lunedì 25 aprile 2022

IPCC …Io Posso Cambiare le Cose

 

(a cura di Cinzia Picchioni)


Ovviamente l’acronimo IPCC del titolo ha un altro svolgimento, come forse sappiamo; significa  Intergovernmental Panel on Climate Change ed è il nome del principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici1. E mi sono divertita a cambiare l’uso delle lettere seguendo il pensiero di Jonathan Safran Foer e del suo ultimo libro, Possiamo salvare il mondo prima di cena. Sia Foer sia l’IPCC sostengono tesi simili. Ecco alcune parole tratte dall’ultimo Rapporto, testé uscito, stilato dall’IPCC:

«Quindi, quali soluzioni abbiamo a disposizione per ridurre le emissioni e rimuovere il carbonio in eccesso? “L’unico gas a effetto serra che può essere assorbito in modo efficace è la CO2. Per farlo, vi sono due metodi principali: usare e stimolare la natura ad assorbire di più o migliorare e sviluppare la tecnologia in grado di farlo al posto suo”, spiega Maria Vincenza Chiriacò, ricercatrice del CMCC. “Le soluzioni basate sull’uso e la gestione del suolo sono particolarmente attraenti per il loro potenziale di ridurre le emissioni, favorire la rimozione del carbonio dall’atmosfera e allo stesso tempo produrre anche molteplici benefici climatici e ambientali”.

[…] “se si considera che il 24% delle emissioni climalteranti proviene dal settore agro-forestale – cifra che arriva al 37% se si include l’intera filiera della produzione alimentare – è chiaro che una delle soluzioni chiave per raggiungere lo zero netto deve coinvolgere l’uso del suolo”, afferma Lucia Perugini. […] Le soluzioni basate sulla gestione del suolo includono opzioni di mitigazione come limitare la deforestazione (che da sola contribuisce a circa l’11% delle emissioni totali), aumentare la produttività delle colture, ma anche il cambiamento dei nostri comportamenti, ad esempio riducendo quelli a maggiore impatto, come il consumo di carne rossa. […]”, continua Perugini. [Fontehttps://ipccitalia.cmcc.it/net-zero-emissioni/].

Ecco le affinità IPCC/Foer! Entrambi suggeriscono – con più o meno allarmismi, secondo me sempre troppo poco urgenti – di ridurre il consumo di carni/animali (Foer parla «di origine animale», potendo così riunire in un’unica categoria carne+latticini+pesci). E sia l’IPCC sia Foer motivano i loro suggerimenti con valanghe di dati, rintracciabili nel Rapporto IPCC e nel libro citato, la cui recensione sarebbe stata troppo lunga; ragion per cui state leggendo questo articolo come se fosse l’approfondimento e la prosecuzione della recensione (che comunque si trova qui di seguito).

Possiamo salvare il mondo prima di cena


Come recensione era troppo lunga

I tempi (e gli spazi, ahimè) del web sono più tiranni dei tiranni. Ed ecco che per poter condividere appieno il piacere (e il sapere) derivato dal libro Possiamo salvare il mondo prima di cena (di Jonathan Safran Foer)ho deciso di aggiungere alla recensione questi brani, trascelti nelle sue pagine (che ho indicato, così li trovate subito) mentre lo leggevo – tutto, completamente – per recensirlo a dovere. Buona lettura, o continuazione di lettura, se avete già valutato interessante la recensione in questa stesso «sito».

Presidenti
Al Gore, il ritorno

«Le modalità con cui affrontiamo la crisi del pianeta non funzionano. Al Gore merita il suo premio Nobel, ma il cambiamento che ha ispirato non basta neanche lontanamente – lui stesso l’ha ammesso senza esitazioni in Una scomoda verità 2. Le organizzazioni ambientaliste meritano il nostro sostegno, ma neppure i loro risultati si avvicinano alla sufficienza. Chi sa come stanno le cose ed è disposto ad ammettere la verità più scomoda, concorderà che stiamo facendo di gran lunga troppo poco e troppo lentamente, e che proseguendo di questo passo andremo dritti verso la nostra stessa distruzione. […]

