Se fosse posta la domanda “Secondo Lei in Italia è ammessa la sanzione della privazione della libertà personale in assenza di commissione o imputazione di un reato?”, probabilmente la stragrande maggioranza degli intervistati negherebbe con determinazione tale circostanza, certa di vivere in un Paese dalle solide radici democratiche.
Se
poi fosse fatto presente il contrario - cioè che nel nostro Paese è invece
possibile il trattenimento in una struttura carceraria a fronte di un mero
illecito amministrativo e che questo (che si chiama “detenzione
amministrativa”) è un trattamento riservato alle persone nate in paesi extra
UE, sorprese senza un valido titolo di soggiorno, ai fini della loro deportazione
al paese di provenienza – ecco che scommettiamo che si stenterebbe a crederlo,
non apparendo verosimile l’esistenza nel nostro ordinamento di una così grave
espressione - quasi anacronistica e tetramente evocativa - di razzismo
istituzionale.
Eppure,
queste clamorose eccezioni all’art. 13 della Costituzione, che tutela
l’inviolabilità della libertà personale, esistono eccome: se ne trovano esempi
nelle c.d. “navi quarantena, negli “hotspot”, nelle “aree sterili” degli
aeroporti internazionali; ma soprattutto tale aberrazione giuridica trova il
suo emblema in quelle fortezze impenetrabili e senza legge che sono i CPR
(Centri di Permanenza per il Rimpatrio), dove il trattenimento viene eseguito
in regime assai simile a quello di massima sicurezza, in sostanziale isolamento
dall’esterno, e fino a 120 giorni, in alcuni casi anche fino ad un anno, per i
richiedenti asilo.
In
Italia ve ne sono dieci (a Milano, Roma, Torino, Gradisca d’Isonzo, Macomer,
Bari, Brindisi, Potenza, Caltanissetta, Trapani) ed in tutti si registrano
sistematicamente quotidiani abusi: così è, costantemente, dall’istituzione, con
la legge Turco-Napolitano nel 1998, di questo istituto, che attraverso varie
denominazioni (le più note: CPT e CIE, prima di CPR) è giunto ai nostri giorni
lasciando nel silenzio una lunga scia di sangue. Sono oltre trenta, ad oggi, i
morti di detenzione amministrativa, per suicidio (l’ultimo, lo scorso 31 agosto
2022 a Gradisca: un pakistano di 28 anni) o per il “classico” non meglio
precisato “arresto cardiaco”: d’altronde, troppo lontana e troppo priva di
mezzi economici - quando esiste e viene avvisata - è per lo più la famiglia,
per poter reclamare giustizia, e spesso anche per poter rivendicare un corpo da
seppellire.
Si
tratta di veri e propri porti franchi dei diritti, in primis quello alla salute; un cono d’ombra sui diritti umani
generato da un vuoto normativo lasciato alla discrezionalità amministrativa, un
campo libero regalato al Ministero dell'Interno e ai Prefetti locali,-cui i CPR
fanno capo, che vi stabiliscono liberamente le proprie regole con circolari,
prassi e regolamenti. Analoga discrezionalità viene rimessa, nella gestione
della quotidianità e nell’applicazione di dette regole, alle forze dell’ordine,
presenti in questi centri in misura anche di 1:1 rispetto ai trattenuti,
armati, che non disdegnano di intervenire nei moduli abitativi in tenuta
antisommossa.
A
differenza infatti di quanto accade nel sistema carcerario, per il quale vige
la legge sull’ordinamento penitenziario sancente una serie di garanzie, mezzi e
figure a tutela della persona reclusa e da questa azionabili, nulla di tutto
questo esiste per i CPR.
