Sono membro e uno dei soci fondatori dell’Associazione Laudato sì – Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale, fondata nel 2015, subito dopo la pubblicazione dell’omonima enciclica di papa Francesco. Ciò che secondo noi costituisce il nucleo centrale di questa enciclica, che consideriamo il più importante documento politico di questo scorcio di secolo, è l’indissolubile nesso che vi viene tracciato tra giustizia sociale e giustizia ambientale.
La
giustizia non è quiete, ma lotta, conflitto o iniziativa. Che cos’è la giustizia sociale? È il rispetto dei diritti
irrinunciabili di ogni essere umano, che presuppone una lotta a fondo contro le
macroscopiche diseguaglianze che caratterizzano la società odierna ovunque. E
che cos’è la giustizia ambientale? È il rispetto dei diritti della natura o,
meglio, del creato e di ogni singola creatura, cioè di ciò che noi laici
chiamiamo mondo. Questi diritti corrispondono alle condizioni che rendono
possibile la perpetuazione e la rigenerazione di ogni specie vivente e del
relativo habitat fisico, climatico e biologico, vista l’interconnessione che
lega tra loro tutti gli esseri viventi e questi con una vita umana degna di
questo nome.
Questa
interconnessione è anche la base del principio One Planet, One Health che
segnala la continuità tra la salute degli esseri umani e quella del resto del
vivente e del pianeta tutto. Ma è un principio che evidenzia anche il fatto
che i confini della persona umana non coincidono con la sua
epidermide; che il nostro io, il nostro noi, si
estendono ben al di là dei nostri corpi, intersecandosi in modo diretto o
indiretto con tutto ciò che ci circonda; mentre il sostrato geologico
che ci sorregge, l’aria che respiriamo, l’acqua di cui siamo in gran parte
composti e l’esistenza di tutti gli esseri viventi, a partire dai batteri
presenti nel nostro corpo e passando per il cibo che la terra produce penetrano
ben dentro i nostri organismi.
Se
la vera e la più salutare delle medicine è la prevenzione, questa passa
necessariamente per la salute dell’ambiente in cui siamo immersi. Non si può essere sani in un mondo malato, aveva
ricordato Francesco; mentre la salute (ma questo punto mi vien da dire,
soprattutto quella mentale) degli esseri umani, che sono i custodi del creato,
è condizione imprescindibile di un ambiente sano: sia a livello locale che
planetario.
Questa
continuità tra l’essere umano e il mondo che lo circonda comporta una grande
rivoluzione culturale rispetto alla concezione del mondo che si è andata
affermando con la modernità, che è un termine delicato per nominare il
capitalismo. Con essa, infatti, secondo quanto teorizzato da Cartesio,
esiste una discontinuità radicale tra l’essere umano e il resto del mondo; tra
lo spirito, prerogativa dell’uomo dominatore (implicitamente bianco, maschio ed
europeo) e la materia inerte, a cui erano stati ricondotti tutti
gli altri esseri che popolano la terra, compresi i “selvaggi”, cioè le
popolazioni indigene delle nuove colonie e le donne.
Quella
dicotomia viene oggi superata dalla sensibilità, prima ancora che dal pensiero,
della cultura antispecista, sempre più diffusa tra una
parte consistente delle nuove generazioni, quelle di Greta. Ma la sua
storicizzazione, cioè la sua collocazione entro i limiti della cultura
occidentale e di una fase specifica della storia umana, è una acquisizione
dell’antropologia contemporanea, che ha trovato ovviamente supporto e
legittimazione nello studio di numerose culture indigene ancora molto legate
all’ambiente naturale in cui si sono sviluppate.
Sono
culture, soprattutto quelle dell’America latina, che in parte hanno ispirato
anche l’enciclica Laudato sì; cosa resa esplicita dal ruolo che
papa Francesco ha attribuito al sinodo sull’Amazzonia.
E viene
ovviamente superata, quella dicotomia, anche dal principio One Planet
One Health; ma certo non dalla maggior parte delle pratiche mediche in
vigore. A un estraneo al mondo medico come sono io lo scarto tra il concetto
di One Health e la medicina corrente appare ancora abissale.