L’obiettivo dell’Accordo di Parigi, ovvero contenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi centigradi, è considerato un traguardo ambizioso, ma in realtà significherebbe fermarsi sull’orlo del baratro. Quand’anche fossimo miracolosamente in grado di raggiungerlo – in base a recenti modelli statistici abbiamo una probabilità del 5 percento – vivremo in un mondo molto meno ospitale di quello che conosciamo e molti dei cambiamenti in corso saranno nella migliore delle ipotesi irreversibili, mentre nella peggiore si aggraveranno ulteriormente», p. 69.

«C’è una forma di negazione della scienza ben più pericolosa di quella di Trump: la negazione che si traveste da sostegno. Chi tra noi sa che cosa sta succedendo ma fa troppo poco, merita molta più rabbia. Dovremmo essere terrorizzati da noi stessi. Siamo noi quelli contro cui ribellarsi. Riconoscere se stessi non significa sempre avere coscienza di sé, dicono i critici dei test allo specchio. Sono io la persona che sta mettendo in pericolo i miei figli», p. 136.

Figli
Contestatori

«L’espressione “ipotecare il futuro dei nostri figli” è stata usata in moltissimi contesti […]. Qualcuno pagherà per le nostre scelte, lo sappiamo senza crederci. Stiamo anche ipotecando il futuro dei nostri figli con stili  di vita che in futuro creeranno catastrofi ambientali. In effetti, ventuno giovani hanno intentato una “azione legale costituzionale sul clima” contro il governo federale, sostenendo che “attraverso misure legislative che agevolano il mutamento climatico, il governo ha violato i diritti costituzionali delle giovani generazioni alla vita, alla libertà e alla proprietà, oltre a essere venuto meno al dovere di proteggere risorse pubbliche essenziali”. L’amministrazione Trump ha cercato di ottenere l’archiviazione, ma la Corte suprema ha deliberato all’unanimità a favore dei giovani querelanti, permettendo che la causa vada avanti», pp. 138-139.

Noi stessi
Quando ci chiederanno…

«La crisi ambientale, pur essendo un’esperienza universale, non ci dà la sensazione di un evento di cui facciamo parte. Anzi, non ci dà proprio la sensazione di essere un evento. E per quanto traumatici possano essere un uragano, un incendio indomabile, una carestia o l’estinzione di una specie, è improbabile che un evento meteorologico susciti un “Dov’eri quando…?” […]. è solo il clima. Solo l’ambiente. Quasi certamente però le generazioni future guarderanno in retrospettiva e si chiederanno dove eravamo in senso biblico: dov’eravamo come individui? Quali decisioni ci ha suscitato la crisi? Per quale ragione al mondo abbiamo scelto di suicidarci e di sacrificare loro? Forse potremmo sostenere che non eravamo noi a decidere […] non c’era niente che potessimo fare. […] non sapevamo abbastanza. […] non avevamo i mezzi per mettere in atto cambiamenti davvero incisivi. Non gestivamo le compagnie petrolifere […]

La capacità di salvarci e di salvarli non era nelle nostre mani. Ma sarebbe una bugia. […] Rispetto ai cambiamenti climatici abbiamo fatto affidamento su informazioni pericolosamente scorrette. Abbiamo concentrato la nostra attenzione sui combustibili fossili, ma questo ci ha fornito un quadro incompleto della crisi del pianeta […] Sappiamo che dobbiamo fare qualcosa, ma l’espressione dobbiamo fare qualcosa di solito è una dichiarazione di incapacità o quantomeno di incertezza. Se non identifichiamo quello che dobbiamo fare, non possiamo decidere di farlo. […] il quadro si chiarirà sèpiegando il nesso tra allevamento e cambiamenti climatici. Ho sintetizzato quello che avrebbe potuto essere un testo di centinaia di pagine in una manciata di fatti di maggior rilievo», pp. 82-83.

