domenica 16 aprile 2023

Il nostro disturbo da accumulo - Annamaria Manzoni

 

Ci sono realtà che ignoriamo totalmente fino a quando non ci vengono letteralmente portate in casa dai media, e a quel punto ci lasciano interdetti. È successo ancora in questi giorni, quando a Foggia un uomo scomparso da mesi è stato ritrovato cadavere in casa propria, sommerso da una cumulo inimmaginabile di oggetti, cose, spazzatura.

In breve: il signore in questione, un omone grande e grosso, non più giovane, che viveva da solo e deambulava con l’aiuto di stampelle, non si era più visto in circolazione. I vicini di casa, che avevano potuto guardare nel suo appartamento, si erano trovati davanti alla scena sconcertante di oggetti, cibo e rifiuti di ogni tipo, che congestionavano ogni spazio disponibile. L’evidentissimo degrado, la sporcizia, gli odori, sommandosi alla forte preoccupazione per la scomparsa dell’uomo, li avevano dapprima indotti a chiedere l’intervento delle autorità locali, amministrative e sanitarie, che si erano limitate a un sopralluogo e niente più. Si erano quindi rivolti alla trasmissione Chi l’ha visto, che, la sera stessa della messa in onda dei filmati nell’abitazione, aveva compiuto il miracolo di fare materializzare sul luogo i responsabili locali. A distanza di poche settimane, l’attuazione dello sgombero aveva portato al temuto, ma prevedibile ritrovamento del cadavere dell’uomo sotto gli strati di “cose”.

Superfluo qualsiasi discorso su quali siano le leve che hanno il potere magico di risvegliare ai loro compiti sonnolenti poteri pubblici, perché sono scandalosamente evidenti. Interessante invece mettere a fuoco quella forma di malessere diffuso, ma poco conosciuto, che può comportare risvolti o epiloghi tragici come quello descritto. Si, perché non si tratta affatto di un caso isolato: e tra i tanti vanta (si fa per dire) il caso divenuto famoso dei fratelli Collyer, Homer Lusk e Langley, che nel 1947 furono letteralmente dissepolti, ormai cadaveri, da oltre 140 tonnellate di cose e spazzatura che riempivano fino al soffitto i tre piani dello stabile nella Fifth Avenue a New York, in cui vivevano asseragliati da oltre 10 anni. Anche in quel caso, proprio come in quello di Foggia, fu un vicino ad allertare la polizia, spinto dall’odore insopportabile proveniente dall’appartamento.

Quello di cui si sta parlando è il Disturbo da Accumulo, precedentemente noto come Disposofobia, vale a dire, nel suo significato letterale, paura di buttarema anche Sindrome fratelli Collyer, in omaggio al poco apprezzabile precedente: una patologia che dal 20131 è stata riconosciuta come a sé stante, riferita alla sfera dei Disturbi ossessivo-compulsiviche riguarda fette non indifferenti di popolazione in ogni parte del mondo, Italia inclusa, dove le percentuali di persone che ne sono affette vengono stimate tra il 2 e il 5%, molto più ampie quindi di quanto si tenderebbe a pensare.

Vale la pena chiarire che, quando si parla di ossessioni ci si riferisce a pensieri, immagini, impulsi ricorrenti, fastidiosi, indesiderati; mentre le compulsioni sono la conseguente risposta a cui non ci si può sottrarre. Per rendere tutto più comprensibile, si può pensare a un’ossessione piuttosto diffusa, come è quella alla pulizia, che può originare comportamenti compulsivi quali il lavarsi le mani fino al punto da provocarsi escoriazioni o da invadere molte ore nel corso della giornata. È appunto a questa categoria che è correlato il Disturbo da Accumulo: chi ne è affetto subisce una compulsione irrefrenabile a conservare ogni cosa e anzi ad acquisirne sempre altre. Si può trattare di vestiti, giornali, oggetti di ogni tipo, cibi, ma anche spazzatura, che non viene gettata via, ma può anche essere raccolta in discarica per essere portata a casa. Qualsiasi spazio vitale è invaso, non solo eventuali soffitte, cantine o box, ma ogni locale dell’abitazione, cucina, bagno, camera da letto, dove tutto viene impilato, rendendo inservibile il letto dove non si può più dormire, il bagno che non è più utilizzabile al suo scopo, il tavolo su cui non resta un centimetro quadrato su cui appoggiare alcunché. Solo stretti cunicoli larghi al massimo 30 centimetri, sentieri da capra secondo suggestive definizioni di studiosi della materia, consentono il passaggio da un punto all’altro della casa.

