Non sappiamo come siano andate le cose e neanche c’interessa saperlo,
almeno in questo momento. Attendiamo l’evoluzione delle indagini e che ogni
tassello della vicenda vada al suo posto. Non ci azzardano a compiere
ricostruzioni affrettate e, meno che mai, ci lasciamo andare a giudizi impropri
e irrispettosi. La tragedia di Julia Ituma, la giovanissima pallavolista della
Igor Novara che se n’è andata qualche giorno fa, precipitando dal sesto piano
dell’albergo in cui soggiornava con la squadra a Istanbul, ci ha lasciato senza
parole. Anche per questo, per qualche giorno, abbiamo preferito rimanere in
silenzio.
Abbiamo preferito aspettare, anche perché non sapevamo rispondere ad alcuna
domanda, non avevamo chiaro cosa fosse avvenuto e, a dire il vero, non abbiamo
certezze nemmeno ora che abbiamo deciso di affrontare l’argomento. La triste
realtà è che non sappiamo nulla, tanta è la tragicità di questa vicenda. E
allora possiamo fare una sola cosa: immaginare. Immaginiamo la fragilità, il
dolore, la sofferenza di questa ragazza e ci guardiamo bene dal giudicarla.
Immaginiamo il suo sentirsi piccola pur essendo diventata grande, applaudita,
potremmo dire famosa. Immaginiamo il suo tormento interiore e non diciamo
altro, proprio perché ogni parola può essere una pietra e noi non abbiamo
alcuna intenzione di scagliare massi contro una vita che non c’è più, contro la
normalità stravolta della sua famiglia, delle sue amiche e delle sue compagne
di squadra.
Si pensava che Julia potesse essere l’erede di Paola Egonu, ma ormai questa
considerazione non ha alcun valore. E anche solo dirlo, anche solo
preoccuparcene, anche solo volerla classificare in qualche modo costituisce una
mancanza di rispetto. Ciò su cui sarebbe opportuno riflettere, di fronte a
questa storia che non consente di giungere ad alcuna conclusione, è invece
quanta apparenza, quanta violenza sotterranea, quanta ingiustizia e quanta
fragilità ci sianonella nostra società. E chi irride ragazze e ragazzi che
chiedono aiuto, chi si scaglia contro la presenza dello psicologo a scuola, chi
continua a esaltare un modello di crescita e di sviluppo dissennato, chi non si
ferma davanti a niente e a nessuno, chi punta il dito contro le denunce di
questa generazione, sottoposta a uno stress senza precedenti, almeno dal
dopoguerra, tutte queste persone non meritano la benché minima considerazione.
Compiono, infatti, inutili provocazioni che qualificano chi se ne rende
protagonista.
Tornando a Julia, noi non possiamo fare altro che inchinarci di fronte alla
sua storia, manifestare solidarietà e affetto ai suoi cari e augurarci di non
dover mai più scrivere un articolo del genere. Ci auguriamo che lo sport possa
essere un antidoto alla debolezza e al senso di frustrazione e di sconfitta che
pervade tanti, troppi ragazzi e ragazze. Speriamo che l’agonismo non prevalga
mai sulla dignità umana e sul doveroso rispetto per il prossimo. E ci affidiamo
al silenzio, alle lacrime, alla dolcezza, alla comprensione e alla totale
sospensione di ogni giudizio. Non spetta a noi, non ne abbiamo alcun titolo e,
sinceramente, per quanto ci interessi sapere come siano andate effettivamente
le cose, crediamo che in questo caso anche parlare di verità sia un po’
forzato.
L’unica verità è che abbiamo perso una ragazza splendida, prim’ancora che
una campionessa: forse perché non abbiamo saputo ascoltarla, capirla, starle
vicini quando ne avrebbe avuto bisogno. Ci siamo fermati in superficie, come
troppo spesso ci accade, in questa società in cui non c’è alcuna attenzione nei
confronti degli ultimi, di chi rimane indietro, dello strazio e della
sofferenza altrui. Abbiamo costruito un paradigma per cui un atleta, maschio o
femmina che sia, non può permettersi di avere dei cedimenti. Non lo accettiamo,
lo riteniamo indegno. Abbiamo smesso di porre l’essere umano di fronte al
fuoriclasse. Abbiamo introiettato un’idea robotica delle persone e continuiamo
a riempirci la bocca di termini come “competizione” e “merito”. Poi accade
l’irreparabile e ci scopriamo nudi, senza tuttavia rinunciare a dire la nostra,
a sparare il titolo a effetto in prima pagina, a pubblicare il commento pensoso
e fuori luogo.
Cara Julia, noi di parole crediamo di averne spese fin troppe. Possiamo
solo salutarti con un commosso addio.
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