Siamo abituati a politiche che vogliono sostenere la natalità a tutti i costi, spesso sulle spalle delle donne. Però c’è anche chi la pensa diversamente e crede che un boom delle nascite non sarebbe più sostenibile
Nel formicaio, la regina depone anche più di
cento uova al giorno. Fortunatamente non tutte le specie animali si comportano
nello stesso modo. Almeno tra i vertebrati, l’evoluzione sembra anzi aver
scommesso sul calo quantitativo della progenie.
Il numero di
uova degli uccelli è irrisorio rispetto a quello della formica regina, e tra i
mammiferi vi sono molte specie che fanno addirittura un solo figlio alla volta.
Gli esseri umani poi, non paghi di fare un figlio alla volta, spesso si
prendono cura di quel solo figlio senza farne altri nell’arco dell’intera vita,
o addirittura scelgono di non riprodursi affatto.
Soprattutto
nelle società in cui i diritti civili sono più avanzati, e in particolare in
cui le donne hanno maggiore accesso all’istruzione e alla vita pubblica, il
tasso di natalità è mediamente più basso (in Finlandia 1,3 figli per donna;
nello Yemen 3,8). Un destino naturale – e culturale – porterà
ineluttabilmente le società umane a riprodursi sempre meno? Gli sforzi
natalisti dei governi europei sono completamente vani? Ma soprattutto, ha
davvero senso disperarsi per il calo delle nascite? O forse il nostro giudizio
dipende dall’ampiezza del punto di vista?
LE CONSEGUENZE DELLA BOMBA
Se si
osserva il calo della natalità puntando lo sguardo sull’equilibrio del pianeta,
si prova quasi un sollievo a immaginare che l’aumento esponenziale della
popolazione mondiale non continuerà per sempre al ritmo frenetico degli ultimi
decenni. Quando pensiamo invece alle conseguenze sul destino del sistema
pensionistico nazionale e sulla cura degli anziani, tendiamo a preoccuparci di
più.
Fare meno
figli è sempre un segno di declino di una società, o è una conquista vitale che
possiamo interpretare anche positivamente? Che la sovrappopolazione umana possa
essere un flagello per gli umani stessi non è una scoperta recente.
Il filosofo
francese Henri Bergson nel 1932 avvertiva i suoi
contemporanei: «Lasciate fare Venere e avrete Marte», ovvero se non si
«razionalizza» la riproduzione umana su scala internazionale – proprio
come si fa con il lavoro – scoppieranno guerre sempre peggiori. Dagli anni
Sessanta è stato sempre più evidente che le conseguenze più disastrose della
cosiddetta «Population bomb» non investivano solo gli umani, ma tutte le
specie viventi e le condizioni di vita planetarie.
IL PESO DEI BOOMER
La crescita
demografica degli anni Cinquanta, quando in appena un decennio vennero alla
luce mezzo miliardo di «boomer», è stata subito descritta come un segno
positivo di gioioso entusiasmo e ottimismo. Oggi non pochi rileggono quel
fenomeno come un flagello ambientale senza precedenti.
Il sovrappopolamento
del pianeta si basava sull’idea di una crescita infinita, illusione che si
rivela di anno in anno più disastrosa. I boomer oltretutto non sono tutti
uguali, come non lo sono i cinque miliardi di esseri umani nati dal 1960 a
oggi: già negli anni Sessanta si calcolava che i consumi di un bebè
americano avrebbero pesato per l’ecologia planetaria 25 volte quelli di un bebè
indiano.
Fare meno
figli, soprattutto nei paesi che consumano di più, sembrerebbe insomma il modo
migliore per far prendere fiato al pianeta. È quello che vedevano con chiarezza
gli ecologisti negli anni Settanta, le cui lotte convergevano spesso con quelle
per l’emancipazione femminile.
CONTRASTARE L’AUMENTO DEMOGRAFICO
Il primo
candidato ecologista francese alle presidenziali, Réné Dumont, nel 1974
affermava che incoraggiare la natalità fosse addirittura «criminale», e
proponeva l’eliminazione delle sovvenzioni statali dopo il secondo figlio.
