giovedì 28 settembre 2023

La ribellione dei Santuari - Annamaria Manzoni

 

In questi giorni in provincia di Pavia si è proceduto all’uccisione di decine di migliaia di maiali (34.000 quelli già abbattuti, secondo la terminologia usata dai responsabili) perché alcuni focolai di peste suina negli allevamenti stanno portando le autorità a eliminare tutti gli animali presenti per evitare che il contagio si espanda: sani o malati fa lo stesso, come è ininfluente la certezza che gli umani non possono essere colpiti dal virus. Semplice prudenza, atta a proteggere la filiera alimentare, attuata con i metodi particolarmente spicci usati in questi casi: altro che stordimento preventivo.

La furia da abbattimento non ha risparmiato il Rifugio Cuori Liberi di Sairano, dove le forze dell’ordine e i veterinari sono entrati di forza e hanno ucciso i nove maiali lì ancora presenti: a nulla è valsa la resistenza portata avanti per quindici giorni da attiviste e attivisti che hanno difeso fisicamente gli animali presidiando senza sosta la situazione. Ci sono state suppliche, richiamo alla compassione, sollecitazione a non obbedire a ordini ingiusti, esortazione a esaminare soluzioni diverse: e senza sosta la resistenza passiva delle persone, in buona parte donne, che hanno frapposto i propri corpi tra le forze dell’ordine, in assetto di battaglia, e gli animali minacciati. Per altro le richieste non potevano raggiungere i veri responsabili: ministri, amministratori, vertici della sanità, che gestiscono il potere a grande distanza, lasciando prudentemente allo scoperto i “soldati semplici”, ultime pedine del gioco, per i quali le conseguenze personali da pagare per un atto di disobbedienza sarebbero state presumibilmente gravosissime. L’”operazione” si è conclusa con attacchi fisici a chi stava opponendo resistenza passiva, e l’uccisione dei maiali ha avuto luogo nella disperazione delle volontarie e dei volontari presenti e di tutti coloro che hanno assistito a distanza agli avvenimenti grazie ai filmati postati sui social: l’indignazione, il dolore, la rabbia sono dilagati a macchia d’olio.

 

Per capire il senso di tutto questo è necessario un passo indietro, fino alla nascita dei cosiddetti Santuari, collegati tra loro attraverso una rete, sparsi in varie località soprattutto del nord e centro Italia: si tratta di sorta di oasi che raccolgono e ospitano animali normalmente definiti da reddito, quindi maiali, galline, capretti… salvati in vari modi dal destino di morte a cui erano destinati, e portati a vivere una vita in libertà, nel rispetto delle loro caratteristiche, protetti da qualsiasi forma di sfruttamento. La loro individualità viene sancita anche dall’attribuzione di un nome di battesimo, Pumba, Crusca, Freedom, Ursula… che li designa come individui unici e non semplicemente appartenenti a una specie. Chi gestisce questi luoghi li conosce uno per uno, sa dire delle loro caratteristiche e della loro personalità, ne conosce le preferenze e i gusti, sa che possiedono un’enorme ricchezza di capacità cognitive nonché un mondo interiore animato da emozioni e sentimenti specie-specifici. Ed è sulla base di questa conoscenza e della progressiva fiducia degli animali che si vanno stabilendo a livello interspecifico rapporti affettivi, amicali, rispettosi, gioiosi: molto simili, per intenderci, a quelli che si sviluppano tra un cane o un gatto e il loro compagno umano.

