domenica 15 dicembre 2019

Vade retro ticket - Nicoletta Dentico




I ticket sanitari sono arrivati insieme ai partenariati pubblico-privati come diktat della Banca mondiale. Oggi la finanziarizzazione della salute pubblica ha fatto balzi ulteriori attraverso fondi e assicurazioni. Fino a alle speculazioni sulle epidemie come Ebola.

La salute, un progetto bancabile?
La buona notizia è stata annunciata una settimana fa. Il parere scientifico positivo di European Medicines Agency (Ema), l’agenzia europea del farmaco, ha permesso alla Commissione europea di approvare ufficialmente l’immissione in commercio condizionata per Ervebo, il primo vaccino contro il virus Ebola. I dati provenienti di studi clinici e dai programmi di uso compassionevole – che hanno coinvolto 16.000 soggetti – hanno dimostrato che Ervebo protegge contro la malattia da virus Ebola dopo una singola dose. Il vaccino Ervebo è frutto di una torsione della storia: progettato per la prima volta dalla Public Health Agency in Canada più di un decennio fa, è stato ripreso con voga e sviluppato sotto la pressione della dirompente epidemia di Ebola in Africa occidentale tra il 2014 e il 2016 dalla Merck, in collaborazione con istituti e ricercatori in Europa, Canada, Africa e Stati Uniti.
La rapida diffusione del virus in Africa, che ha ucciso oltre 11.000 persone, aveva manifestato senza equivoci la fragilità strutturale dei sistemi sanitari africani, e della stessa governance globale della salute, nella gestione di epidemie violente come Ebola, approdata per la prima volta anche nel mondo occidentale. Il focolaio epidemico non si è spento. Continua a infestare la Repubblica democratica del Congo (RDC), dove in quindici mesi ha infettato oltre 3.000 persone e causato 1.800 morti, con un tasso di moralità del 67%; la gestione dell’epidemia è ulteriormente complicata dal perdurare di una guerra a bassa ma estenuante intensità nell’est del Paese. A luglio 2019 l’Oms era tornata a lanciare l’allarme dichiarando Ebola un’emergenza di salute pubblica globale. Proprio in RDC il vaccino Ervebo è stato testato come parte di un protocollo specifico contro Ebola Zaire (la specie di virus diffusasi in Africa negli ultimi anni) per tutelare le persone particolarmente a rischio di infezione, operatori sanitari e familiari coinvolti nella cura dei pazienti. Ervebo è stato immediatamente pre-qualificato dall’Oms, e l’agenzia ha iniziato a promuoverne l’uso nei Paesi interessati. 
Tirano un sospiro di sollievo medici e volontari impegnati sul campo. Si animano gli investitori dei fondi che hanno scommesso sulla capacità dell’Oms e delle autorità nazionali di fermare la temibile corsa del virus. Sì, anche gli investitori. Sulla scia della crisi epidemica 2014-2016, la comunità sanitaria globale si è inerpicata alla ricerca di nuove iniziative capaci di accrescere la “sicurezza in salute” (health security). La Banca Mondiale ha creato nel 2016 (e lanciato operativamente nel luglio 2017) il Pandemic Emergency Financing Facility (PEF), un dispositivo assicurativo con il compito di mobilitare immediatamente risorse private per rispondere ai focolai  delle malattie infettive nei Paesi poveri e colmare così il frequente gap temporale e finanziario tra lo scoppio di un’infezione e l’intervento dei governi donatori per fronteggiarla. Un vuoto che ha effetti moltiplicatori sul rischio di vita delle persone e sui danni alla debole economia dei Paesi colpiti. 
Come funziona PEF? L’investitore privato acquista dei bond triennali (la prima tranche è 2018-2020). L’investimento si perde – ammesso che possa definirsi perdita il bene comune del controllo di una malattia – se i fondi vengono concretamente utilizzati per prevenire o domare l’epidemia. Ma se nulla di tutto questo accade, allora l’investitore riceve un premio che si aggira intorno al 13% – a metà anno, PEF aveva esborsato 114,5 milioni di dollari, sebbene non abbia mai esplicitamente dichiarato il tasso di interesse. PEF è stato supportato da 190 milioni di dollari donati da tre Paesi – Australia, Germani e Giappone – e da International Development Association (IDA), un fondo di Banca Mondiale che ogni anno mette a disposizione circa 20 miliardi di dollari per i 75 Paesi più poveri. 
L’azione tempestiva contro le epidemie è fondamentale, ma l’ideazione di fondi per attrarre gli investitori rischia di produrre, come in questo caso, un’architettura che riduce al minimo la probabilità di pagamento. La scommessa finanziaria di PEF poggia sulla probabilità di morte per centinaia di persone. Servono precise soglie epidemiologiche per far attivare il fondo a vantaggio dei Paesi poveri. Nel caso di Ebola, PEF può rilasciare 45 milioni di dollari a fronte di dati in grado di confermare almeno 250 decessi, e solo se il virus si è diffuso anche in un altro Paese, con la morte accertata di almeno 20 persone.  In un Paese vasto e popoloso come la RDC, i criteri non sono scattati, e di certo non scatteranno – le epidemie peraltro, dimostra l’Oms, sono quasi sempre circoscritte a un solo Paese. Dunque? Al netto del valore etico di queste operazioni, e di un capitalismo estrattivo che non si ferma davanti a niente e nessuno, a che serve PEF?
