lunedì 4 settembre 2023

Un po’ di mare tra la plastica - Maria Rita D'Orsogna

 

Nell’oceano c’è un vero e proprio smog di plastica, fatto di 171 trilioni di pezzettini di plastica, con cosi tanti zero che è difficile anche scriverli. È un numero enorme e straordinario. Tutti assieme pesano 2,3 milioni di tonnellate e sono stati versati nel mare per la maggior parte a partire nel 2005, in una crescita rapida e inaspettata. Tutto questo è il frutto di una analisi su dati collezionati nel corso di quarant’anni, dal 1979 al 2019, in 12.000 punti di raccolta negli oceani Atlantico, Pacifico, Indiano e nel mar Mediterraneo.

I ricercatori che hanno studiato questi dati concludono che fino al 1990 la plastica in mare è stata a livelli medi e la crescita lenta, ma dal 2005 in poi è tutto esploso. È esplosa anche la quantità di plastica trovata sulle spiagge. E se non facciamo nulla, e molto probabilmente non faremo nulla, la quantità di plastica nel mare e fra la sabbia continuerà ad aumentare, e ci saranno ancora più zeri.

Ma perché succede questo? Perché negli scorsi quindici anni è aumentata a dismisura la produzione di plastica, e soprattutto il consumo di plastica mono-uso. I petrolieri ne sono ben contenti, visto che la plastica arriva dagli idrocarburi, e anzi spesso sono proprio loro a mettere pressioni per il consumo di plastica mono-uso, e cercando di fare passare il messaggio che “tutto è riciclabile”. Anzi, si prevede che la produzione di plastica quadruplicherà da qui al 2040. E cosi, c’è proliferazione di bicchieri e di forchette di plastica, di involucri e di bottigliette. In realtà riciclabile o no, solo il 9 per cento della plastica a livello globale viene riciclata. In alcuni paesi sono messi meglio, in altri, spesso paesi del Sud del mondo, molto peggio. Produrre e usare plastica costa poco, costa molto raccoglierla, riciclarla, e soprattutto è difficile creare una cultura del riuso e dell’attenzione su dove finisce l’immondizia.

Volenti o nolenti, molta di quella plastica finisce in mare, spesso passando per i fiumi e spinta dal vento, o a causa di acque di tombini che fuoriesce. A volte invece ci sono scarti della pesca, come reti o scatole di polistirolo, che finiscono in mare. Una volta giunta in mare la plastica si spezzetta e invece di degradare finisce nei corpi dei pesci e degli uccelli e degli umani se è sufficientemente piccola.

La legislazione è del tutto insufficiente anche se è dal 1970 che vari paesi cercano di approvare leggi per fermare la presenza di plastica in mare. Ma è tutto fatto su base volontaria, i paesi hanno differenti standard e non ci sono seri monitoraggi. Occorrono invece soluzioni internazionali e vincolanti. Per esempio negli anni Ottanta furono approvate vari leggi nazionali sullo smaltimento illegale di attrezzatura usata nella pesca e scarti dalle navi. Nel corso degli anni, queste leggi sono state dimenticate, e molti paesi che fino a pochi anni fa non usavano troppa plastica, sono invece oggi grandi consumatori e non hanno legislazione alcuna.

L’Onu ha deciso già di creare protocolli vincolanti sulla produzione e smaltimento di plastica nel 2024. Anche l’UE ha una sua commissione specifica. Ma i dettagli non sono ancora chiari e non si sa se la produzione di plastica debba essere limitata: il potere dell’industria petrolchimica è cosi forte che non sappiamo se le Nazioni unite avranno il coraggio di mettere stop al proliferare della creazione di plastica nuova senza sosta. Perché è proprio qui la soluzione: meno ne produciamo, meno finisce in giro nell’ambiente, meno ne finisce nel mare, e nei corpi del creato. Ovviamente questo vuol dire pure meno soldi per i petrolieri e per l’industria petrolchimica. Buonsenso contro profitti, è sempre qui il problema.

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