collegare la giusta produzione con la giusta circolazione. Sovvenzionare il sostegno ai prezzi e a programmi di acquisto dei consumatori a sostegno della produzione agroecologica. Difendere questi esperimenti sia dalle compulsioni imposte dall’economia neoliberista sia agli individui sia alle comunità e la minaccia della repressione dello stato a guida capitalista.

Che cosa dovrebbero chiedere i socialisti di fronte alla crescente dinamica delle epidemie?
L’agroindustria, come modo di riproduzione sociale, deve essere abbandonata per davvero, anche se solo per ragioni di sanità pubblica. La produzione fortemente capitalizzata di alimenti dipende da pratiche che mettono a rischio l’intera umanità, in questo caso contribuendo a scatenare una nuova pandemia mortale. Dovremmo pretendere che i sistemi alimentari siano socializzati in modo tale che a patogeni così pericolosi sia impedito di emergere, tanto per cominciare. Ciò richiederà la reintegrazione della produzione di alimenti prima nei bisogni delle comunità rurali. Ciò richiederà pratiche agroecologiche che proteggano l’ambiente e gli agricoltori mentre fanno crescere il nostro cibo. Nel grande quadro dobbiamo curare le fratture metaboliche che separano le nostre ecologie dalle nostre economie. In breve, abbiamo un pianeta da vincere.
Mille grazie per l’intervista.

da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Marx21
Traduzione di Giuseppe Volpe


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