giovedì 26 dicembre 2019

Pietrino Soddu intervistato da Alessandra Carta


“Dopo la società liquida, quella del rischio o la eccitata, come nel prezioso lavoro di sintesi sulle dinamiche del nostro tempo, servirebbe adesso un Gramsci del Duemila. Ovvero qualcuno che disegni l’orizzonte dell’Antropocene”. A parlare è Pietrino Soddu, uno dei grandi saggi della Sardegna, protagonista della politica isolana per oltre cinquant’anni. Nemmeno stavolta l’ex presidente della Regione e parlamentare si sottrae all’invito di una lettura profonda sul nuovo millennio. Compresa la stagione amministrativa in corso.
Onorevole, sembra di essere sulle sabbie mobili. Con emergenze note: denatalità, emigrazione, invecchiamento, dispersione scolastica e razzismo.
Aggiungiamo la crisi dei partiti tradizionali, le insufficienti risposte dello Stato sociale e la sempre più debole fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Il risultato è il diffondersi di una stratificazione subculturale ispirata a modelli che sono di segno opposto rispetto alle idee, ai principi e ai valori su cui è stata costruita la Costituzione. Tutto questo fa sì che ci troviamo immersi nella paura, disorientati e confusi. Oggi a mancare è un senso comune su cui costruire speranze e aspettative. Sogni e qualche certezza. La siepe di Leopardi, oltre la quale il poeta di Recanati immaginava un’immensità sconosciuta, ha lasciato il posto alla paura. Il dolce naufragare è diventato un lusso. E non certo un’opzione per i disoccupati, i giovani costretti a lavori di ripiego o le famiglie sulla soglia di povertà”.
Chi paga il prezzo più alto?
Gli anziani. A Sassari, con le sardine, sono scesi in piazza anche i pensionati. Quasi in difesa di uno status quo che, in realtà, non esiste già più. Il Paese in cui i bambini degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta sono diventati adulti è andato erodendosi, senza soluzione di continuità. Il popolo italiano, in pochi anni, ha perduto la fiducia nella vecchia rappresentanza dando origine a un processo caotico che sì, è cominciato qualche decennio fa, ma sta arrivando rapidamente a una conclusione inaspettata. Sta arrivando alla nascita di un “nuovo ordine”, originato, secondo il linguaggio della scienza del caos, dall’azione di un “attrattore strano”, sino a qualche tempo fa assolutamente imprevedibile. Parlo del neonazionalismo fondato su un leader autoritario e populista. A prendere forma è un orientamento reazionario che sta sotituendo il precedente, democratico-progressista.
Cosa servirebbe adesso?
Un Gramsci del Duemila, appunto. Un intellettuale capace di trasferire in politica la ricerca di un nuovo senso comune. Un Gramsci che possa rimettere in equilibrio capitale e lavoro, col primo che ha finito per prevalere sul secondo, a causa di incontrollate, o forse incontrollabili, trasformazioni economiche. Sino a pochi anni fa, nel cosiddetto mondo occidentale la rotta era segnata dallo Stato sociale e dalla democrazia rappresentativa, dove il consenso se lo spartivano tradizione liberaldemocratica, socialdemocratica o federalista. Oggi non si parla più di impegno, coraggio e generosità. Oggi assistiamo allo sbandamento delle classi popolari, che infatti hanno preso a votare la destra conservatrice, come avvenuto in Inghilterra con la Brexit. E per contro la borghesia ha come punto di riferimento i partiti progressisti, che infatti hanno dimenticato operai e contadini. L’attrattore strano, di cui si diceva prima e che spinge la gente comune verso l’abbraccio coi nuovi nazionalismi, fa leva proprio sull’assenza di quelle strutture concettuali attraverso le quali si gestisce la paura e si dà una prospettiva futura.
In Sardegna vede dinamiche diverse?
Assolutamente no. Come nel resto del mondo occidentale, anche da noi il futuro è percepito come peggiore del presente. Anche in Sardegna la crisi è generale e investe i diritti, i doveri e le relazioni esistenti nella società. Oggi si chiede che uno Stato assicuri non solo cibo, casa, istruzione e sanità. Oggi il paniere delle rivendicazioni è allargato agli spettacoli, alle vacanze e allo sport. Ma poi quello che diffusamente si registra è un vuoto di motivazione, in cui il non pagare le tasse, per esempio, è diventato un vanto. La liberazione dai tributi si è convertita nella nuova giustizia sociale, come se lo Stato stesso non avesse un costo. Non c’è programma politico che non contempli una zona franca o quella economica speciale.
