venerdì 20 marzo 2020

Airbnb, dimora di diseguaglianze - Marta Fana, Davide Villani




La piattaforma che promette di agevolare i rapporti tra proprietari e turisti ha in realtà potenziato enormemente le differenze sociali e la rendita immobiliare

Il turismo è il petrolio d’Italia. Una battuta ripetuta costantemente negli anni, da ultimo anche dall’attuale Ministro delle politiche agricole Gian Marco Centinaio. Prima di lui l’economista Luigi Zingales che suggerì a Flavio Briatore durante un dibattito in tv una massima per cui l’Italia non avrebbe un futuro nelle biotecnologie, bensì nel turismo. La palla fu allora raccolta niente poco di meno che da Oscar Farinetti per cui “nel Sud c’è una sola roba da fare: un unico Sharm El Sheikh”. Fortunatamente di questa idea non rimangono che parole al vento, mentre il turismo è un fenomeno reale, e in crescita, che va analizzato. L’esplodere del turismo low-cost modifica quotidianamente le condizioni di vita di milioni di cittadini da un lato spostando la creazione di lavoro verso i settori della ristorazione e alberghieri, servizi a scarsa produttività. Dall’altro, la capacità di mettere a profitto ogni centimetro delle nostre città impoverisce la maggioranza di chi ci vive a causa dell’aumento dei prezzi degli affitti e delle politiche adottate dalle amministrazioni a favore esclusivo dei turisti. Fenomeni che rimettono in discussione la bilancia dei benefici che queste forme di turismo favoriscono a partire proprio dal grande mercato degli affitti.
I ricchi possono diventare sempre più ricchi
Il grande inganno di quello che viene comunemente definito “sharing economy” è che tutti possono diventare più ricchi, beneficiarne positivamente. Ma tutti chi? Nel caso degli affitti via piattaforma, come di tutti gli altri, prima di tutto bisogna possedere una casa da poter eventualmente affittare. Certo, c’è anche chi subaffitta la camera già affittata da altro proprietario, ma di questo si parlerà più avanti. L’Italia è al terzo posto per la diffusione della proprietà immobiliare tra i paesi dell’Europa Occidentale con il 71,3% delle famiglie  proprietario di abitazione (di cui il 14% con mutuo a carico), subito dietro a Spagna (74%) e Portogallo (78%).
Tuttavia, non tutti i proprietari hanno una disponibilità di immobili tali da derivarne una rendita tramite affitto. Una cosa è la diffusione, un’altra la sua concentrazione. La distribuzione della proprietà immobiliare segue quella della ricchezza reale totale, di cui ne costituisce la parte più consistente (circa il 70%) che per il 46% è in mano al decimo più ricco della popolazione italiana – stime Banca d’Italia. La concentrazione di patrimonio favorisce la sua messa a profitto soprattutto per chi ne detiene cospicue quantità: rielaborando i dati sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia emerge che il reddito da affitti attivi è detenuto per il 91% circa dalle famiglie più benestanti (quelle cioè che fanno parte del 10% più ricco in termini di reddito disponibile).
Come se non bastasse, sembra paradossale constatare che esiste un enorme patrimonio immobiliare di case vuote. In Italia ammontano a circa 7 milioni, e di questi più di 60 mila sono alloggi di proprietà pubblica che rimangono sigillati per mancanza di investimenti adeguati, quando non destinati a essere svenduti ai privati, come  previsto anche nella Manovra economica del governo che prevede una dismissione di immobili pubblici pari a 600 milioni di euro nel prossimo triennio. Se è vero che questo fenomeno riguarda soprattutto zone a forte spopolamento, il numero di immobili vuoti è considerevole anche nelle grandi città. A Roma le case vuote superano le 200 mila unità, 20 volte di più del numero di famiglie in attesa di un alloggio popolare. Dentro questo quadro viene spesso taciuta la responsabilità dei governi che hanno negli anni completamente ignorato quando non denigrato il diritto alla casa: la spesa pubblica relativa è pari allo zero percento del Pil, era così prima della crisi nel 2007 ed è così nel 2016 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati Ocse).