Ovviamente nulla di quanto accumulato può, in tali condizioni, rivestire un’utilità, perché anzi contribuisce a creare un ambiente invivibile, soffocante, fortemente malsano, iatrogeno, dalle conseguenze anche psicologiche devastanti. Si sta parlando per l’appunto di una condizione patologica, di un disturbo mentale che vede i protagonisti distaccarsi in modo progressivo e pericoloso da forme elementari di adattamento, tanto da non percepire l’insensatezza del proprio comportamento. Spesso vivono da soli ed evitano di fare entrare altri nel loro mondo, temendone il giudizio fortemente critico; nei casi in cui la casa sia condivisa con familiari è inevitabile un conflitto che può assumere dimensioni drammatiche. È stata ancora la trasmissione Chi l’ha visto ad entrare nella casa sommersa di giornali e oggetti di qualsivoglia genere di un signore, in provincia di Pavia, che aveva segnalato la scomparsa della moglie, ritrovata morta mesi dopo: le notizie diffuse hanno fatto riferimento a un suicidio, a cui appunto l’intollerabilità delle condizioni di vita pare non siano state estranee. Anche in questo caso l’intervento di “esterni” è stato casuale, non in risposta a una richiesta di aiuto dell’interessato, che considerava sensato ciò che gli altri giudicavano insostenibile: come tutti gli accumulatori non aveva cercato aiuto ritenendo non ce ne fosse la necessità; che la sua casa fosse chiusa agli estranei era poi una conseguenza inevitabile, uno sbarramento difensivo rispetto agli inevitabili giudizi e critiche, vissute come dettate da inimicizia.

Ma cosa può spingere le persone a comportamenti tanto irrazionali e autolesionisti? Dato il fatto che spesso si sottraggano a trattamenti e prese in carico, e quindi in assenza di report precisi, l’inquadramento nosografico è ancora in parte da sviscerare.

In ogni caso le spiegazioni addotte dai diretti interessanti aprono dei varchi di comprensione: il tengo tutto (azzeccatissimo titolo della versione italiana del libro di Frost e Steketee2) si connette all’idea che, chissà, magari questa cosa un giorno mi potrebbe servire: si parla appunto di cose nonsisamai. E alzi la mano chi di noi “sani di mente” (quante virgolette sono necessarie per sdoganare il concetto!) non ha usato, qualche volta o spesso, questa categoria per mettere da parte qualcosa, magari di perfettamente inutile, che, il giorno fatidico in cui il bisogno si è poi inopinatamente presentato, non è neppure andato a cercare perché ne aveva scordato persino l’esistenza, o, nella migliore delle ipotesi, non ricordava proprio dove era stato messo. Insomma una sorta di pulsione a conservare, a non buttare, perché tenere tutto fa sentire al sicuro, specularmente alla sensazione di angoscia che provoca il disfarsene.

Un’altra giustificazione addotta è riferita al valore affettivo dell’oggetto, perché è appartenuto a, o è semplicemente connesso al ricordo di, qualcuno di importante: insomma gli si attribuisce il potere magico di mantenere una presenza, di opporsi al suo svanire mentre il buttare via corrisponderebbe a una forma di disprezzo, di menefreghismo, foriero di sensi di colpa. E anche in questo caso è una scommessa vinta ritenere che siamo in tanti, forse tantissimi, a riconoscerci in questa dinamica che affida ad un gesto magico la sopravvivenza di un legame o di una situazione, ammantati di sacralità, da preservare dalle nebbie dell’oblio.

O ancora un giornale, un libro assicurano la conservazione di una memoria che non si sopporta possa andare perduta e affidarla alla propria mente è un azzardo da non compiere. Sono spiegazioni che testimoniano di un attaccamento a brandelli della propria storia carichi di nostalgia, di desiderio, di impotenza che possono smuovere a reazioni emotive che parlano anche di noi, di tutti. Perché normalità e patologia a volte si sfiorano, si toccano, si confondono e abbattono i muri fittizi che, ancora una volta, sono stati eretti tra noi e loro, tra quelli sani e quelli che hanno lo stigma della malattia mentale.