Dunque, denuncia la London School of Economics (LSE) in un recente rapporto, PEF serve agli interessi privati ben più che alla sicurezza sanitaria. Non ha sganciato un singolo dollaro agli africani finora. Quando è stato necessario, sono intervenute erogazioni da altri fondi di emergenza delle Nazioni Unite e dell’Oms. Contro il virus dell’Ebola in RDC la Banca Mondiale ha versato 300 milioni di dollari, indipendentemente da PEF, lo scorso luglio. Dunque – ha scritto senza mezzi termini Olga Jonas, già economista presso la Banca Mondiale – sarebbe bene che la comunità internazionale riconoscesse il totale fallimento di PEF e lo chiudesse subito, evitando in futuro la stupidità di inseguire ricette innovative, solo per il gusto di dimostrare inventività di finanza creativa. 
Come abbiamo evidenziato nel capitolo salute del rapporto Spotlight on Financial Justice lanciato a New York lo scorso settembre, lo stimolo a coinvolgere i capitali privati nel campo della sanità non è certo una novità. Ha un antecedente storico. Mi riferisco al rapporto della Banca Mondiale Investing in Health del 1993 , testo di non ritorno per spalancare la strada alle riforme sanitarie che hanno conferito sempre maggiore rilevanza al mercato e alla generazione di reddito nell’ambito sanitario. Quando il rapporto uscì, la fornitura di servizi privati per la salute era limitata quasi esclusivamente ai soli Paesi occidentali.
La perentoria riforma indotta dalla Banca Mondiale prese il via con una moratoria all’espansione del settore pubblico, l’introduzione di controversi ticket sanitari (users’ fees) e l’affidamento esterno di diversi servizi ospedalieri. Bastò meno di un decennio per inondare i sistemi sanitari nazionali della vivace presenza della finanza privata. La stessa tracimazione si è vista nella governance della salute tradizionalmente intesa, riconducibile fino a quel momento alla funzione pubblica degli stati: questa funzione ha subito un profondo ridimensionamento grazie alla seduttiva ricetta dei partenariati pubblico-privati. Questi introducono il passaggio da una catena di responsabilità formali, dentro assetti istituzionali, a una pluralità di iniziative funzionali o specifici contratti che poggiano sul modello multi-stakeholder (privato profit e non profit, insieme al pubblico) e su approcci volontari. I partenariati pubblico-privati, analizzati con forte spirito critico da numerosi studi accademici e contestati come “pericolosi” da un’ampia rete di organizzazioni della società civile, vengono considerati in letteratura la risposta più accreditata e ideologica al nuovo rapporto fra Stato e mercato imposto dalla deregulation della globalizzazione. La salute è sotto assedio. Lo stesso vale del resto per quasi tutti i settori di gestione della società: le partnerships sono perfettamente strumentali alla privatizzazione dei servizi pubblici e al processo di finanziarizzazione della  agenda sociale, in settori decisivi per la vita delle persone. 
Nessuno osa dubitare che la salute sia una condizione essenziale allo sviluppo sostenibile. La realizzazione dell’obiettivo 3 della Agenda 2030 – “garantire vite sane e promuovere il benessere” – richiederà secondo le proiezioni una spesa annuale di 274 miliardi di dollari entro il 2030.  Altri 371 miliardi serviranno solo per rafforzare i sistemi sanitari. Si tratta di traguardi strutturali che richiedono visione profonda, campagne convincenti di promozione della salute, politiche adeguate e coerenti in senso generale (non solo medico). Finora invece chi ne ha tratto vantaggio è l’industria della salute. Un business famelico e garantito: le stime indicano come la spesa sanitaria globale sia destinata a salire del 50% entro il 2030, soprattutto nei mercati emergenti, cioè i Paesi a medio reddito. Per paradosso, l’aumento della spesa produrrà come effetto l’innalzamento dei livelli di disuguaglianza sanitaria in seno alle singole nazioni. 
Ma siamo sicuri che sia un paradosso? La finanziarizzazione e privatizzazione della salute sono tendenze in gran voga. Il mercato cresce senza alcuna considerazione per gli effetti a lungo termine di questo processo, che non risparmia l’entusiastico appoggio del Terzo settore.  L’espansione di modelli che in nome della sostenibilità estraggono profitti da situazioni di vulnerabilità, come quello del fondo Ebola, emerge come una lacerante contraddizione, ma sembra aver definitivamente catturato i circuiti internazionali e le istituzioni dello sviluppo se è vero, come è vero, che sono le organizzazioni multilaterali e i singoli governi, a scortare i titolari di fondi di investimento e di capitale privato nelle praterie della salute globale. 