Piuttosto che provvedere a una politica abitativa che sia democratica e universale, garantendo il diritto alla casa, si lasciano crescere fenomeni di privatizzazione e si favorisce la rendita. Così, in un contesto in cui le possibilità di reddito diminuiscono per i più, anche chi detiene piccole proprietà immobiliari ricorre con sempre maggiore interesse alla possibilità di affittare e aumentare il proprio reddito dotandosi di una via di fuga dalla miseria del lavoro. A loro si rivolse l’ex Presidente del consiglio Matteo Renzi che si oppose all’introduzione di una aliquota del 21% sui ricavi di bed&breakfast, affittacamere e Airbnb. Per coloro che detengono solo una stanza da affittare, il guadagno facile e senza oneri fiscali innesca l’illusione di ottenere maggiore reddito consolati dalla sempiterna retorica berlusconiana del si abbassino le tasse, specie sulle case. Non importa per chi e per come. Ma questi piccoli affittuari sono spesso altri lavoratori, magari martoriati sul lavoro, precari e poveri che trovano nella rendita la possibilità di un’autonomia economica, fuori dal perimetro aggressivo del mondo del lavoro.
Un processo che mina le possibilità di conflitto nei luoghi di lavoro, separando chi non sente più l’esigenza di lottare perché ha messo in affitto una stanza o un appartamento e chi quella stanza in affitto non può più permettersela seppur a parità di salario, a parità di sfruttamento.
I turisti rubano le case dei residenti!
La possibilità di aumentare la rendita immobiliare attraverso gli affitti a breve termine per turisti – aumentando il costo giornaliero – si scaglia  su chi non possedendo un’abitazione deve vivere in affitto. Un fenomeno strettamente legato alla posizione sociale delle famiglie: secondo i dati Banca d’Italia, nel 2016, vive in affitto il 37,8% delle famiglie il cui capofamiglia ha un’occupazione di tipo operaio o affine contro il 5% dei dirigenti e il 10,2% delle famiglie con a capo un libero professionista. Una diseguaglianza che nel tempo è andata crescendo mostrando come dirigenti e professionisti hanno avuto la capacità economica di acquistare immobili, mentre gli operai sempre meno.
Divergenze che emergono anche nella scomposizione anagrafica: il 40% dei giovani under 30 e il 35% delle famiglie con capofamiglia tra i 30 e 40 anni vivono in affitto contro il 16% degli over 50 (Fonte: Shiw Banca d’Italia). Di fronte a questi dati, va sfatata la retorica dominante che  accusa i giovani di essere bamboccioni – sono troppo pochi sia quelli in affitto sia quelli che responsabilmente comprano casa – o i loro genitori di essere privilegiati. La realtà ci restituisce un quadro differente: i giovani sono le vittime di un sistema economico che ha permesso la svalutazione salariale e l’impoverimento generalizzato di chi entrava nel mercato del lavoro dalla fine degli anni Novanta a causa anche di quel disinvestimento in spesa sociale in cui il diritto all’abitare dovrebbe avere piena cittadinanza. I due grafici sono più sovrapponibili di quanto sembra, se si considera che molti giovani precari fanno parte di quella classe lavoratrice, sinteticamente racchiusa tra “gli operai e affini”. Senza indugi né tentennamenti, va detto che la questione non è anagrafica ma di classe.
Ed è su questi soggetti quindi che si abbatte l’aumento del prezzo degli affitti, generando una riduzione dei salari reali, già aggrediti dalla svalutazione generale del lavoro. La maggiore rendita sarà ancora una volta pagata da quella parte di società già indebolita dal lungo processo di riforme del mercato del lavoro e di politiche di austerità. Quando questo drenaggio dai salari verso la rendita non è più sopportabile per i lavoratori o, più semplicemente, i proprietari decidono che “non si affitta ai lavoratori ma solo ai turisti”, non rimane che spostarsi verso la periferia. Lo stesso vale per gli studenti fuorisede per i quali i canoni d’affitto sono aumentati in media del 4% nell’ultimo anno rispetto al 2016. Come riporta La Repubblica, secondo il rapporto annuale di SoloAffitti,  “a Milano per una singola servono 563 euro al mese (+7% rispetto l’anno scorso), a Bologna 350 (+2%), a Trieste 275 euro (+20%), a Ferrara 225 (+6%), a Perugia 200 (+18%)”.
