martedì 7 settembre 2021

Amazon è il simbolo dello spreco capitalista - Paris Marx

Quest’anno il Prime day di Amazon [di per sé un monumento allo spreco] è stato il 21 e 22 giugno. Mentre i mezzi d’informazione hanno regalato al monopolista del commercio elettronico mondiale una valanga di pubblicità gratis – informando i lettori sui grandi affari che avrebbero potuto fare in quei due giorni comprando articoli scontati su Amazon (a volte inserendo perfino i link agli acquisti) – il canale britannico Itv News ha mandato in onda un servizio che ha spinto il pubblico a pensarci due volte prima di abbandonarsi al consumismo. Nell’inchiesta di Itv News il corrispondente Richard Pallot ha rivelato che il magazzino di Amazon a Dunfermline, nell’est della Scozia, distrugge ogni anno milioni di prodotti invenduti. Molti di questi prodotti non erano stati neanche tirati fuori dall’imballaggio.

Un lavoratore di Amazon protetto dall’anonimato ha raccontato a Pallot: “Il nostro obiettivo è distruggere 130mila oggetti ogni settimana”. Un documento conferma che in sette giorni sono stati contrassegnati per lo smaltimento 124mila prodotti, e solo 28mila per le donazioni. Un dirigente ha rivelato a Pallot che in poche settimane sono stati distrutti fino a 200mila oggetti. Secondo il lavoratore anonimo circa metà era composta da prodotti restituiti, spesso in buone condizioni, mentre l’altra metà era rappresentata da quelli nuovi, alcuni di buona qualità. “Ventilatori Dyson, aspirapolvere, qualche computer MacBook o iPad. L’altro giorno abbiamo fatto sparire ventimila mascherine ancora dentro le confezioni. Non ha senso”, ha dichiarato. Alcuni prodotti finiscono negli impianti di riciclaggio, ma la maggior parte va direttamente nelle discariche.

 

Lo spreco rivelato dall’inchiesta di Itv News non è limitato ai centri logistici di Amazon nel Regno Unito, e la società di Jeff Bezos non è la sola colpevole. Il rapporto mette in evidenza la frattura tra l’immagine che l’azienda cerca di trasmettere e il modo in cui si comporta realmente, ma sottolinea anche la profonda inefficienza della nostra economia del consumo.

Il magazzino di Dunfermline è solo uno dei 24 centri logistici Amazon nel Regno Unito. In tutto il mondo l’azienda gestisce attualmente più di 175 magazzini, e ne sta costruendo altri nel tentativo di capitalizzare l’aumento delle vendite durante la pandemia. È impossibile stabilire con precisione quanti prodotti siano distrutti, ma è innegabile che succeda. E Itv News non è la prima a documentarlo. Nel 2019 un documentario della rete francese Rtl rivelava che in Francia nel 2018 Amazon aveva fatto sparire più di tre milioni di prodotti. Uno dei centri logistici più piccoli del paese, a Chalon-sur-Saône, ne aveva distrutti 293mila in nove mesi. C’erano libri, confezioni di pannolini, costosi set Lego e perfino televisori della Lg ancora nelle confezioni originali.

Come Itv News, Rtl aveva scoperto che tra le cause dello spreco c’era l’aumento dei costi di stoccaggio che Amazon impone ai venditori terzi per tenere i loro prodotti nei suoi magazzini. I venditori sono invitati ad approfittare di questa opzione perché garantisce una migliore visibilità sulla piattaforma, ma Rtl aveva raccontato che il costo di un metro di spazio in un magazzino di Amazon era salito alle stelle, e questo spingeva i venditori a distruggere i loro prodotti invenduti. Per rimuoverne uno un venditore avrebbe dovuto spendere 17 sterline, per mandarlo al macero invece avrebbe pagato 13 centesimi.

 

Anche l’emittente pubblica tedesca Das Erste ha pubblicato un’inchiesta condotta da Greenpeace in occasione del Prime day, concentrandosi sul centro logistico di Winsen, nella Bassa Sassonia. Il servizio ha rivelato che ai lavoratori di Amazon veniva chiesto di tirare fuori prodotti integri dalle confezioni e perfino di danneggiarli intenzionalmente, in modo da poterli distruggere in base alle leggi tedesche sull’economia circolare.

Negli Stati Uniti l’azienda di Jeff Bezos vende alcuni prodotti usati, restituiti, danneggiati in magazzino e a volte anche nuovi attraverso la sezione “Warehouse deals” presente sul suo sito. Inoltre, in occasione delle “Amazon liquidations”, propone interi bancali di prodotti restituiti. Ma non sappiamo quanti oggetti siano rivenduti e quanti semplicemente distrutti.

