Sono stato in Po. Mai come in questo caso la frase vale alla lettera nel
senso che il 28 marzo 2022 ero nel mezzo dell’alveo del grande fiume. Non in
barca, a piedi. Con i miei passi ho camminato sulle acque che non ci sono più.
Siccità e cambiamento climatico ci hanno consegnato un fiume sparito. Un
disastro ecologico, umano, alimentare, culturale. Ma che non spaventa quanto
dovrebbe.
Quei rigagnoli d’acqua che ho visto sono lacrime che scorrono su un viso
martoriato da un uso del suolo insensato e irresponsabile che continuiamo a
infliggere al nostro Paese. Assieme a dei colleghi del Politecnico abbiamo
fatto delle riprese con un drone perché dobbiamo documentare l’impronta umana
su quell’ambiente morente. Una documentazione che in pochi stanno raccogliendo,
soprattutto le nostre istituzioni pubbliche alle quali mi sono rivolto nei
giorni scorsi ricevendo risposte negative.
Il Po sta morendo: ci riempiamo la bocca di transizione ecologica, ma non
andiamo a vedere. I nostri politici non vanno a vedere. Non si fanno
accompagnare da ecologi che spiegano loro la gravità. I nostri presidenti
(dalla Repubblica in giù) i nostri governatori, i nostri sindaci, soprattutto
quelli che si credono importanti anche se non hanno i loro Comuni sulle sponde
del fiume, non vanno a vedere. Non vanno neppure i nostri alti dirigenti
pubblici. Solo l’emergenza li muove. Solo le catastrofi che conoscono li
impietosiscono.
Quando il fiume esonda e rompe gli argini allora prendono l’elicottero
della protezione civile e ci volano sopra, scandalizzati o presunti tali. Ma
così facendo, forse non si rendono conto, confermano una visione e una
sensibilità antropocentriche, tutte concentrate a piangere solo i danni alle
cose umane: strade case capannoni e campi. Mentre oggi, per molti, quello che
sta succedendo non è nulla: semplicemente perché non vedono nulla di
antropicamente riconoscibile che viene danneggiato e non capiscono che le
immagini del più grande fiume ridotto a un ruscello sono il grido del clima e
l’immagine della nostra insipienza.
Immagini che devono smuoverci ma che invece neppure osserviamo. Situazioni
che dovrebbero divenire una narrazione civile che chi ci governa, con umiltà,
riporta a tutti impostando il nuovo corso delle cose e delle politiche. Facendo
vedere a tutti che così non va, viene meno il futuro.
E invece sapete che cosa accade? La beffa oltre all’inganno: il fiume così
conciato nel frattempo è diventato una pista di motocross e nessuno dice nulla.
Al dolore si aggiungono le frustrate delle gomme tassellate delle moto che non
solo distruggono il greto ma pure scarpate e argini. Così il suolo delle sponde
collassa ancor più rapidamente e altro suolo sarà perso. Non mi vergogno a dire
che davanti a un ambiente così degradato dal cambiamento climatico ovvero dagli
effetti del nostro modello economico e politico, io renderei obbligatoria una
visita guidata al Po per tutti coloro che hanno responsabilità di governo del
territorio a qualsiasi livello. C’è un profondo crepaccio culturale che se non
ci diamo da fare a colmare ci inghiottirà. Ma non basta il nostro drone e le
nostre immagini, serve che si smuova chi ha responsabilità. Non sarà la natura
a ucciderci, ma la nostra non voglia di ascoltarla.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al
Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro per Altreconomia è “L’intelligenza
del suolo”
L’articolo
originale può essere letto qui
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