E’ il processo che porta alla ghettizzazione del proletariato contemporaneo verso  periferie sempre più abbandonate dalla politica, sempre più bacino di scarico per tutto ciò che può rovinare i lustrini dei centri urbani confezionati ad uso e consumo del turista medio.
Turismo di massa, fino alla prossima gentrificazione
La profittabilità per pochi viene usata per rafforzare l’idea che l’intervento regolatore debba andare a beneficio e sottomettersi a queste nuove condizioni che il mercato richiede. Tagliare su tutto ciò che non è produttivo e investire solo lì dove viene creata ricchezza (sic!). Un ragionamento che si estende ai governi locali i quali  piuttosto che aprire uno scontro frontale coi governi centrali a causa del blocco delle assunzioni, dei continui tagli alle risorse e all’imperativo dei conti in ordine, scelgono di fare propria l’idea neoliberista del più mercato e quindi di spostare le proprie risorse a favore di questo nuovo modello di città. Lo fa modificando il già degradato servizio di trasporti pubblici, potenziando le linee lungo le tratte turistiche ma riducendo le corse e il numero di autobus verso le zone periferiche, quelle cioè dove gli espulsi dal centro sono costretti ad abitare. Per effetto indiretto si incentiva così il trasporto privato alimentando non soltanto altri sistemi profittevoli, come Uber, taxi, ma soprattutto provocando maggiore congestione per le strade e effetti negativi sull’ambiente.
Data la tendenza in atto c’è da aspettarsi che anche il turismo di massa tenderà nel non lungo periodo a mettere in moto misure di esclusività volte a marginalizzare i viaggiatori dal più basso potere d’acquisto. Non mancano infatti segnali che vanno in questa direzione. Sono in aumento il numero di ordinanze e misure che limitano in un modo nell’altro le attività turistiche. Peccato però che in gran parte le contromisure bersaglino soprattutto i turisti più poveri. A Firenze viene proibito consumare panini in alcune vie del centro cittadino. In alcuni comuni liguri si cerca di impedire l’arrivo dei pullman che trasportano turisti in arrivo dalle grandi città per per un bagno al mare in giornata. Niente tintarella per chi non può permettersi spese di pernottamento, ristoranti e spiagge di lusso. Se fai parte dei 3 milioni di disoccupati o dei 2,5 milioni di lavoratori poveri ti tocca soffocare in pianura. Dietro i titoli dei giornali che mostrano come indicatore della ripresa in atto la crescita delle vacanze per gli italiani, si cela una realtà sempre più complessa, sempre più diseguale. Infatti, se il numero dei viaggi è aumentato nell’ultimo biennio rispetto al 2015, questi sono ancora il 44% in meno rispetto al 2007. Vacanze brevi, sempre più gite fuori porta in giornata da fare in auto (76%), il mezzo più economico.
Il sistema reale oltre la maschera della condivisione
L’esclusività del turismo da una parte appare come il rovescio della medaglia dei processi produttivi in cui il piccolo capitale viene sbranato da quello più grande. Proprio usando l’esempio di Airbnb è possibile constatare che l’uso imprenditoriale della piattaforma è sempre più diffuso. Uno studio realizzato da Andrea Gentili, Filippo Tassinari e Andrea Zoboli per l’Istituto Cattaneo stima che a Bologna solo il 55% siano annunci unici. Il resto degli annunci è offerto da profili con più di una proprietà. Una dinamica che si riflette lungo tutto il territorio nazionale. In Salento circa il 20% degli appartamenti disponibili sul portale fa capo all’1,3% dei profili. In molti casi questa concentrazione si deve ad agenzie che fanno da intermediari fra il proprietario e l’utente.
