Secondo una recente analisi il virtuoso quanto necessario processo di assorbimento dell’anidride carbonica, da cui dipende la nostra sopravvivenza, è merito soprattutto delle foreste pluviali gestite e protette dalle comunità indigene in Sud America e nel resto del mondo. Di conseguenza, mettere a rischio queste ultime significa condannare a morte sicura il pianeta e tutti noi.
C’erano una volta, anzi ci sono ancora oggi, due caratteristici esseri
umani.
Due creature approssimativamente simili e per decisive ragioni
assai diverse.
Di comune, c’era presumibilmente l’esser nati e cresciuti alla ricerca
della personale felicità e di quella dei propri cari, tra le altre
cose.
Di ulteriormente prosaico, vi erano in ordine sparso il sottovalutato battito
del cuore e la capacità di immaginare il futuro, il
porsi domande sul passato e la paura dell’ignoto,
l’inevitabile invecchiamento e il respiro, già.
L’indispensabile danza comune a ogni vivente sul pianeta, in
una naturale coreografia e in accordo a una sola, semplice
partitura: ossigeno e carbonio, carbonio e
ossigeno, e via così, l’uno in cambio dell’altro e viceversa.
D’altra parte, non v’è storia che tenga senza i nomi dei protagonisti.
Ebbene, i nostri potremmo chiamarli l’automobilista e l’indigeno.
Entrambi erano vivi per una ragione, a prescindere se ne fossero consapevoli o
meno.
Spesso mi piace pensarla così la narrazione umana, affinché nessuno
si senta banale comparsa.
Nondimeno, oltre ai peculiari motivi della rispettiva presenza nel racconto, i
nostri avevano fatto nel corso della propria esistenza un
numero enorme di scelte, di norma difficile da calcolare.
Difatti, molte rappresentano dettagli trascurabili del vivere
quotidiano, ma alcune di esse, soprattutto nei momenti cruciali del proprio
cammino, vengono scambiate per azioni scontate e ordinarie,
mentre invece sono veri e propri tasselli di un sentiero sbagliato,
che verrà percorso ahi loro anche da chi ci ascolta e ci imita senza
discutere.
Ebbene, l’automobilista non solo si era fatto strenuo
sostenitore della costruzione di un’insensata strada
chiusa su se stessa, ma aveva anche preso la folle decisione di trascorrere la maggior
parte del proprio prezioso tempo a percorrerla
avanti e indietro, indietro e solo indietro, giacché avanti era
un’illusione.
D’altronde, è calzante la metafora di qualcuno che di propria
sponte finisca per cadere nella buca mortale da lui stesso ideata e
realizzata.
Nello stesso tempo, anche l’indigeno era in viaggio,
ma a differenza dell’altro aveva affrontato il proprio sentiero restando
fermo.
Fermo accanto alla natura in pericolo, infondendole coraggio e solidarietà.
Immobile vicino agli alberi e a tutte le meraviglie, traendo da
esse energia e perseveranza.
Resiliente, mano nella mano con i doni della terra,
facendosi scudo per salvaguardarli dalla follia degli
umani perduti.
D’altra parte, altrettanto a fagiolo capita la metafora di
qualcuno che faccia la scelta più sensata e lungimirante trovandosi
su un pianeta nel quale non è più di un ospite: sforzarsi con tutto
se stesso di far pace con esso e costruire armonia con
tutto ciò che vi ha trovato venendo alla luce.
C’erano una volta, quindi, due maschere che con più o meno
precisione raffigurano sin dall’inizio dei tempi i ruoli principali a
noi destinati nell’umano copione e, stranamente, c’è ancora un po’
di tempo per togliersi l’una e indossare l’altra prima che cali per
sempre il sipario.
Affinché, come dice il noto detto, lo spettacolo vada avanti...
Nessun commento:
Posta un commento