Il Gramsci del Duemila avrebbe una proposta politica diversa?
Di sicuro non trascurerebbe il fatto che questa distrazione sta diventando fatale, perché foriera di rabbia, rancore e infelicità. Ma questo vogliono i nuovi nazionalismi. Che spingono i cittadini a rinchiudersi, a cercare gli untori, come ai tempi del Manzoni. Untori che i leader populisti, per consacrare il consenso, hanno trovato negli immigrati, nei politici che prendono il vitalizio o nei partiti tradizionali, per citare le strategie più gettonate. Né un Gramsci del Duemila e nemmeno i padri costituzionali della Dc, così come l’intera e illuminata classe dirigente di quei tempi alla quale concorrevano comunisti e socialisti, liberali e repubblicani, avrebbero mai affrontato i problemi per singole parti o per interessi personali. Come spesso succede, perché questo approccio è dannoso e riduttivo e non consente di cogliere la portata e la drammaticità della crisi in cui il mondo occidentale è precipitato. Oggi vanno di moda tesi che mettono in dubbio persino la sovranità popolare, l’eguaglianza, le pari opportunità, la libertà, la solidarietà e la dignità della persona umana. Il Gramsci del Duemila e la Costituente tutta prenderebbero in considerazione idealità, sogni, aspirazioni e ambizioni. Le chance di successo individuale e collettivo.
Trova che l’attuale centrodestra al governo della Regione sia capace decodificare questa complessità sociale?
In Sardegna i partiti hanno cominciato ad andare in crisi agli inizi degli anni Novanta, quando la triade “democrazia, autonomia, rinascita”, che ha dominato la politica isolana dalla nascita della Repubblica, ha cominciato a manifestare la propria inefficacia. Almeno rispetto agli obiettivi di progresso, sviluppo, emancipazione e benessere che ci si era prefissati. Il fenomeno ha avuto inizio con le prime delusioni nate dall’insuccesso, sia pure parziale, del Piano di rinascita, che non aveva risposto alle grandi attese e alle grandi speranze di un’opinione pubblica impaziente e influenzata dall’opposizione di un gruppo di intellettuali ostili a un modello di crescita considerato un’imposizione dall’esterno. E quindi, a loro dire, destinato inevitabilmente a fallire. Queste posizioni ci sono ancora: è la difesa dei miti de su connottu, riproposti ogni volta in nuove forme. Non si tratta di respingere la certezza dell’autosufficienza, semmai andrebbe riutilizzata nelle parti più vitali.
Le Regionali del 2019, oltre a consegnare la Sardegna al centrodestra in maniera netta, hanno anche spazzato via dal campo politico gli indipendentisti. Alla lunga se ne sentirà la mancanza?
Il sardismo diffuso, come era ai tempi di Mario Melis e Michele Colombu, aveva davvero contribuito alla nascita prima e alla diffusione poi di una coscienza identitaria collettiva. Non verticistica, non settoriale, non classista. Ma popolare nel senso stretto del termine. Quello spirito però ha finito per scontrarsi con la nazione resiliente quale noi sardi siamo. Ovvero una nazione che si adatta alle condizioni e poi magari torna allo stato precedente, quello considerato ideale. Ma non osa, non rischia, non si espone. Nel dibattito politico sardo manca quella una tensione riformista di cui gli indipendentisti si erano fatti portatori.
Lei, di recente, ha bacchettato un certo indipendentismo di sinistra e disfattista-
Ho parlato invero di quell’esperienza culturale che vive nella convinzione di uno sviluppo senza industrie, come se l’economia si potesse reggere sui fasti del passato più antico. In realtà anche i nuragici, coi loro bronzetti e le strutture di pietra anche complesse, hanno dato prova di avere una forma di organizzazione sociale paragonabile a quella industriale del nostro tempo. Per diventare un grande popolo non bisogna essere necessariamente solo cacciatori e raccoglitori. In Sardegna andrebbero superate tutte le visioni, le programmazioni e le governance che contrastano con l’idea dell’unica polis e frantumano l’identità della ‘Nazione sarda’ in tante identità locali, che indubbiamente ci sono ma non possono essere in contrasto con quella regionale.