La Copertura sanitaria universale (Universal Health Coverage, UHC), la principale strategia  sanitaria degli Obiettivi dello Sviluppo sostenibile (OSS), è la traiettoria globale per la finanziarizzazione della salute. Era stata pensata in origine con una forte vocazione alla funzione pubblica nel finanziamento della salute e nella regolamentazione della qualità e gamma delle prestazioni. La nozione da cui aveva preso avvio il dibattito all’ONU nel 2005, prima a Ginevra e poi a New York, ruotava intorno alla constatazione del fallimento del mercato e al principio della salute come bene comune, di cui lo Stato deve avere piena responsabilità. Poi il discorso internazionale ha virato verso le esigenze della copertura finanziaria e l’idea che le prestazioni potevano essere erogate indistintamente di entità pubbliche o private, purché ci fossero fondi, nel buon nome dell’inclusione finanziaria e dell’estensione di servizi finanziari alle comunità in difficoltà.
Pur nella grande varietà applicativa, oggi la Copertura sanitaria universale si caratterizza come una monumentale concertazione volta a promuovere schemi assicurativi di finanziamento della salute basati su pagamenti volontari, adattati di volta in volta alle capacità di spesa dei singoli, anche in termini di gamma di prestazioni. Accanto al boom delle assicurazioni, cresce il business delle strutture sanitarie private. L’euforia assicurativa non riguarda solo i Paesi del Sud del mondo, ma anche società tradizionalmente dotate di forti sistemi di sanità pubblica.
In Italia ad esempio, dove l’istituzione nel 1978 di un servizio sanitario universalista ha avuto una funzione chiave per lo sviluppo socio-economico del Paese, la spinta verso i modelli assicurativi sta producendo il doppio effetto di smantellare ciò che resta del Sistema sanitario nazionale (SSN) e di provocare uno straordinario incremento della spesa privata, aumentata del 9,6% dal 2013 al 2017, con il conseguente indebitamento per circa 7 milioni di persone.   
Approcci anche molto diversi di micro-finanza dischiudono opportunità originali per trasformare la malattia delle popolazioni in zone di investimento, e creare nuovi meccanismi di estrazione del denaro dai poveri, spesso con la facilitazione di grandi entità filantropiche. In questa trasformazione, i cittadini vengono “invitati a organizzare la loro personale gestione del rischio ed esporsi direttamente ai mercati finanziari, tramite la richiesta di prestiti e l’acquisto di pacchetti assicurativi”, commentano Benjamin Hunter e Susan Murray nei loro studi. Questo significa che le persone, da titolari del diritto universale alla salute diventano “soggetti investitori”. 
La finanziarizzazione della salute pone dunque una serie di questioni complicate: 
·         una questione di qualità della governance della salute: il modello assicurativo e privatizzato  produce una forte dispersione e frammentazione nella gestione della salute, e un notevole grado di ibridazione istituzionale, a tutti i livelli, destinata a favorire l’impotenza del settore pubblico; 
·         Una questione di democrazia: i mercati finanziari sanitari sono basati su contratti privati e concertazioni che eludono in genere lo scrutinio pubblico, in un territorio che dovrebbe imporre trasparenza e capacità di dar conto delle scelte a favore di equità e giustizia sociale; 
·         Una questione di mercato: la finanziarizzazione delle prestazioni sanitarie espone le persone che ne hanno bisogno alle imprevedibili impennate della finanza internazionale e alla volatilità delle speculazioni; 
·         Una questione culturale: si promuove in questo modo il consumismo sanitario e una  cultura iper-medicalizzata, in relazione alla desiderabilità dei servizi sanitari cui accedere. 
Gli strumenti di mercato non sono mai neutrali. E come abbiamo per il fondo PEF contro le catastrofi epidemiche, possono sussistere tensioni morali non indifferenti nel terreno della salute. Territorio, in ultima analisi, del diritto alla vita. 

Note e riferimenti:
2 Dentico N. e Acuna D.L.,”Il tardo risveglio dell’Oms sul virus Ebola”, Sole 24 Ore Sanità, 30 gennaio 2015,  https://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/commenti/2015-01-30/tardo-risveglio-virus-ebola-181901.php?uuid=AbcuTg4K
7 J138568_CFJ_Mini_Reports_Health_WEB.pdf
9 Judith Richter, “Public-Private Partnerships for Health: a Trend with no Alternatives?”, Development 47(“), 2004, pp.43-48. 
12 F. Carraro e M. Quezel, Salute SpA: La sanità Svenduta alle Assicurazioni, Chiarelettere, Milano, 2018.
13 B. Hunter e S. Murray, Deconstructing the Finanzialization of Healthcare”, Development and Change,  6 giugno 2019, 0(0), 2019, pp. 11. 

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