A
farne le spese sono circa cinquemila persone transitanti dai CPR ogni anno,
delle quali la metà all’incirca viene in effetti poi rimpatriata (determinante
in questo senso l’esistenza o meno di trattati con il paese di provenienza), ma
che tutte vengono sottoposte a privazione della libertà personale in luoghi
alienanti, ivi tradotti dopo poche ore da quando sono state fermate, spogliate
degli effetti personali e spesso anche private del telefono cellulare. L’unico
contatto con la magistratura (non togata, perché si tratta di semplici giudici
di pace) è dato dalle udienze di convalida: la prima dopo 48 ore e poi una ogni
30 giorni, durano in media cinque minuti, prima dei quali è spesso
impraticabile per i legali (anche quelli di fiducia, per chi è abbastanza
radicato sul territorio da trovarne uno) colloquiare con il proprio assistito,
vista anche l’assenza di servizi di mediazione culturale.
E
se non vi sono leggi, non vi sono diritti: non un magistrato di sorveglianza,
nessuno che controlli, nessuno cui rivolgersi, nessuno (né la stampa, né la
società civile, e neppure i legali) che possa
verificare cosa accada a decine di persone dietro alle sbarre in balia
di un imponente numero di agenti.
Gli
unici, estranei al personale addetto (che pure cerca di limitare gli accessi
allo stretto necessario) a poter fare ingresso nei moduli abitativi senza
autorizzazione e preavviso sono i funzionari dell’UNHCR (i cui report sono
secretati), i Garanti Nazionale e locali dei diritti delle persone private
della libertà personale (cui purtroppo compete anche la funzione di controllo
anche delle carceri, e sono quindi oberati), ed i parlamentari nazionali ed
europei.
La
gestione del centro - e qui una delle principali differenze rispetto
all’ordinamento carcerario - è delegata dalla Prefettura ad imprenditori
privati selezionati attraverso bandi al ribasso (vince chi offre i servizi
previsti, al costo inferiore).
Inevitabilmente, senza alcun controllo, e
senza nessuna possibilità concreta di lamentela da parte dei fruitori, tali
servizi restano solo sulla carta, o quando offerti, ne viene offerta solo una
parvenza, al fine dell’ottimizzazione del margine di profitto da parte del
gestore.
E’
così che risultano in definitiva inesistenti servizi determinanti per la
qualità della vita e per la difesa dei diritti dei trattenuti, oltre che della
loro stessa dignità: mediazione culturale, informazione legale, consulenza con
i servizi sociali, attività ricreative. Ma anche sono ampiamente sotto al
limite della decenza i servizi di pulizia (cui spesso si devono dedicare gli
stessi trattenuti), di somministrazione del cibo e, soprattutto, la cura della
salute.
Perché
è così: anche la cura della salute è totalmente delegata al gestore privato
interno, il cui compenso è corrisposto dalla Prefettura con il criterio pro capite pro die, ovvero con una sorta
di gettone fisso giornaliero moltiplicato per il numero di persone trattenute.
Inevitabili
le conseguenze in questo contesto in cui la sanità pubblica è totalmente
assente (a differenza che nel sistema penitenziario, dove la salute è gestita
dal Ministero della Salute) e in cui lo stesso gestore privato del centro - onerato
della cura a proprie spese della salute delle persone affidategli - guadagna
per quante più persone, e per quanto più tempo, sono trattenute, in qualunque
condizione esse versino: l’abbandono, la degenerazione, nella trascuratezza,
delle patologie esistenti e delle dipendenze, l’alienazione, il disagio
psichico, l’abuso di sedativi (al fine di prevenire disordini e proteste) e i
tentativi di suicidio non sono un’evenienza ma la regola puntuale, il rito che
si ripete quotidianamente.
Per
l’esattezza, il coinvolgimento della sanità pubblica è rimesso alla diligenza
delle stesse Prefetture, che dovrebbero ai sensi del Regolamento Ministeriale
stipulare convenzioni con le ASL di riferimento al fine di garantire visite di
idoneità obiettive all’ingresso e in caso di subentro di motivi di
incompatibilità delle condizioni psicofisiche con il trattenimento, e
soprattutto l’accesso alla medicina specialistica presso strutture pubbliche.
Ma
nulla di tutto questo accade, e le Prefetture più zelanti stipulano accordi che
restano sulla carta. Nessuno ha interesse a che vi siano ingerenze esterne,
neppure nella gestione della cura della salute del trattenuto nel CPR.