Cosa ci dicono queste rivelazioni a proposito di Amazon? L’azienda sostiene di essere costruita per soddisfare i clienti. Ma è solo propaganda. Aumentando le tariffe per i venditori, infatti, Amazon rende le merci più costose, e nel frattempo aumenta i suoi ricavi. È concentrata sul consumatore solo fino a quando questo metodo è allineato al suo obiettivo principale, quello di massimizzare i profitti e l’espansione aziendale.

Anche se ci fidassimo della parola di Amazon, resterebbe comunque un problema: la quantità di rifiuti provenienti dai centri logistici dimostra che l’ottimizzazione a beneficio del consumatore produce effetti collaterali peggiori di quello che pensavamo. L’ossessione di Amazon per il consumatore crea inoltre un ambiente pericoloso per i lavoratori dei magazzini e per i fattorini. Il ricambio del personale all’interno dei centri logistici ha un ritmo forsennato. Il tasso d’infortuni negli Stati Uniti è il doppio della media nel settore. I lavoratori sono costantemente monitorati e possono essere facilmente licenziati se non raggiungono gli obiettivi. Spesso durante un turno non hanno il tempo di andare in bagno.

 

Oltre ai danni inflitti ai lavoratori, il modello imprenditoriale di Amazon ha enormi conseguenze per l’ambiente. Negli ultimi anni l’azienda ha sbandierato la promessa di azzerare le emissioni nette entro il 2040 e ha detto di voler investire due miliardi di dollari per sviluppare “prodotti, servizi e tecnologie in grado di proteggere il pianeta”. Ma al tempo stesso ha licenziato due dipendenti che chiedevano di adottare misure più incisive per contrastare la crisi climatica durante la pandemia, e non ha mantenuto gli impegni presi in precedenza.

Ora ci sono prove schiaccianti del fatto che Amazon mandi al macero merci integre. Tra l’altro si tratta soprattutto di prodotti elettronici, molto difficili da riciclare perché, quando finiscono nelle discariche, possono rilasciare sostanze chimiche pericolose. Ma è già abbastanza grave che siano gettati via pannolini e mascherine nuove.

Fare luce su Amazon è importante, ma il problema non si limita a un’unica azienda. Nel consumo di massa, che è cruciale per il nostro sistema economico, c’è un difetto strutturale.

Spesso ci dicono che il capitalismo basato sul libero mercato è il modo più efficiente per far funzionare un’economia. Tuttavia, dentro la catena produttiva del just-in-time (un sistema di produzione industriale in cui si riforniscono subito i pezzi all’unità di montaggio, senza creare grosse scorte di magazzino) ci sono quantità enormi di generi alimentari scartati e oggetti di consumo. Potrebbero essere dati alle persone che ne hanno bisogno, o forse non avrebbero mai dovuto essere prodotti. E invece no.

Oltre ad Amazon, anche la catena di supermercati Tesco è finita nell’occhio del ciclone per lo spreco che generava, e negli ultimi anni si è impegnata concretamente a ridurlo. L’azienda di vendita al dettaglio Target è stata multata in California per aver smaltito illegalmente per anni pericolosi rifiuti elettronici. Aziende come la Cartier e la Nike hanno ammesso di distruggere i prodotti invenduti in modo da mantenere alto il valore di quelli in commercio. I marchi di abbigliamento mandano al macero milioni di capi ogni anno. E questa è solo la punta dell’iceberg.

I venditori al dettaglio e i ristoranti gettano via immense quantità di prodotti ogni anno, anche perché la loro stessa esistenza si basa su una cultura dell’usa e getta. Tutti noi siamo condizionati a sostituire continuamente gli oggetti. Così come Amazon ha creato un ambiente in cui lo spreco è un modo come un altro di fare soldi, noi abbiamo costruito un’economia in cui è sensato produrre in eccesso o gestire in modo errato la produzione.

Il modello di Amazon, basato sulla spedizione di grandi quantità di prodotti in piccoli pacchi consegnati direttamente a casa entro pochi giorni, se non poche ore, oggi non è sostenibile e probabilmente non lo sarà mai. Ma è la conseguenza di una spinta che dura da decenni ad anteporre i prezzi bassi a tutto il resto e a considerare i lavoratori e l’ambiente come elementi sacrificabili in virtù del profitto.

Per cambiare questi princìpi basilari del nostro sistema non basterà modificare il nostro modo di fare acquisti né introdurre nuove tasse per arginare le grandi aziende. Servirà un profondo ripensamento del modo in cui funziona la nostra economia.

 

Questo articolo è uscito sul numero 1416 di Internazionale

(traduzione di Andrea Sparacino dall’originale pubblicato su TribuneRegno Unito)

https://volerelaluna.it/rimbalzi/2021/08/13/amazon-e-il-simbolo-dello-spreco-capitalista/

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