Ovviamente e inevitabilmente c’è anche molto altro: perché è vero che è possibile comprendere la dinamica per cui gli accumulatori attribuiscono ad ogni singolo oggetto un forte valore identitario e sono quindi invasi dall’angoscia alla prospettiva di separarsene; è vero che l’essere può essere confuso con l’avere e questo con l’accumulare; è vero che il passaggio tra il possedere cose e l’esserne posseduto è tutt’altro che difficile. Ma quando il possesso riguarda un avanzo di cibo, un po’ di spazzatura, qualcosa che nemmeno ha fatto parte della propria vita, ma è semplicemente stato raccattato per strada e costituisce un elemento di enorme progressivo pericolo, diventa inevitabile interrogare le competenze psichiatriche.

Gli studi sono tuttora in corso e portano a identificare alcune caratteristiche che sarebbero comuni agli accumulatori compulsivi: tra queste l’insicurezza come tratto temperamentale, che tutti i rituali dell’accumulo cercano di tenere a bada. Di sicuro è rilevabile la mancanza di insight, vale a dire di consapevolezza: è proprio questa assenza ad impedire di cogliere la gravità della situazione e a vivere come attacchi alla propria identità gli interventi esterni tesi a rimarcarne la pericolosità igienica, esistenziale, psicologica dei comportamenti. Anche l’empatia è carente perché la difficoltà a vedere la realtà dal punto di vista dell’altro è fortemente compromessa. Tutto questo non basta ancora a dare ragione del disturbo, nella cui eziologia si possono ritrovare lesioni cerebrali, cause genetiche, neurofisiologiche, aggravate da esperienze esistenziali forse segnate da traumi o abusi.

Non è da trascurare il fatto che l’accumulo seriale possa avere come oggetti anche animali, soprattutto ma non solo cani e gatti: si parla in questi casi di Animal hoarding, o più semplicemente di Disturbo dell’Arca di Noè. La situazione per alcuni versi simile a quella dell’accumulo di oggetti, si aggrava enormemente perché se le cose restano lì, gli animali richiedono invece di essere accuditi, nutriti, curati: le caratteristiche degli accumulatori non lo permettono e la situazione si aggrava con nuove vittime: dell’incuria, del degrado, del maltrattamento non intenzionale, ma reale. Perché gli animali non possono fare altro che ammalarsi, soffrire infezioni, non poter contare su cure adeguate; sono costretti a vivere in spazi angusti, privati della possibilità di movimento, di esprimere le esigenze tipiche della propria specie. La mancanza di insight ed empatia, di cui si è parlato, la fa da padrona: i responsabili si considerano amanti e salvatori di quegli animali, sono incapaci di rendersi conto della insensatezza della vita a cui li sottopongono e spesso ne provocano, pur se non intenzionalmente, la morte.

Insomma, si tratta di disturbi ben poco conosciuti, anche se divenuti argomento di trasmissioni su canali quali Real Time; riguardano sia uomini che donne, e possono investire ogni classe sociale.

Come tanti, tantissimi fenomeni con cui conviviamo senza saperne nulla, il riconoscimento e la conoscenza sono passi iniziali fondamentali per non derubricare l’incomprensibile a fenomeno da guardare con disprezzo. Si è a volte davanti ad esistenze disperate per il grado di sofferenza che comportano e per la prevedibile esclusione sociale: la solitudine affettiva e sociale, solitudine che è condizione umana tra le più dolorose, non può che aggravare uno stato di cose drammatico.

Riportano i giornali che tra gli accumulatori seriali va annoverato Andy Wharol, genio della pop art, che avrebbe messo da parte 500.000 cose raccolte in contenitori chiamati Capsule del tempo. Una malattia mentale, quindi, che può convivere con quella che è ritenuta una genialità fuori dal comune; una malattia mentale che, quando affligge personaggi di primo piano allora non provoca riprovazione; e che sostituendo con le capsule del tempo gli spazi infrequentabili delle case dei comuni mortali nobilita un accumulo compulsivo nel sogno matto di ingabbiare il tempo.


1 Anno in cui fu inserito come disturbo a sé stante nel DSM-5, Manuale dei Disturbi Mentali, edito in Italia da Raffaello Cortina Editore

2 L’edizione originale aveva come titolo Compulsive hoarding and the meaning of things, by Randy O. Frost e Gail Steketee, 2011 Mariner Books

da qui

Nessun commento:

Posta un commento