Bisnonni
Pronipoti

«I miei bisnonni vivevano in una casa di legno senza l’acqua corrente e quando faceva freddo dormivano sul pavimento della cucina, accanto alla stufa. Non sarebbero mai riusciti a credere alle cose che possiedo: una macchina che guido per comodità più che per necessità, una dispensa piena di cibi importati da ogni angolo del pianeta, una casa con stanze che non vengono nemmeno usate tutti i giorni. E neppure i miei pronipoti ci crederanno. Anche se la loro incredulità avrà uno spirito diverso: come avete potuto vivere nel lusso per poi lasciarci un contro troppo salato da pagare – e quindi troppo esoso per sopravvivere», p. 140.

Scegliere
Decido ergo sum

«Il termine “decisione” deriva dal latino decid?re, che significa “tagliare via”. Quando decidiamo di spegnere le luci durante una guerra, ci rifiutiamo di spostarci in fondo all’autobus, […] solleviamo una macchina per liberare una persona intrappolata, facciamo strada a un’ambulanza, […] piantiamo un albero, ci mettiamo in coda per votare o consumiamo un pasto che riflette i nostri valori, stiamo anche decidendo di tagliare via i mondi possibili in cui non facciamo queste cose. Ogni decisione esige una perdita, non solo di quello che avremmo potuto fare, ma del mondo a cui la nostra azione alternativa avrebbe contribuito. Spesso quella perdita ci sembra così piccola da essere trascurabile; qualche volta ci sembra così grande da essere insopportabile.

[…] Siamo portati a definirci attraverso quello che abbiamo: proprietà, soldi, opinioni e like. Ma a rivelare chi siamo è quello a cui rinunciamo. I cambiamenti climatici rappresentano la più grande crisi che l’umanità si sia mai trovata davanti e si tratta di una crisi che saremo sempre chiamati a risolvere insieme e contemporaneamente ad affrontare da soli. Non possiamo mantenere il tipo di alimentazione cui siamo abituati e al tempo stesso mantenere il pianeta cui siamo abituati. Dobbiamo rinunciare ad alcune abitudini alimentari oppure rinunciare al pianeta. La scelta è questa, netta e drammatica. Dov’eri quando hai preso la tua decisione?», pp. 84-85.

Torri gemelle
Morte

«Il problema è che il nostro rapporto con il pianeta è un’esperienza ai confini della morte senza darci quell’impressione. Se riuscissimo a credere che il nostro pianeta è in pericolo, potremmo vederlo per quello che è. Forse è vero che se un miliardo di persone provassero l’effetto della veduta d’insieme, il modo in cui i terrestri pensano alla Terra e il modo in cui la trattano cambierebbero radicalmente […]. In totale si sono gettate dal Golden Gate più di sedicimila persone, e nel 98 percento dei casi il tuffo è stato letale. Tra i pochi sopravvissuti, tutti quelli che ne hanno parlato sostengono di essersi pentiti non appena si sono lasciati cadere. Forse la nostra specie farebbe un’esperienza simile. Kevin Hines aveva diciotto anni quando si tuffò. Se perdessimo il nostro pianeta, forse ognuno di noi penserebbe, come Hines, guardando il ponte sempre più lontano mentre cadeva: “Cos’ho fatto?”», pp. 150-151.

Ingiusti
Ingiustizia

«Il 10 percento più ricco della popolazione globale è responsabile di metà delle emissioni di anidride carbonica, mentre la metà più povera è responsabile per il 10 percento. E spesso i meno responsabili del riscaldamento globale sono quelli che ne pagano le conseguenze maggiori. Prendi il Bangladesh, il paese considerato più vulnerabile ai cambiamenti climatici. Si stima che sei milioni di bengalesi siano già stati costretti a lasciare le proprie case a causa di disastri ambientali come mareggiate, cicloni tropicali, siccità e inondazioni, e si prevede che altri milioni dovranno spostarsi nei prossimi anni. L’innalzamento dei mari potrebbe sommergere circa un terzo del paese, sradicando venticinque-trenta milioni di persone», pp. 182-183.