Quest’ultima, pertanto, si divide tra l’ambulatorio interno - dove la presenza
dei medici è sporadica e si trovano per lo più sedativi (in particolare,
Rivotril) - ed il Pronto Soccorso, quando si arriva al punto di dovervi o anzi potervi fare ricorso. Moltissimi sono
infatti i trattenuti che praticano autolesionismo (il cutting, la “corda”, il
lancio dall’alto per procurarsi lesioni agli arti, l’ingestione di detersivi o
pezzi di metallo o vetro) sperando di poter essere ricoverati lasciando la
struttura, e magari venire dichiarati inidonei al trattenimento.
Ebbene,
esperienza di tutto ciò, anche diretta, come si dirà, è stata fatta ed è
quotidianamente rinnovata da Mai più Lager – No ai CPR, Rete fondata da varie
realtà antirazziste milanesi nel 2018 (quando Salvini indico Milano quale sede
per il futuro CPR lombardo, poi aperto nel settembre 2020), con focus sui CPR e
sulla denuncia dell’ipocrisia su cui essi si fondano: come visto, attraverso di
essi si sanziona, con una reclusione in violazione dei basilari diritti umani e
l’aberrazione della deportazione su base etnica, un mero illecito amministrativo
che non può non essere commesso, dal momento che nei fatti il nostro
ordinamento non consente né la regolarizzazione di chi si trova sul territorio
né un ingresso regolare. Tutto ciò quando il fenomeno migratorio è processo
oggettivamente inarrestabile ed inevitabile, prima ancora che conseguenza della
legittima rivendicazione di condizioni migliori di vita, specie considerando le
gravi responsabilità che l’Europa ha avuto nel mancato sviluppo dei paesi di
provenienza di chi ora bussa alle sue porte.
Sulla
scorta di tali convinzioni e di detta esperienza, la Rete Mai più Lager - No ai
CPR, all’attività di informazione attraverso la divulgazione tramite i propri
canali social di ciò che accade in
particolare nel CPR di Milano (con cui ha un filo diretto grazie al centralino
e agli avvocati del NAGA ODV), affianca l’organizzazione di eventi di
formazione, anche in scuole ed università.
Da
circa un anno la Rete ha creato al
proprio interno un ambito specifico dedicato alla Salute, al quale partecipano
dottori e studenti di Medicina, ai fini di sensibilizzare la categoria ed
informarla sulla realtà in questione, con cui essa può variamente entrare in
contatto: per essere chiamata ad effettuare visite di idoneità di accesso ai
CPR nelle strutture pubbliche di appartenenza; per svolgere in libera
professione attività alle dipendenze del
gestore privato del centro; o semplicemente per l’imbattersi in Pronto Soccorso
in un paziente tradottovi da un CPR. La
consapevolezza della realtà di provenienza del paziente, e di sua destinazione
una volta dimesso, è essenziale in questo caso per poter esprimere una corretta
diagnosi e prescrizione ed eventualmente segnalare l’incompatibilità delle
condizioni del soggetto con un siffatto sistema di restrizione in assenza di adeguata
(ed imparziale) assistenza medica. Come pure è necessaria, tale consapevolezza,
per poter correttamente valutare l’opportunità o meno di contribuire con la
propria collaborazione al funzionamento di tali centri.
L’auspicio
è che la presa di coscienza sul tema conduca ad una netta presa di posizione e
quindi ad una mobilitazione collettiva quanto più ampia e ferma per la chiusura
di questi luoghi, quale unica risposta ad uno strumento di razzismo
istituzionale che, oltre ad essere incompatibile con una società civile, lede
ogni anno dignità e salute di migliaia di persone.
Merita
un accenno, infine, in tale contesto, l’attività della Rete consistita negli
ultimi due anni nel supporto offerto ai rari parlamentari disposti ad accendere
i riflettori su un argomento trasversalmente così scomodo (fu Minniti a
disporre nel 2017 che ogni regione avesse il suo CPR, e Lamorgese si è occupata
dell'implementazione di tale progetto, oltre che della firma degli accordi che
hanno portato ai CPR migliaia di tunisini dal 2020).
