Una popolazione che si riduce numericamente e invecchia rapidamente: questa è la fotografia demografica del nostro paese. Essa segnala come si sia innescato un processo che, se non adeguatamente contrastato, rischia di diventare irreversibile, perché una popolazione ad alta e crescente incidenza di anziani inevitabilmente assottiglia sempre più la quota di coloro che invece sono in età riproduttiva.
La bassa
natalità contemporanea, nettamente sopravanzata dalla mortalità, infatti, non è
solo l’esito della pur bassissima fecondità corrente. È anche l’esito della
riduzione della fecondità operata dalle generazioni oggi nelle età di mezzo o
anziane, la cui durata della vita invece è in aumento, in particolare tra gli
uomini. Di quella fotografia demografica, in effetti, l’aspetto più
preoccupante non è la riduzione della numerosità della popolazione, che anzi
potrebbe rallegrare chi ritiene che siamo già troppi a sovraccaricare e
consumare le risorse ambientali e che l’Italia potrebbe trarre giovamento
dall’essere meno densamente popolata. L’aspetto più preoccupante è che questa
riduzione avviene a scapito delle fasce di età più giovani, quelle che
garantiscono il futuro, incluse le pensioni e la sanità per gli anziani. Tra
l’altro è un fenomeno che avviene anche a livello infra-nazionale: le regioni
che perdono popolazione, specie giovane, per bassa fecondità e/o migrazioni
interne sono quelle meridionali, mentre le regioni del Centro e soprattutto del
Nord continuano ad avere un sia pur ridotto saldo positivo, perché attraggono
sia persone da altre regioni, sia gli stranieri.
La parte di
bassa natalità imputabile alla bassa fecondità in Italia non è causata da un
minore desiderio di filiazione da parte dei giovani italiani rispetto ai loro
coetanei di altri paesi. È dovuta alla troppo diffusa incertezza rispetto al
lavoro, a redditi da lavoro spesso troppo bassi e senza ragionevoli garanzie di
continuità, alle difficoltà ad accedere all’abitazione in un mercato della casa
stretto tra l’ipertrofia della proprietà e affitti spesso costosissimi, alla
troppo frequente esperienza di discriminazione sul lavoro, quando non di vero e
proprio mobbing, fatta dalle giovani donne in quanto potenziali madri e dalle
madri quando tornano dal congedo, con il risultato di avere sia uno dei più
bassi tassi di occupazione femminile sia uno dei più bassi tassi di fecondità.
È dovuta alla persistente difficoltà a conciliare le responsabilità e la cura
di un figlio piccolo in un contesto di servizi per la prima infanzia scarsi e
spesso costosi, un tempo pieno scolastico non sempre disponibile e di buona
qualità. Sostenere le scelte positive di fecondità implica impegnarsi in
politiche integrate e continuative che consentano ai giovani di poter pensare
con ragionevole fiducia al futuro e creino contesti accoglienti sia per chi
nasce e cresce, sia per chi mette al mondo.
I confronti
internazionali mostrano che in Europa i tassi di fecondità più alti (anche se
per lo più al di sotto del livello di riproduzione), perciò anche un minore
squilibrio tra le varie fasce di età, si trovano nei paesi che offrono maggiori
opportunità ai giovani, che sono meglio dotate di servizi, insieme più
accoglienti per i bambini fin dalla nascita e più amichevoli nei confronti
delle lavoratrici madri. I trasferimenti monetari sono importanti, se
continuativi e di importo significativo, ma meno dei servizi educativi per la
prima infanzia, del sostegno all’uguaglianza di genere, delle politiche di conciliazione.
Stante che
le politiche di sostegno alla fecondità hanno effetti nel medio-lungo periodo,
occorre anche sviluppare politiche dell’immigrazione più accoglienti, che
favoriscano l’integrazione e la stabilizzazione delle famiglie e non
considerino gli immigrati solo come forza lavoro a basso costo e possibilmente
usa e getta. Senza gli immigrati, che sono mediamente giovani, saremmo una
popolazione ancora più vecchia e con minore possibilità di rinnovamento
demografico.
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