Ci sono realtà che ignoriamo totalmente fino a quando non ci vengono letteralmente portate in casa dai media, e a quel punto ci lasciano interdetti. È successo ancora in questi giorni, quando a Foggia un uomo scomparso da mesi è stato ritrovato cadavere in casa propria, sommerso da una cumulo inimmaginabile di oggetti, cose, spazzatura.
In breve: il signore in questione, un omone grande e grosso, non
più giovane, che viveva da solo e deambulava con l’aiuto di stampelle, non si
era più visto in circolazione. I vicini di casa, che avevano potuto guardare
nel suo appartamento, si erano trovati davanti alla scena sconcertante di
oggetti, cibo e rifiuti di ogni tipo, che congestionavano ogni spazio
disponibile. L’evidentissimo degrado, la sporcizia, gli odori, sommandosi alla
forte preoccupazione per la scomparsa dell’uomo, li avevano dapprima indotti a
chiedere l’intervento delle autorità locali, amministrative e sanitarie, che si
erano limitate a un sopralluogo e niente più. Si erano quindi rivolti alla
trasmissione Chi l’ha visto, che, la sera stessa della messa in
onda dei filmati nell’abitazione, aveva compiuto il miracolo di fare
materializzare sul luogo i responsabili locali. A distanza di poche
settimane, l’attuazione dello sgombero aveva portato al temuto, ma prevedibile
ritrovamento del cadavere dell’uomo sotto gli strati di “cose”.
Superfluo qualsiasi discorso su quali siano le leve che hanno il potere
magico di risvegliare ai loro compiti sonnolenti poteri pubblici, perché sono
scandalosamente evidenti. Interessante invece mettere a fuoco quella forma di
malessere diffuso, ma poco conosciuto, che può comportare risvolti o epiloghi
tragici come quello descritto. Si, perché non si tratta affatto di un
caso isolato: e tra i tanti vanta (si fa per dire) il caso divenuto famoso
dei fratelli Collyer, Homer Lusk e Langley, che nel 1947 furono letteralmente
dissepolti, ormai cadaveri, da oltre 140 tonnellate di cose e spazzatura che
riempivano fino al soffitto i tre piani dello stabile nella Fifth Avenue a New
York, in cui vivevano asseragliati da oltre 10 anni. Anche in quel caso,
proprio come in quello di Foggia, fu un vicino ad allertare la polizia, spinto
dall’odore insopportabile proveniente dall’appartamento.
Quello di cui si sta parlando è il Disturbo da Accumulo, precedentemente
noto come Disposofobia, vale a dire, nel suo significato
letterale, paura di buttare; ma anche Sindrome
fratelli Collyer, in omaggio al poco apprezzabile precedente: una
patologia che dal 20131 è stata riconosciuta come a sé stante, riferita
alla sfera dei Disturbi ossessivo-compulsivi, che riguarda
fette non indifferenti di popolazione in ogni parte del mondo, Italia
inclusa, dove le percentuali di persone che ne sono affette vengono stimate tra
il 2 e il 5%, molto più ampie quindi di quanto si tenderebbe a pensare.
Vale la pena chiarire che, quando si parla di ossessioni ci si
riferisce a pensieri, immagini, impulsi ricorrenti, fastidiosi, indesiderati;
mentre le compulsioni sono la conseguente risposta a cui non
ci si può sottrarre. Per rendere tutto più comprensibile, si può pensare a un’ossessione piuttosto
diffusa, come è quella alla pulizia, che può originare comportamenti compulsivi quali
il lavarsi le mani fino al punto da provocarsi escoriazioni o da invadere molte
ore nel corso della giornata. È appunto a questa categoria che è correlato
il Disturbo da Accumulo: chi ne è affetto subisce una
compulsione irrefrenabile a conservare ogni cosa e anzi ad acquisirne sempre altre.
Si può trattare di vestiti, giornali, oggetti di ogni tipo, cibi, ma anche
spazzatura, che non viene gettata via, ma può anche essere raccolta in
discarica per essere portata a casa. Qualsiasi spazio vitale è invaso, non solo
eventuali soffitte, cantine o box, ma ogni locale dell’abitazione, cucina,
bagno, camera da letto, dove tutto viene impilato, rendendo inservibile il
letto dove non si può più dormire, il bagno che non è più utilizzabile al suo
scopo, il tavolo su cui non resta un centimetro quadrato su cui appoggiare
alcunché. Solo stretti cunicoli larghi al massimo 30 centimetri, sentieri
da capra secondo suggestive definizioni di studiosi della materia,
consentono il passaggio da un punto all’altro della casa.