Del leit motiv retorico della “condivisione” della propria proprietà non vi è traccia nella sfera materiale. Si profilano, al contrario, i tratti tradizionali dell’attività affittuaria che a sua volta riflette la tendenza verso la concentrazione della ricchezza. Inoltre, dietro il velo patinato della “sharing economy” in realtà si nascondono i meccanismi tradizionali di affitto. Non siamo di fronte a un nuovo tipo di modello economico, né a un nuovo mercato. Airbnb e altre piattaforme simili non fanno altro che facilitare i meccanismi già esistenti. Al posto di pagare un annuncio sul giornale si paga una commissione alla piattaforma online. Ma soprattutto, dall’attività individuale (la messa a profitto del singolo appartamento o stanza da parte di un singolo proprietario) si passa alla gestione accentrata gestita  da intermediari, che sono a tutti gli effetti operatori del mercato il cui obiettivo è quello di estrarre profitto dalla propria attività. Un meccanismo ben noto e suggellato da Airbnb stesso attraverso le parole di un suo manager italiano, Mauro Turcatti, secondo cui “ospitare è impegnativo e districarsi fra le leggi un delirio, perciò molti preferiscono affidarsi a un bravo professionista“. La retorica è sempre la stessa: la burocrazia impedisce il buon funzionamento del mercato, e allora le imprese magnanime lo salvano.
Airbnb e le altre piattaforme si inseriscono inoltre nel già avviato processo di gentrificazione delle città. Il portale non fa che amplificare gli effetti negativi derivanti dall’accentramento della ricchezza e di un modello economico in cui la speculazione immobiliare è uno dei pilastri.
Questo modello d’affari mostra le crepe del modello imprenditoriale promosso a livello macroeconomico negli ultimi decenni, basato su sgravi fiscali e agevolazioni al capitale, compresa la possibilità di fare dumping fiscale. Rispetto alle agenzie immobiliari tradizionali che versano le proprie imposte in Italia, Airbnb lascia sul territorio nazionale le briciole di un giro d’affari multimilionario. Dei circa 70 milioni di euro intascati dalla piattaforma, in Italia sono stati versati 45.000 mila euro circa. Finora è bastato spostare la sede legale in Irlanda per evitare l’imposizione fiscale in Italia. E mentre si liberano risorse per il capitale nulla è stato fatto per garantire diritti minimi ai lavoratori coinvolti e sempre più precari del settore.
A questo aspetto si aggiunge la limitata capacità degli amministratori locali di controllare il mercato delle piattaforme online. Ad Amsterdam le autorità locali hanno provato a limitare l’affitto tramite la piattaforma per un massimo di 60 giorni l’anno per ogni proprietà. Sebbene le parti abbiano firmato un accordo che accetta queste e altre misure restrittive, la piattaforma si rifiuta di rivelare l’identità di coloro che non rispettano la norma, il che rende estremamente difficile verificare l’effettività dell’accordo. A Barcellona, invece, Airbnb è da tempo al centro di un contenzioso con l’amministrazione comunale. Secondo la legge catalana, solamente le proprietà con permesso turistico possono essere annunciate sul sito di affitti. Nonostante queste restrizioni, sono numerosi gli alloggi privi di licenza disponibili su piattaforme come Airbnb e Homeaway. Questo ha portato a una multa di 600.000 euro a entrambe le piattaforme, il massimo previsto dalla legge catalana. Ad oggi sono stati eliminati più di 4.000 annunci dal portale, circa il 70% del totale degli appartamenti illegali. Questa contesa si inserisce in un acceso dibattito che prosegue da anni sugli effetti negativi del turismo sulla vita dei residenti, soprattutto rispetto all’incremento degli affitti.