Il grande significato che i Santuari hanno acquisito sta anche nel loro essere testimonianza necessaria: esiste il modo, ed è questo, per conoscere davvero gli animali nonumani, abbattendo la rappresentazione di comodo che ne viene normalmente diffusa, che sempre li svilisce: non certo a caso, perché la denigrazione delle vittime è sempre fondamentale per sdoganare il trattamento di sfruttamento, tortura e morte che viene regolarmente loro destinato, per altro nell’incredibile misconoscimento di tutte le progressive conoscenze degli etologi. Meglio ignorare che si tratta di esseri senzienti, esposti senza difese alle atrocità a cui vengono quotidianamente destinati, dotati di autoconsapevolezza: non solo i mammiferi, categoria a cui anche noi umani apparteniamo, ma gli uccelli, e anche invertebrati quali il polpo, che pure in tantissimi continuano serenamente a trattare come gustoso ingrediente di un’insalata. Molto più funzionale continuare a sostenere la rappresentazione delle galline come stupide, dei maiali come sporchi, brutti e persino immorali , delle oche…beh lo dice il nome stesso, come per altro degli asini o dei muli, solo per citare. Riconoscerne le virtù o semplicemente la bellezza, l’affettività, l’insospettato mondo di emozioni e sentimenti che li anima, renderebbe decisamente più arduo continuare a trattarli come cose o esseri spregevoli e quindi destinatari perfetti di tutto il male che viene fatto loro. Come diceva l’etologo Mainardi

“anche il maiale possiede una sua intelligenza, ha capacità sociali e affettive: ma preferiamo non venirlo a sapere, perché quest’ignoranza indubbiamente ci facilita la digestione”.

Il gioco è facilissimo: tutte le istituzioni e le forme di comunicazione procedono compatte nel sostenere una visione del mondo in cui gli animali nonumani restano saldamente ancorati nella posizione dei senza diritti, gli ultimi degli ultimi: vengono dopo i poveri che, diceva Anna Maria Ortese, almeno qualche volta possono reagire. Il gioco è facilissimo perché la moltitudine umana, anche quella non sadica e non brutale, resta inerte magari non per cattiveria, ma in quanto immersa in uno stato delle cose in cui la violenza è normalizzata, sistemica, ubiquitaria e quindi neppure riconosciuta e le abitudini sembrano vivere di vita propria, senza essere sottoposte a vaglio critico.

I Santuari, che la denominazione stessa ammanta di una dimensione spirituale, si oppongono e abbattono il pensiero dilagante dando dignità propria ai più diseredati: da alcuni mesi, si sono visti riconoscere uno status che non li equipara più agli allevamenti, ma li definisce rifugi permanenti che esercitano un’attività di ricovero degli animaliun passo in avanti di cui però gli esperti hanno subito evidenziato i limiti riscontrabili in una insufficiente tutela degli animali stessi: come i fatti di questi giorni hanno drammaticamente confermato.

Gli animali ospitati nei Santuari sono i pochissimi individui salvati dalla smisurata moltitudine di esseri messi al mondo per essere fecondati artificialmente, obbligati alla innaturale separazione madre-figli; reclusi a vita in gabbie che li immobilizzano; incatenati; costretti ai viaggi della morte; alimentati a forza; frustati; spiumati; vivisezionati; cacciati; pescati; modificati; estinti…: tutto lungo il filo di un orrore e di un raccapriccio che termina solo con la morte; spesso nei macelli, sorta di inferno in terra per quei 65 miliardi di esseri viventi uccisi ogni anno che diventano molto più del doppio se si considerano gli abitanti delle acque, normalmente riconosciuti solo a peso: riusciamo infatti a sfruttare tormentare e uccidere ogni anno un numero di animali che corrisponde più o meno a venti volte il numero di noi umani: una terra trasformata in un immenso mattatoio all’interno del quale si applicano a norma di legge violenza, sopraffazione, crudeltà su esseri inermi.

I Santuari oltre al merito impagabile di mettere in salvo dall’orrore un numero per quanto infinitesimale di individui, hanno anche quello di animare una relazione con i dannati della terra, che abbatte il diritto del più forte come bussola di ogni comportamento e gli sostituisce la possibilità di una relazione in cui se superiorità umana esiste è solo per essere declinata come responsabilità: come succede con i bambini, la cui fragilità non giustifica abuso, ma pretende protezione.

A Sairano insieme alla vita di nove esseri viventi è stata violata la sacralità del luogo e quell’idea di mondo pacificato che sprofonda le sue radici nella convinzione che una buona società non può che escludere la violenza in tutte le sue forme verso tutti gli esseri senzienti: lo spaesamento, l’incredulità, lo sgomento che ne sono seguiti hanno ben ragione d’essere perché l’ingiustizia, se accettata, non può che propagarsi e l’attesa per quello che potrebbe presto tornare a succedere in qualunque altrove è tenuta a bada solo dalla tensione verso una rivolta che non ha più tempo di aspettare.