La ‘Nazione sarda’ ha ancora un senso?
Non solo ha un senso, ma può diventare protagonista della politica italiana ed europea come altri nazioni. Ma serve appunto ragionare e operare come un’unica polis, lasciandosi alle spalle la politica frammentata e di corto respiro localistico; bisogna tagliare il cordone ombelicale con quel regionalismo chiuso, impregnato di sovranismo illusorio. Serve una visione più ampia e globale, in cui la Sardegna non va pensata e vissuta come periferia emarginata e bisognosa di assistenzialismo. Per questo considero debole, ancorché intenzionalmente positiva, l’iniziativa che promuove l’inserimento del principio di insularità in Costituzione. Ha poco senso guardare alla Carta, se si ignora che il mercato è dominato da un numero sempre più ristretto di soggetti, non controllabili dalla Regione e neppure dallo Stato. Ha poco senso guardare alla Carta, se si ignorano i problemi derivanti dai nostri errori, della nostra inefficienza, della nostra incapacità di stare al passo con i tempi. L’insularità non è la causa di tutti i mali, e neppure una panacea. Ma di sicuro diventa impossibile risalire la china se la nostra democrazia parlamentare rappresentativa si trasforma in sistema autoritario, perché così perde di vista la Costituzione stessa. L’opinione pubblica, non è un caso, è dominata dallo slogan del “prima la Sardegna, prima i sardi, prima i cagliaritani, prima i piccoli paesi e, prima di tutti, io”.
Con alcuni di questi refrain il presidente della Regione, Christian Solinas, ha vinto le elezioni dello scorso febbraio.
Da governatore fa l’unitarista. Non crea strappi. Si spinge dove nessun capo della Giunta aveva fatto prima. Poco tempo fa è stato accolto con tutti gli onori dalla Conferenza episcopale sarda. Il presidente Solinas è bravo a intessere relazioni. Ma è evidente che non bastano. Tuttavia è presto per esprimere giudizi complessivi. Quel che si intravede ora è una raccolta di quanto seminato dalla Giunta precedente e agevolato dalla correttezza politica del Governo nazionale che si sta dimostrando aperto e collaborativo. Sembra mancare invece del tutto un’idea di Sardegna e di visione futura, per costruire una nuova autonomia in senso federalista e un nuovo patto costituzionale. Questo si può fare solo con iniziative che mettano insieme non solo la politica, ma la società intera.
Intravede una speranza?
Sì, certamente. Per alimentare la nuova questione sarda, se così la vogliamo chiamare, la prima cosa da fare è riprendere appunto l’iniziativa politica per coinvolgere partiti, movimenti e la società civile tutta. Cominciando dalle donne e dai giovani: perché le prime hanno voglia di impegnarsi sino in fondo, con la loro spinta emancipatrice e l’affermazione della parita; i secondi hanno un orizzonte più ampio, aperto e libero da vincoli e da interessi consolidati. Ma prima ancora va cambiato il senso comune antipolitico cresciuto in questi anni. Per farlo, bisogna riprendere a dialogare e a confrontarsi. Senza pregiudiziali né rigidità ideologiche di parte. È necessario rimettere al centro l’interesse generale, la giustizia sociale, l’eguaglianza e su tutto ciò che rientra nella categoria dei diritti fondamentali e nella dignità della persona umana. Per migliorare la vita individuale e quella dei popoli non bastano le conquiste della scienza, i progressi della tecnica e dei sistemi produttivi: serve che le istituzioni migliorino non solo le condizioni materiali dei territori, cioè le abitazioni, le strutture e gli strumenti destinati alla produzione e ai servizi; diventa prioritario trasformare città e paesi in soggetti politico-culturali, in comunità intenzionali, avrei detto una volta. Il che significa riconoscersi come cittadini che si sentono responsabili del proprio destino e accettano di identificarsi in collettività più ampie.
Crede davvero che l’ascia del campanilismo, dissotterrata in ogni confronto che conta, verrebbe abbandonata da sindaci e consiglieri regionali?
La diversità a livello regionale può rafforzare un’identità; su un piano nazionale può essere vissuta come un diritto; in un contesto internazionale può diventare il confine etico per arginare chi propone di seguire le tendenze di un mercato senza limiti, al di fuori dei profitti e dei consumi.

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