giovedì 19 dicembre 2019

Storia di un tappeto - Patrizia Cecconi



C’era una volta un uomo dagli occhi profondi, di un nero brillante, come spesso hanno i magrebini e a volte gli italiani del sud. Lo sguardo era dolce e anche il sorriso lo era. Era un uomo piuttosto alto, aveva la pelle scura e vellutata come ce l’hanno spesso i magrebini. Era magro e portava sempre un copricapo a calotta, uno di quelli che in Tunisia credo si chiamino shishyà e si sedeva in un punto di via di Donna Olimpia, nella parte più popolare di Monteverde, poco distante dalla zona frequentata da Pasolini molti anni prima.
Accanto a sé stendeva un telo con sopra oggetti artigianali nordafricani belli e qualche cianfrusaglia. Sul muro alle sue spalle fissava delle corde e su quelle esponeva alcuni tappeti. Parlava con voce bassa e dolce e quando qualcuno si fermava lui si alzava e spiegava la fattura dei tappeti o l’origine dei bracciali e degli orecchini.
Era un uomo gentile e mi sarebbe piaciuto chiedergli qualcosa della sua vita ma ho sempre temuto di essere invadente e non l’ho mai fatto. Non so neanche se fosse tunisino o marocchino, ma aveva detto a un bambino che si fermava sempre a parlare con lui, che la sua casa era sul mare Mediterraneo, ma dall’altra parte e che lui un giorno ci sarebbe tornato.
Il bambino, che ora ha più di trent’anni e che allora ne aveva solo tre ma sembrava molto più grande, era affascinato dagli elefanti di uno dei suoi tappeti. Quello che gli piaceva tanto perché, anche girandolo al rovescio, gli elefanti non sparivano ma cambiavano colore.
L’elefante, insieme all’ippopotamo, al rinoceronte e al coccodrillo erano stati i primi animali di gomma che gli erano stati regalati quando non aveva ancora un anno e con i quali giocava immaginandosi nella giungla e chiamandoli con i nomi storpiati che allora riusciva a pronunciare. Il rinoceronte era onne, popommomo era l’ippopotamo e bobe, derivato da proboscide, era l’elefante. Ma dopo due anni i nomi erano ormai pronunciati correttamente e all’amore per gli animali della giungla si era aggiunto quello per i cani, i gatti, i cavalli, le farfalle, le lumache, le coccinelle, i pulcini… una tragedia!
Ricordo di aver passato un’estate in Abruzzo con lui girando per tutte le stalle dell’aquilano affinché potesse accarezzare i vitelli e ridere felice se il vitellino gli si strusciava contro. Non c’era cane che non abbracciasse e papere, pulcini e soprattutto cavalli che non lo incantassero. Ma li voleva vedere tutti liberi.
Poi c’era stata la fase dello zoo e lì era stata dura fargli capire che non potevamo aprire le gabbie e dài a raccontargli la pietosa bugia che le giraffe, gli orsi, gli elefanti e anche le tigri e i leoni stavano da noi solo qualche mese per farsi conoscere e poi sarebbero stati riportati a casa loro e lasciati nuovamente in libertà.
In una delle visite allo zoo un giorno scoprì i cuccioli di elefante e il suo antico amore diventò passione. Lo raccontava al signore dei tappeti che veniva dall’altra parte del Mediterraneo ed era eccitato quando gli diceva che aveva visto l’elefantino stare sotto la pancia della mamma e camminare con lei.
il signore tunisino (o marocchino) se lo teneva sulle ginocchia e gli sorrideva tanto. Ogni tanto lo accarezzava e gli diceva qualcosa e il bambino parlava, parlava e la cosa andava avanti per una ventina di minuti e poi si salutavano.
Un giorno questo signore mi chiese se gli compravo un tappeto, magari quello con gli elefanti che piaceva tanto al bambino. Io non so perché, forse semplicemente perché allora non mi interessavano i tappeti, dissi di no. Lui non era invadente, rispose solo “va bene”.
Tutti i giorni che passavamo di lì, almeno due o tre volte alla settimana, lui regalava al bambino un braccialino sottile, oppure un gingillo di quelli ammonticchiati nella cianfrusaglia e non voleva mai essere pagato.

Un giorno Alessandro, mentre era accovacciato accanto a lui gli prese la shishyà, se la mise in testa e cominciarono a ridere felici tutti e due, MA IN QUEL MOMENTO PASSÒ UNA PERSONA che ci conosceva e che TROVÒ RIPROVEVOLE che io facessi stare il bambino in tale intimità con un “tappetaro” immigrato.
Io sono una delle persone più buone al mondo, lo ripeto sempre e ne sono convinta, solo mio figlio lo nega, ma i figli, anche questo dico sempre, su queste cose non fanno testo! Ma anche se sono una delle persone più buone sulla faccia della terra, qualche volta il mio alter ego incatenato rompe le catene e viene fuori. Butta giù con una gomitata la mia parte buona, esprime tutto se stesso e poi rientra e si fa chiudere di nuovo a chiave, ma solo a missione compiuta.
Così, in quel momento, il mio alter ego ruppe le catene e spiegò a quella persona che lei era al di sotto del livello minimo raggiungibile da un umanoide decerebrato e che il suo aspetto fisico ne era la prova, quindi non poteva apprezzare ciò che era lontano mille miglia dal suo cervello non ancora evoluto e sostituito dalla parte bassa del suo intestino, e poi aggiunsi qualcos’altro che non ricordo più invitandola a non avvicinarsi mai più a nessuno di noi.
Fin qui niente di strano, solo che a quel punto, il bambino che amava tanto gli animali e in modo particolare, in quel periodo, gli elefanti, mi guardò con uno sguardo diverso dal solito e mi disse: MAMMA, COMPRIAMO IL TAPPETO!