Ci
riferiamo in particolare al sen. Gregorio De Falco, al cui seguito due
attiviste della Rete sono entrate nel CPR di Milano nel 2021 e nel 2022, così
potendo dare il proprio supporto alla visita e alla redazione dei due
report-denuncia che ne sono conseguiti (“Delle
pene senza delitti – Istantanea del CPR di Milano” nel 2021 e “Delle pene senza delitti – Istantanea del
CPR di Milano. Un anno dopo” nel 2022, liberamente scaricabili dal web,
anche dalla pagina Facebook Mai più Lager – No ai CPR), cui si sono aggiunti
anche due esposti alla Procura della Repubblica di Milano: uno per un pestaggio
riferito dai trattenuti, occorso nei bagni dopo una protesta per fame, e
l’altro per le gravi carenze sanitarie rilevate, per le quali è stata fatta
istanza di sequestro del centro.
Per
quanto qui rileva, si segnala che il secondo accesso ha visto la partecipazione
nella delegazione del dr. Nicola Cocco, medico infettivologo esperto di
medicina penitenziaria, che ha potuto incontrare i trattenuti, seppure senza
visionare le loro cartelle cliniche, negate dal gestore e dalla Prefettura allo
stesso senatore nonostante la delega dei diretti interessati.
Questa
la conclusione del dr. Cocco, nel citato report del luglio scorso:
“Considerazione
finale: un luogo potenzialmente patogeno.
Da medico
infettivologo che lavora nelle strutture penitenziarie della città di Milano,
la visita di sopralluogo al CPR di Via Corelli mi spinge ad una sola
considerazione conclusiva: tale realtà ha tutte le caratteristiche strutturali
(celle, alte mura, cortili angusti), sociali (presenza ipertrofica del
personale di polizia, dinamiche di ghettizzazione e isolamento) e simboliche
(sbarre) di un carcere italiano, ma senza le garanzie e tutele di salute
individuale e pubblica che, dopo tante battaglie e ancora con tanti problemi,
almeno formalmente ogni carcere italiano deve avere.
All’interno
della Struttura ho rilevato la presenza di soggetti con quadri psichiatrici e
di dipendenza da sostanze di difficile gestione se non da parte di personale
specializzato e in contesti adeguati.
Tale rilievo, la
mancanza di chiarezza del rapporto di convenzione tra l’ente gestore e l’ATS,
la mancanza di protocolli di gestione
sanitaria aggiornati e di collaborazioni regolamentate con strutture sanitarie
e figure professionali specialistiche all’esterno, mi porta a considerare il
CPR di Via Corelli un luogo potenzialmente patogeno per le persone che vi
vivono, che va segnalato alle autorità sanitarie competenti e che necessita di un monitoraggio medico-sanitario
costante per evitare l’insorgenza di eventi gravi a livello individuale e/o
comunitario. Ritengo ingiusto sottoporre a tali rischi sanitari delle persone
di fatto detenute per problematiche di tipo amministrativo e non penale, e lo
segnalo alle autorità competenti.”
Non
possiamo concludere queste riflessioni senza una considerazione: il CPR di
Milano, nel 2014, fu chiuso per le proteste all’interno della struttura, che
trovarono valido appoggio nella società civile all’esterno.
E'
possibile, e si deve, ora, invertire la rotta.
E
a tale processo non può mancare chi ritiene che non possano esistere nel nostro
Paese eccezioni al rispetto dei diritti di tutte e di tutti - e in particolare
del diritto alla salute - né ambiti di discrezionalità in cui il rispetto della
persona e della sua dignità venga negato; specie se ciò accade secondo il
discrimine della mera provenienza geografica del portatore di tali diritti
universali.
Per
info e per ricevere la newsletter Mai più Lager – No ai CPR o per partecipare
alle attività della Rete, ivi compresi gli incontri “NoCPR Salute”:
noaicpr@gmail.com
Per
materiale informativo, foto e video e per il link ai dossier “Delle pene senza
delitti” 2021 e 2022: linktr.ee/noaicpr
Mai più Lager -No ai CPR
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