Mentre il cordoglio per Spino, Mercoledì e gli altri è ancora dolore soffocante, il pensiero non può non andare a tutti quei milioni di altri maiali, polli, visoni, oche, tacchini… che, nel silenzio generale vengono regolarmente uccisi alle prime avvisaglie di una possibile epidemia: succede sempre, è successo più e più volte durante l’epidemia del Covid anche in Europa dove gli animali sono stati gasati, bruciati, sepolti vivi, perché le condizioni aberranti di allevamento li rendevano vittime di sempre nuove epidemie. Mai nelle alte sfere è stata preso in considerazione il dovere di preoccuparsi delle cause, da ricercare nell’esistenza stessa degli allevamenti: la soluzione è sempre stata lo sterminio degli animali, poi sostituiti con altri, nel silenzio assenso della stragrande maggioranza delle persone, prudentemente lasciate senza la necessaria informazione, e comunque non raramente preoccupate, più che degli stermini in atto, della salvaguardia delle proprie abitudini alimentari.

In tutto questo è forse venuto il momento anche per qualche riflessione sul ruolo dei veterinari e delle veterinarie, fondamentale nel decidere le soluzioni e i metodi che coinvolgono la vita e la morte degli animali, che sono l’oggetto della loro professione. Professione che, nella testa della gente, dovrebbe essere legata ad interventi di aiuto e di cura, ma nei fatti si esprime anche nell’avvallo e nel sostegno di uno status quo fatto di repressione e morte di quegli stessi individui. Il confine tra il prendersi cura e il condannare senza appello non è sottile, come non lo è la differenza tra ritenersi al servizio di animali bisognosi o invece della filiera della carne. Il pensiero va ad altre professioni d’aiuto, quali la psichiatria, che per parte della sua storia si è preoccupata non tanto di curare anime ferite e fragili, quanto piuttosto di fornire giustificazione per ridurre al silenzio ogni dissidenza al potere, ruolo da cui, nei regimi dittatoriali, non si è ancora del tutto affrancata: di certo va dato atto della profondissima riflessione al proprio interno che ne è derivata. Sarebbe auspicabile che anche i veterinari (come categoria, non certo i singoli che ogni giorno curano e salvano animali di ogni specie) chiarissero a chi proprio non riesce a concepirlo in che modo la cura degli animali e la ricerca del loro benessere possa coniugarsi con l’attività di certificare e sostenere come leciti gli interventi fatti su di loro in nome degli enormi interessi economici coinvolti.

Tante le cose che stanno succedendo: non ultima la drammatica diffusione di una forma di influenza aviaria persino nelle isole Galapagos, arcipelago del Pacifico, reso famoso dal lavoro di Chaarles Darwin, considerate scrigni preziosi di biodiversità del pianeta, terre dove condurre l’osservazione della natura incontaminata. Bene, anzi malissimo: la contaminazione le sta raggiungendo tra le enormi preoccupazioni degli studiosi: nei paesi che le fronteggiano, Ecuador ma anche, un po’ più a sud, Perù, già si è proceduto all’eliminazione di migliaia e migliaia di volatili, mentre Manuel Delogu, veterinario del Servizio Fauna Selvatica ed Esotica dell’Università di Bologna, dice che “il passaggio dagli allevamenti alle specie selvatiche, ci conferma una volta di più che finché permetteremo al virus di potersi sviluppare in grossi serbatoi come gli allevamenti intensivi gli renderemo le cose più semplici per rafforzarsi in natura”.

Oggi la distanza dalla soluzione delle smisurate sofferenze inflitte al mondo animale e della stessa sopravvivenza della nostra specie è siderale perché non può prescindere da ciò che non viene neppure preso in considerazione vale a dire l’eliminazione di ogni allevamento sulla faccia della terra. Nel nostro pur microscopico ruolo come singoli individui, non dimentichiamo la responsabilità che ci compete nel dare un contributo allo stato delle cose, in un senso o nell’altro, anche con le nostre quotidiane scelte, alimentari e non.

da qui

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