Già, compriamo il tappeto!
Aveva poco più di 3 anni, ma tutti credevano ne avesse almeno 7. Era nato gigante e quando aveva pochi mesi suo padre scherzando diceva che mi somigliava perché eravamo già alti uguali.
In quel momento non aveva 3 anni Alessandro, e neanche 7. In quel momento mio figlio era un bambino adulto.
Aveva capito perfettamente che quella mondezza umana aveva offeso il suo amico tunisino, o forse marocchino, quello con cui parlava degli animali della giungla e del paese lontano da cui venivano i tappeti.
Aveva capito che anche il suo amico aveva capito perché la sua espressione si era fatta più malinconica e ci guardava come a dire “ed ora?” Allora il bambino che non chiedeva mai niente chiese di comprare il tappeto. Non c’era bisogno di parole e poi era così piccolo che forse non avrebbe trovato quelle giuste per spiegare, come quando risolveva le proporzioni ai miei studenti di 5a superiore e quando questi gli chiedevano “come hai fatto” lui rispondeva solo “è così, è facile, no?”
“Sì, signor Ahmad” (o Hamad, la “h” in arabo non ho ancora imparato a pronunciarla e trent’anni fa non riuscivo neanche a sentirla) “allora il bambino vuole proprio il tappeto con gli elefantini, però 90 mila lire mi pare un po’ troppo”. E il signor Ahmad (o Hamad) mi disse “no, non voglio 90 mila lire, quello è il prezzo per gli altri” e io “Va bene, grazie, allora facciamo 70?” Ma Ahmad mi disse no.
Alessandro mi guardava. Io dissi “mi dica lei il prezzo, lo prendiamo comunque”. Ahmad non mi rispose ma disse al bambino “di’ a tua mamma che voglio 30 e quando divento ricco ti regalo uno più grande di questo”.
Allora cominciò la trattativa. “No signor Ahmad, facciamo 50, perché 30 è troppo poco” e Alessandro rideva e accarezzava gli elefantini del suo tappeto. Era la vendetta contro la razzista e al tempo stesso il regalo che desiderava. Ma Ahmad aveva deciso che andava bene 30 e basta, e alla fine vinse lui.
Sono passati circa trent’anni da allora. Il tappeto è stato nella stanza di Ale fino a che non ha lasciato la casa di Roma, ormai 12 anni fa, poi è stato nella casa in campagna che ora è passata ad altri proprietari e adesso è con me nella mia casa di Milano.
Ho chiesto a mio figlio se si ricordava del signore tunisino ma no, si ricorda bene del tappeto ma del signore tunisino ha solo una vaghissima reminiscenza. Però, quando gli ho raccontato tutta la storia e sono arrivata all’episodio della razzista da strapazzo lui ha ghignato e ha detto “ti immagino mentre la tua faccia virava in pitbull e la schiacciavi con quattro frasi a scimitarra”.
Ah ah ah, lui dice sempre che sotto la pelle di gentile signora si nasconde il pitbull, ma non è del tutto vero, i figli esagerano sempre.

***

Perché ho raccontato questa storia? Beh, prima di tutto perché amo raccontare e poi, ma solo poi, per dire che non si educano i bambini con le chiacchiere e le sciocchezze del tipo siamo tutti uguali. Che poi non è vero, non siamo tutti uguali, e neanche serve dirlo. L’unica forma di diversità alla quale non si può concedere asilo è quella dell’ignoranza razzista che spesso, anche se non sempre, fa rima con fascista.
Chissà dove sarà ora il signor Ahmad!
Dopo circa un anno dall’acquisto del tappeto non lo abbiamo più visto.
Forse è diventato “un po’ ricco – come diceva Alessandro quando non lo vedevamo più – ed è tornato nella sua terra a giocare con i suoi nipotini”. O forse il razzismo crescente lo avrà costretto ad andare altrove. Ma ormai avrebbe circa 90 anni e magari sarà sepolto da qualche parte.

A me è rimasto il tappeto e il ricordo dell’uomo dolce che faceva il “TAPPETARO” CON DIGNITA’ e manteneva l’animo gentile nonostante il disprezzo di qualche esemplare di feccia umana.
A mio figlio, sentendo il racconto, è rimasta la convinzione che in sua madre alberga un pitbull, dormiente e silenzioso ma pronto a venir fuori di fronte alla minima manifestazione di razzismo o di qualunque infamia.
E va bene così.
C’era una volta un uomo… al quale proprio oggi mi va di dire: grazie signor Ahmad, questo racconto è per te. Spero che tu stia bene ovunque ti trovi!

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