Ovviamente nulla di quanto accumulato può, in tali condizioni, rivestire
un’utilità, perché anzi contribuisce a creare un ambiente invivibile,
soffocante, fortemente malsano, iatrogeno, dalle conseguenze anche psicologiche
devastanti. Si sta parlando per l’appunto di una condizione patologica, di un
disturbo mentale che vede i protagonisti distaccarsi in modo progressivo e
pericoloso da forme elementari di adattamento, tanto da non percepire
l’insensatezza del proprio comportamento. Spesso vivono da soli ed evitano di
fare entrare altri nel loro mondo, temendone il giudizio fortemente critico;
nei casi in cui la casa sia condivisa con familiari è inevitabile un conflitto
che può assumere dimensioni drammatiche. È stata ancora la trasmissione Chi
l’ha visto ad entrare nella casa sommersa di giornali e oggetti di
qualsivoglia genere di un signore, in provincia di Pavia, che aveva
segnalato la scomparsa della moglie, ritrovata morta mesi dopo: le notizie
diffuse hanno fatto riferimento a un suicidio, a cui appunto l’intollerabilità
delle condizioni di vita pare non siano state estranee. Anche in questo caso
l’intervento di “esterni” è stato casuale, non in risposta a una richiesta di
aiuto dell’interessato, che considerava sensato ciò che gli altri giudicavano
insostenibile: come tutti gli accumulatori non aveva cercato aiuto
ritenendo non ce ne fosse la necessità; che la sua casa fosse chiusa agli
estranei era poi una conseguenza inevitabile, uno sbarramento difensivo
rispetto agli inevitabili giudizi e critiche, vissute come dettate da
inimicizia.
Ma cosa può spingere le persone a comportamenti tanto irrazionali e
autolesionisti? Dato il fatto che spesso si sottraggano a trattamenti e prese
in carico, e quindi in assenza di report precisi, l’inquadramento nosografico è
ancora in parte da sviscerare.
In ogni caso le spiegazioni addotte dai diretti interessanti aprono dei
varchi di comprensione: il tengo tutto (azzeccatissimo titolo
della versione italiana del libro di Frost e Steketee2) si connette all’idea che, chissà, magari questa cosa
un giorno mi potrebbe servire: si parla appunto di cose nonsisamai.
E alzi la mano chi di noi “sani di mente” (quante virgolette sono necessarie
per sdoganare il concetto!) non ha usato, qualche volta o spesso, questa
categoria per mettere da parte qualcosa, magari di perfettamente inutile, che,
il giorno fatidico in cui il bisogno si è poi inopinatamente
presentato, non è neppure andato a cercare perché ne aveva scordato persino
l’esistenza, o, nella migliore delle ipotesi, non ricordava proprio dove era
stato messo. Insomma una sorta di pulsione a conservare, a non buttare,
perché tenere tutto fa sentire al sicuro, specularmente alla
sensazione di angoscia che provoca il disfarsene.
Un’altra giustificazione addotta è riferita al valore affettivo
dell’oggetto, perché è appartenuto a, o è semplicemente connesso al ricordo
di, qualcuno di importante: insomma gli si attribuisce il potere magico
di mantenere una presenza, di opporsi al suo svanire mentre il buttare via
corrisponderebbe a una forma di disprezzo, di menefreghismo, foriero di sensi
di colpa. E anche in questo caso è una scommessa vinta ritenere che siamo in
tanti, forse tantissimi, a riconoscerci in questa dinamica che affida ad un
gesto magico la sopravvivenza di un legame o di una situazione, ammantati di
sacralità, da preservare dalle nebbie dell’oblio.
O ancora un giornale, un libro assicurano la conservazione
di una memoria che non si sopporta possa andare perduta e affidarla alla
propria mente è un azzardo da non compiere. Sono spiegazioni che testimoniano
di un attaccamento a brandelli della propria storia carichi di nostalgia, di
desiderio, di impotenza che possono smuovere a reazioni emotive che parlano
anche di noi, di tutti. Perché normalità e patologia a volte si
sfiorano, si toccano, si confondono e abbattono i muri fittizi che, ancora
una volta, sono stati eretti tra noi e loro, tra quelli sani e quelli che hanno
lo stigma della malattia mentale.
