“Ci siamo resi conto che stavamo perdendo conoscenze millenarie.
Abbiamo deciso di fondare una casa dei semi comunitaria per conservare i
semi di mais indigeni della nostra regione, riportarli nelle mani delle
comunità e decidere cosa mangiare”.
A parlare è Daniel Vázquez, coordinatore e
fondatore del collettivo rurale Atocpan. Lo incontriamo a San Pedro Atocpan, nell’area metropolitana di città
del Messico, grazie a un progetto di scambio, supportato da Bertha Foundation,
con la fotogiornalista Greta Rico e le attiviste Ana Larranaga e Lindsey
Loberg.
Accanto a Daniel, si sono riuniti altri contadini
e contadine di diverse aree dello Stato, proprio per incontrarci. Nessuno usa
prodotti chimici per coltivare e tutti sono a conoscenza di cosa ci sia dietro
il cosiddetto “pacchetto tecnologico” fatto di semi, pesticidi ed erbicidi,
fornito dalle multinazionali dell’agro-farmaceutica. In questi decenni, infatti, il Messico - così come altri Paesi - ha
subito numerose pressioni da parte delle grandi multinazionali: dall’accaparramento delle
terre indigene all’imposizione di semi ibridi e ogm, fino alle pressioni da parte di
Bayer AG, proprietaria di Monsanto, affinché il Messico rinunciasse al divieto
sul glifosato, un pesticida cancerogeno che è l'ingrediente chiave dei
diserbanti Roundup della Monsanto usati in agricoltura.
Per migliaia di anni le contadine e i contadini di diverse aree del mondo hanno conservato tesori biologici inestimabili per la comunità e per l’ambiente: i semi indigeni. Questi hanno alimentato e costruito le grandi civiltà in Centroamerica, quelle in Mesopotamia - la terra tra i due fiumi - e nel Levante, fino ad arrivare alle grandi civiltà in Asia. Oggi questi semi, in ogni angolo del pianeta, affrontano una grande pressione, a causa della crescente urbanizzazione, dell’abbandono delle campagne ma soprattutto a causa di una costante e sistematica azione di accaparramento, recinzione, occupazione delle terre indigene ad opere di aziende, multinazionali e Stati che, nel corso dei secoli, si sono appropriati dei “beni gratuiti” della natura - come acqua, suolo, montagne e foreste - per essere usati dal capitale.
Tra questi beni ci sono anche i semi, controllati
sempre di più da una manciata di multinazionali che possiede
brevetti, capitali e tecnologia.
Controllare i semi, significa di fatto controllare il sistema alimentare,
il cibo, la cultura e rendere dipendenti i contadini e i cittadini all’acquisto
e al consumo di determinati prodotti.
Gran parte dei semi in commercio oggi non solo
non possono essere riprodotti di anno in anno, ma sono strettamente legati
all’utilizzo di pesticidi. Perdere i semi tuttavia non significa solo perdere
la propria indipendenza alimentare ma anche la propria cultura. “L’idea della
casa dei semi comunitaria nasce da qui. Quando abbiamo iniziato a raccogliere i
semi ci ha stupito la quantità di storie che le persone condividevano sui loro
semi e sui loro ricordi. Ci ha affascinato ascoltare come i semi siano passati
di mano in mano, di generazione in generazione. Di fatto, i semi sono le
persone e le persone sono semi. Non sono pezzi esterni.
Il seme è storia, cultura, tradizione e futuro. E tutto ciò che facciamo è pertanto un atto di resistenza”, spiega Vázquez.
Come Daniel, anche gli altri membri del
collettivo, seduti attorno a una tavola imbandita con tortillas, mole e
altri piatti della cucina messicana, ne sono convinti. Fare agricoltura oggi è
un atto di amore e di resistenza. Lo sa bene Laura Flores, avvocata e figlia di
contadini, oggi tornata a coltivare la terra. “Le multinazionali tolgono libertà
e indipendenza a noi contadini. Ma anche a tutti i cittadini. Mangiamo tre
volte al giorno ma non sappiamo più cosa mangiamo e chi lo produce. I gusti e i
sapori sono gli stessi in Messico, come in Italia.
Ci hanno venduto l’idea che la modernità sia quella di abbandonare la
terra e le campagne, spingendo le persone a emigrare in città per diventare
lavoratori salariati e sfruttati e oggi nessuno semina e nessuno coltiva”,
racconta.
Dopo anni di lotte per riappropriarsi di terreni
ingiustamente accaparrati da alcune imprese, Laura oggi coltiva diverse varietà
di mais, fagioli, zucche, fave e piante di frutta nella terra ancestrale dei
genitori. La milpa è esattamente questo: il metodo di coltivazione delle
famiglie mesoamericane contadine prima della colonizzazione. “Per me
agroecologia significa essere liberi. Coltivare con ciò che hai intorno vuol
dire essere indipendenti da questo sistema agro-industriale che rende schiavi e
impone cosa mangiare. Coltivare e curare la terra è una forma di lotta”.