[…] «Il Bangladesh ha una delle impronte di carbonio inferiori al mondo, vale a dire che è uno dei paesi meno responsabili per i disastri di cui è vittima. Il bengalese medio è responsabile di 0,29 tonnellate di emissioni di COall’anno, mentre un finlandese medio di trentotto volte tante: 11,15 tonnellate. Il Bangladesh, dove si consumano in media quattro chili di carne l’anno, è anche uno dei paesi più vegetariani al mondo. Nel 2028, il finlandese medio ha felicemente consumato quella quantità di carne in diciotto giorni – e senza considerare il pesce. Milioni di bengalesi pagano per uno stile di vita opulento di cui loro non hanno mai goduto.

[…] Più di ottocento milioni di persone al mondo sono denutrite e quasi seicentocinquanta milioni sono obese. Più di centocinquanta milioni di bambini sotto i cinque anni sono rachitici per malnutrizione. Ecco un’altra cifra su cui vale la pena di riflettere. Pensa se tutti gli abitanti di Gran Bretagna e Francia avessero meno di cinque anni e non avessero abbastanza da mangiare per crescere bene. Tre milioni di bambini sotto i cinque anni muoiono di denutrizione ogni anno. Durante l’Olocausto sono morti un milione e mezzo di bambini. La terra che potrebbe nutrire le popolazioni affamate viene invece riservata al bestiame che nutrirà popolazioni ipernutrite. Quando pensiamo allo spreco di cibo, dobbiamo smettere di immaginare pasti mangiati e metà e invece concentrarci sullo spreco creato per mettere il cibo nel piatto. Possono volerci fino a ventisei calorie di mangime perché un animale produca una sola caloria di carne.

Jean Ziegler, ex relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto al cibo, ha scritto che destinare cento milioni di tonnellate di cereali e mais alla produzione di biocarburanti è un “crimine contro l’umanità”, in un mondo in cui quasi un miliardo di persone soffrono la fame. Potremmo definire quel crimine un “omicidio preterintenzionale”. Ma Ziegler non ha aggiunto che ogni anno l’allevamento destina una quantità sette volte maggiore di cereali e mais – sufficiente a sfamare tutte le persone denutrite del pianeta – all’allevamento di animali che diventeranno cibo per la popolazione ricca. Potremmo definire quel crimine un “genocidio”. Quindi no, l’allevamento intensivo non “nutre il mondo”. L’allevamento intensivo affama il mondo, e intanto lo distrugge», pp. 184-185.

Azioni
Giuste

«Possiamo provarci. Dobbiamo provarci. Quando si tratta di impegnarsi contro la distruzione della nostra stessa casa, la risposta non è mai o/o – è sempre sia/sia. Non possiamo più permetterci il lusso di scegliere le malattie contro cui provare a cercare un rimedio o i rimedi da tentare. Dobbiamo sforzarci di porre fine all’estrazione e alla combustione di carburanti fossili e investire nelle energie rinnovabili e riciclare e utilizzare materiali rinnovabili ed eliminare gli idrofluorocarburi nei refrigeranti e piantare alberi e sostenere l’introduzione di una carbon tax e cambiare i metodi di allevamento e ridurre lo spreco di cibo e ridurre il nostro consumo di origine animale. E tanto altro», p. 143.


Nota

1L’IPCC è stato istituito nel 1988 dalla World Meteorological Organization (WMO)e dallo United Nations Environment Programme (UNEP) allo scopo di fornire al mondo una visione chiara e scientificamente fondata dello stato attuale delle conoscenze sui cambiamenti climatici e sui loro potenziali impatti ambientali e socio-economici. […] L’IPCC esamina e valuta le più recenti informazioni scientifiche, tecniche e socio-economiche prodotte in tutto il mondo, e importanti per la comprensione dei cambiamenti climatici. […] Migliaia di ricercatori provenienti da tutto il mondo contribuiscono al lavoro dell’IPCC su base volontaria. Il processo di revisione è un elemento fondamentale delle procedure IPCC per assicurare una valutazione completa e obiettiva delle informazioni attualmente disponibili. L’IPCC aspira a riflettere una varietà di punti di vista e competenze diverse.

 

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