Ovviamente e inevitabilmente c’è anche molto altro: perché è vero che è
possibile comprendere la dinamica per cui gli accumulatori attribuiscono ad
ogni singolo oggetto un forte valore identitario e sono quindi invasi
dall’angoscia alla prospettiva di separarsene; è vero che l’essere può
essere confuso con l’avere e questo con l’accumulare; è vero che il
passaggio tra il possedere cose e l’esserne posseduto è tutt’altro che
difficile. Ma quando il possesso riguarda un avanzo di cibo, un po’ di
spazzatura, qualcosa che nemmeno ha fatto parte della propria vita, ma è
semplicemente stato raccattato per strada e costituisce un elemento di enorme
progressivo pericolo, diventa inevitabile interrogare le competenze
psichiatriche.
Gli studi sono tuttora in corso e portano a identificare alcune
caratteristiche che sarebbero comuni agli accumulatori compulsivi: tra queste
l’insicurezza come tratto temperamentale, che tutti i
rituali dell’accumulo cercano di tenere a bada. Di sicuro è rilevabile la mancanza
di insight, vale a dire di consapevolezza: è proprio questa
assenza ad impedire di cogliere la gravità della situazione e a vivere come
attacchi alla propria identità gli interventi esterni tesi a rimarcarne la
pericolosità igienica, esistenziale, psicologica dei comportamenti. Anche
l’empatia è carente perché la difficoltà a vedere la realtà dal punto
di vista dell’altro è fortemente compromessa. Tutto questo non basta ancora a
dare ragione del disturbo, nella cui eziologia si possono ritrovare lesioni
cerebrali, cause genetiche, neurofisiologiche, aggravate da esperienze
esistenziali forse segnate da traumi o abusi.
Non è da trascurare il fatto che l’accumulo seriale possa avere come
oggetti anche animali, soprattutto ma non solo cani e gatti: si parla in questi
casi di Animal hoarding, o più semplicemente di Disturbo
dell’Arca di Noè. La situazione per alcuni versi simile a quella
dell’accumulo di oggetti, si aggrava enormemente perché se le cose restano lì,
gli animali richiedono invece di essere accuditi, nutriti, curati: le caratteristiche
degli accumulatori non lo permettono e la situazione si aggrava con nuove
vittime: dell’incuria, del degrado, del maltrattamento non intenzionale, ma
reale. Perché gli animali non possono fare altro che ammalarsi, soffrire
infezioni, non poter contare su cure adeguate; sono costretti a vivere in spazi
angusti, privati della possibilità di movimento, di esprimere le esigenze
tipiche della propria specie. La mancanza di insight ed empatia, di cui si è
parlato, la fa da padrona: i responsabili si considerano amanti e salvatori di
quegli animali, sono incapaci di rendersi conto della insensatezza della vita a
cui li sottopongono e spesso ne provocano, pur se non intenzionalmente, la
morte.
Insomma, si tratta di disturbi ben poco conosciuti, anche se
divenuti argomento di trasmissioni su canali quali Real Time; riguardano sia
uomini che donne, e possono investire ogni classe sociale.
Come tanti, tantissimi fenomeni con cui conviviamo senza saperne nulla, il
riconoscimento e la conoscenza sono passi iniziali fondamentali per non
derubricare l’incomprensibile a fenomeno da guardare con disprezzo. Si è a
volte davanti ad esistenze disperate per il grado di sofferenza che comportano
e per la prevedibile esclusione sociale: la solitudine affettiva e
sociale, solitudine che è condizione umana tra le più
dolorose, non può che aggravare uno stato di cose drammatico.
Riportano i giornali che tra gli accumulatori seriali va annoverato Andy
Wharol, genio della pop art, che avrebbe messo da parte 500.000 cose raccolte
in contenitori chiamati Capsule del tempo. Una malattia mentale,
quindi, che può convivere con quella che è ritenuta una genialità fuori dal
comune; una malattia mentale che, quando affligge personaggi di primo piano
allora non provoca riprovazione; e che sostituendo con le capsule del
tempo gli spazi infrequentabili delle case dei comuni mortali nobilita
un accumulo compulsivo nel sogno matto di ingabbiare il tempo.
1 Anno in cui fu inserito come disturbo a sé stante nel DSM-5, Manuale
dei Disturbi Mentali, edito in Italia da Raffaello Cortina Editore
2 L’edizione originale aveva come titolo Compulsive hoarding
and the meaning of things, by Randy O. Frost e Gail Steketee, 2011 Mariner
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