C’è un filo sottile che unisce le mobilitazioni
contro le multinazionali dei semi e dei pesticidi in Messico fino a quelle per
la terra in Palestina contro il colonialismo israeliano.
È la lotta e la resistenza di popoli indigeni che, da sempre, hanno
vissuto e mantenuto un legame simbiotico con la terra.
Nella cultura mesoamericana o in quella
mediterranea, o comunque in tutte le comunità indigene e contadine che vivevano
di economia di sussistenza, la natura non era separata dagli esseri umani.
Sapevano di fare parte di un tutto e tutta la vita ruotava attorno ai beni
naturali. Certamente c’era una plasmazione e trasformazione del paesaggio ma la
“natura” non era trasformata in oggetto esterno da conquistare, regolare,
sfruttare.
La natura non era un substrato passivo ma il campo all’interno del quale
si svolgeva tutta la vita.
A partire da quello che Fernand Braudel definisce
il lungo XVI secolo, ovvero il periodo in cui emerge, si consolida e dura il regime di
accumulazione del capitalismo, l’idea di natura inizia ad essere relegata
all’esterno e l’ambiente visto come risorsa infinita e gratuita o discarica per
rifiuti, altrettanto infinita e gratuita. Il capitalismo, di fatto, ha
trasformato la natura in oggetto esterno, affinché sia accettata e normalizzata
l’idea che la natura possa essere conquistata, occupata e invasa.
Scrive Jason W. Moore nel libro “Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine
della natura a buon mercato”:
“Il capitalismo non ha un regime ecologico, bensì è un regime ecologico: sfruttamento e creazione di valore non si danno sulla natura, ma attraverso di essa, cioè dentro i rapporti socio-naturali che emergono dall’articolazione variabile di capitale, potere e ambiente”.
In altre parole, il capitalismo è un modo di organizzare
la natura ed è proprio il dominio del capitale che ha trasformato la natura in
“oggetto estraneo” o “natura astratta”, avvalendosi proprio di un “vasto
repertorio di enclosures e recinzioni,
appropriazione dei beni gratuiti della natura” per essere usati dal capitale in
modo infinito, accumulando gratuitamente materie prime, e “servire
l’insaziabile domanda di natura a buon mercato”.
Ma questa insaziabile domanda di natura a buon
mercato si sta scontrando con un grande limite. Oggi, infatti, siamo in una
fase storica di crisi del capitalismo perché il funzionamento del capitalismo
stesso si basa sull’idea dell’accumulazione, crescita infinita e appropriazione
senza fine della terra.
Le risorse naturali, però, sono limitate e sempre più esaurite.
Di fronte a questi limiti, il capitalismo diventa
ancora più aggressivo. Cerca pertanto di accaparrarsi le ultime risorse:
materie prime, terre e natura. Lo abbiamo visto in Centroamerica e Sudamerica,
dove le comunità indigene e gli attivisti sono sempre più
attaccati da multinazionali e Stati nazione - il braccio armato del capitale -
ma anche in Groenlandia, Stati africani e in Palestina,
dove le aziende del gas e del petrolio, tra cui l’italiana ENI, si sono aggiudicate dal Ministero dell’Energia
israeliano licenze per la ricerca di gas. Lo stesso copione scritto
in Iraq durante l’invasione a guida statunitense del 2003, quando le compagnie
petrolifere hanno ottenuto contratti e licenze, grazie alla partecipazione dei loro Paesi d’origine alla guerra contro
l’Iraq.
Ecco allora che la cura e la difesa della terra
diventano elemento centrale di resistenza e rivoluzione radicale contro il
capitale. Lo sanno bene i contadini e contadine del Messico ma anche quelli
incontrati in questi anni in Italia, Libano, Tunisia e Palestina. Ovviamente,
alcune delle sfide che gli agricoltori palestinesi devono affrontare sono
uniche per la forma di colonialismo israeliana, mentre altre sono condivise dai
piccoli agricoltori di tutto il mondo di fronte al cambiamento del clima e alla
crescente influenza dell'agricoltura industrializzata.
Ma tutti sanno che la cura della terra, il
pensiero del limite, la tutela della biodiversità e la totalità organica della
vita sono pratiche politiche rivoluzionarie di resistenza.
Lo sa bene Lina, compagna di questo percorso di
ricerca con la Bertha Foundation, che vive nei territori palestinesi occupati e
che prova con il Forum agroecologico palesinese a portare avanti case
comunitarie dei semi e pratiche agroecologiche.
“Fare il nostro cibo è una forma di liberazione”, mi ha detto ad aprile 2024 quando è venuta in Italia a conoscere altr* contadin* resistenti.
A lei e a tutt* le persone palestinesi, libanesi
e coloro che resistono, curando la terra va questo scritto.
(Con il supporto di Bertha Foundation)
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