Nello stesso
anno – quindi poco prima della diffusione dei contraccettivi e della legge
sull’aborto – alla conferenza Onu sulla popolazione che si tenne a
Bucarest, le femministe ecologiste guidate da Françoise
d’Eaubonne protestavano contro il «coniglismo fallocratico» e
facevano appello allo sciopero internazionale della procreazione.
Senza
adottare soluzioni così drastiche, il fondo delle Nazioni unite per la
popolazione (Unfpa)
lega la natalità sia all’emergenza climatica sia alla condizione delle bambine
e delle donne. L’obiettivo dei programmi di istruzione femminile nei paesi in
via di sviluppo ha infatti l’obiettivo esplicito di limitare l’aumento della
popolazione.
Se una
bambina non va a scuola, ha il triplo delle possibilità di essere data in
sposa, e il tasso di natalità è ovunque più basso tra le donne con un livello
di istruzione più elevato. Lo sforzo dell’Onu è insomma volto a contrastare
l’aumento demografico, fattore di minaccia per il clima globale ma anche
sintomo di violazioni dei diritti femminili (spose bambine, stupro coniugale,
mancato accesso all’educazione sessuale, alla contraccezione e all’aborto,
ecc.).
L’ANGOSCIA DELLA DECRESCITA
L’affermazione
di politiche non-nataliste sembrerebbe a questo punto un modo per prendere due
piccioni con una fava, insomma, unendo gli sforzi per la giustizia ambientale a
quelli per la giustizia riproduttiva, se non altro nei paesi del sud globale.
I paesi
industrializzati sembrano invece sempre più angosciati dalla propria decrescita
demografica: mentre la Cina ha da tempo abbandonato la politica del figlio
unico, anche gli Stati Uniti e l’Europa assistono a sempre più diffusi
rigurgiti pro-natalisti, che vanno dall’istituzione nostrana di un ministero per la Natalità, sino alle politiche turche e
ungheresi per scoraggiare l’accesso delle donne all’istruzione universitaria, o
agli incentivi russi per preservare la famiglia tradizionale e il «capitale
materno».
CONTRO LA PAURA
La maggior
parte dei discorsi natalisti o anti-natalisti hanno però un tratto comune, cioè
di essere guidati dalla paura: i nativisti sono terrorizzati ad esempio che gli
immigrati facciano più figli di loro, o che le donne si realizzino altrove che
nel ruolo materno, o ancora che il sistema pensionistico tracolli; dall’altra
parte, gli argomenti per il contenimento demografico sono guidati per lo più
dalla cosiddetta «ecoansia», la paura della catastrofe ambientale imminente.
Forse
occorre cambiare il nostro immaginario in modo meno mortificante, in entrambi i
sensi. Decidere se fare figli oppure no, a livello sia personale sia politico,
può essere una decisione guidata dal desiderio, e non solo condizionata dalla
paura? Si potrebbero sostituire i discorsi sinistri sulle culle vuote o sul
declino morale delle giovani generazioni immaginando ciò che oggi, anche su un
pianeta in rovina, può rendere davvero desiderabile fare più figli?
FARE PARENTELE
Dal lato
opposto, è possibile difendere anche la scelta di fare meno figli senza fare
appello ad altre paure, come quella di impoverire il pianeta, o sé stessi?
Anziché presentare il calo della natalità come segno del tramonto di un paese,
di mancata realizzazione personale, o di ecoansia millennial, esiste un modo
per far sì che questa opzione sia vissuta in modo gioioso e desiderabile? È
possibile trasformare il rapporto degli esseri umani alla propria discendenza,
liberandola dall’idea di filiazione biologica e promuovendo altre forme di
«parentele»?
Questi sono
i discorsi più difficili, eppure i più urgenti da immaginare, non solo per
rispondere alla crisi climatica, ma anche alle nuove richieste giuridiche delle
famiglie omogenitoriali. Seguendo le visioni della filosofa californiana Donna Haraway, che ha coniato lo slogan «Fate
parentele, non fate bambini!» (Make kins, not babies!), da anni sempre
più famiglie si organizzano in modo più o meno «queer», moltiplicando le
parentele non biologiche, spesso includendo altre specie con le quali si
condivide lo stesso destino planetario.
Sono
famiglie in cui si fanno meno bambini affinché tutti i bambini siano accuditi
meglio, affinché tutte e tutti, crescendo, possano avere un accesso equo alle
risorse ambientali, avendo la meglio sulla paura.
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