La frammentazione produttiva: il circolo vizioso della gig-economy
La narrazione sull’economia digitale prova in tutti i modi ad anteporre e allo stesso tempo imporre il suo carattere fluido e immateriale, celando che si tratta sempre di un processo produttivo che ha basi reali e su queste si fonda. Risalendo al suo contenuto astratto nell’accezione marxiana, cioè indipendente dal cosa si sta producendo, si ritrovano gli stessi fattori di sempre, il capitale e il lavoro, organizzati nella produzione. Inoltre, la filiera messa in moto dalle piattaforme va ben al di là della semplice intermediazione tra domanda e offerta di affitto ma coinvolge direttamente i servizi di pulizia degli appartamenti (spesso fatturati al cliente direttamente nella prenotazione) e modifica indirettamente il sistema di trasporto clienti, di magazzinaggio dei bagagli e così via. Mentre le strutture alberghiere tradizionali internalizzano, spesso ma non sempre, questi servizi, soprattutto quello delle pulizie e della gestione dei bagagli, il sistema tramite piattaforma ne esaspera la frammentazione e individualizzazione. Più sono frammentate e individualizzate le relazioni lavorative, più complicato è per il lavoratore associarsi, riconoscere i propri “colleghi”, creare o appoggiarsi a organizzazioni che possano rivendicare condizioni lavorative migliori. Siamo ben oltre le esternalizzazioni, già problematiche e rapaci. Infatti, il servizio pulizie è gestito privatamente e individualmente dagli inserzionisti sia in via tradizionale e diretta, che frequentemente comprende un elevato tasso di lavoro nero, sia tramite le piattaforme che offrono servizi simili. In entrambi i casi, a meno della regolarità contrattuale (in un’esigua minoranza dei casi), i lavoratori e le lavoratrici subiscono un furto contributivo per definizione. Infatti, le piattaforme di intermediazione di questi servizi prevedono esclusivamente la tracciabilità del pagamento per la prestazione ma escludono ogni forma di contributi previdenziali e assistenziali a favore del lavoratore, salvo i casi di assicurazione in caso di incidenti spesso gestita attraverso il sistema privato e non quello pubblico. In termini strettamente salariali, senza una regolamentazione a tutela dei lavoratori, considerando gli elevati tassi di disoccupazione, il sistema tende a generare una corsa al ribasso nel prezzo delle prestazioni.  Un fenomeno che si abbatte soprattutto sulle donne, sovrarappresentate nel settore delle pulizie. Un costo sociale enorme sia oggi sia domani perchè bassi salari e zero contribuzione significa nella pratica nessuna pensione e pensioni da fame. Ma anche una situazione destinata ad aggravarsi parallelamente all’espandersi del mercato degli affitti privati.
Discorso analogo vale per il servizi di gestione dei bagagli, non più presi a carico dalle strutture oltre l’orario di check-out. Si viene così a creare un mercato di magazzinaggio di bagagli che si diffonde nelle zone centrali del centro città, completamente deregolamentato. Le saracinesche si alzano per accomodare magazzini e non invece attività culturali, spazi di comunità, meno redditizie. Il mercato fa il suo mestiere: mettere a profitto tempo e spazi.  E mentre aumenta la rendita, ancora una volta spinta dalla messa a profitto dei magazzini, si rende sempre più inaccessibile accedere a quegli spazi per destinazioni alternative. Una filiera produttiva che si autoalimenta scaricando i suoi costi sui lavoratori coinvolti, sulla vivibilità delle città, sulla degradazione produttiva che sposta a favore di servizi a scarsa produttività e ad elevata intensità di sfruttamento la destinazione degli spazi.
Una dinamica sistemica che produce concentrazione di reddito e ricchezza e inasprimento delle diseguaglianze. Bisogna allora smascherare l’uso retorico di neologismi e anglicismi che vendono il sogno di poter diventare tutti dei piccoli rentiers, mentre si produce un impoverimento generalizzato che colpisce sempre più ferocemente quella maggioranza di società che sta in basso. Mentre il capitalismo si rinnova spingendo a velocità massima nuove forme di produzione e sfruttamento, la risposta per un’inversione di rotta urgente e necessaria non può limitarsi alla regolazione del sistema dall’interno. Al contrario bisogna  contrapporre un modello in cui alla rincorsa della rendita per pochi si contrappone il diritto a vivere per i molti, ricomponendo trasversalmente tutte le sfere interessate dai processi di produzione e riproduzione sociale: dalla casa al lavoro.

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