La
permanenza di una cultura che separa l’uomo dall’ambiente, il corpo umano dalla
natura, è probabilmente all’origine dell’attenzione che la scienza medica
moderna ha concentrato sulla terapia, sulla cura del corpo malato, a scapito
della prevenzione, della cura di
ciò che mantiene o altera “dall’esterno” le condizioni di un corpo sano: a
partire dal cibo, dall’acqua e dall’aria, temi relegati per lo più ad
altre discipline.
Con
ciò la medicina della modernità ha rinunciato anche a cercare nell’ambiente
naturale i molti rimedi di cui si avvalevano i metodi tradizionali di cura,
appannaggio per secoli di saperi femminili stroncati con e contestualmente alla
caccia alle streghe che ha imperversato per alcuni secoli in occidente. Oggi la spinta a ricercare nei processi naturali i
mezzi per affrontare disagi e malattie ricompare in alcune teorie e pratiche di
medicina naturale o tradizionale emarginate, mal tollerate o decisamente
esecrate e messe al bando dalla medicina ufficiale.
Ma la
farmacologia industriale, con i suoi indubbi successi, ha finito per assumere
un quasi-monopolio su gran parte della pratica medica, spesso ridotta a nient’altro
che alla prescrizione di farmaci studiati, messi a punto, prodotti e venduti da
un pugno di imprese tanto potenti da dettar legge sulla maggior parte dei
protocolli terapeutici, a cui ci si riferisce ormai con il termine
accusatorio di Big Pharma.
L’isolamento
del corpo umano dal suo ambiente ha comportato anche che le pratiche mediche
più complesse venissero concentrate in ospedali sempre più grandi e
tecnologici, anch’essi sostanzialmente isolati dal territorio e sempre più in mano ai produttori della relativa
strumentazione, mentre la medicina territoriale, quella
in contatto con le comunità, che per questo potrebbe conoscere meglio i rischi
di ogni singolo ambiente è stata progressivamente ridimensionata e
deprofessionalizzata.
Ma
questo è il modello di sanità che ne rende possibile e promuove la
privatizzazione, mentre una medicina territoriale e ambientalista avrebbe
bisogno, per svilupparsi, di un controllo diretto delle comunità, possibile
solo in un contesto pubblico.
La
pandemia ha portato allo scoperto le conseguenze di questa deriva: i fallimenti
iniziali, indubbiamente riconducibili a una mancata conoscenza del virus, hanno
concentrato gli interventi medici negli ospedali, trasformandoli spesso in
focolai di contagio a cui hanno pagato un prezzo altissimo anche moltissimi
medici e infermieri. Ma per
contrastare il virus sono state scartate importanti soluzioni strutturali come
l’acquisizione di maggiori spazi, l’aerazione dei locali, il potenziamento dei
trasporti, lo scaglionamento dei turni, ecc, e sono stati imposti presidi
estemporanei come mascherine e lock-down, senza tener conto delle loro
conseguenze sull’equilibrio psicofisico, soprattutto di bambini e adolescenti.
Sostanzialmente
si è ridotto tutto prima all’attesa e poi alla somministrazione dei vaccini. Cioè di farmaci prodotti “all’ultima ora”, mai
sufficientemente testati, di cui le imprese produttrici hanno disposto quanto e
come hanno voluto, sia in termini economici, trattando in segreto prezzi,
quantità e destinazioni – e discriminando gli Stati non in grado di pagarli –
sia in termini di informazioni, trascurando, fino allo spreco di altri farmaci
già acquistati, ricerca, sperimentazione e pratica di soluzioni farmacologiche
diverse dal vaccino che pure stavano dando buona prova.
Così ci
sono voluti due anni per apprendere che quei farmaci non proteggevano né dal
contagio attivo né da quello passivo (come ha confermato, pochi
giorni fa al Parlamento europeo, un’alta dirigente del Pfitzer; ciò che avrebbe
reso del tutto inutile l’istituzione del green pass), che
la loro efficacia era di pochi mesi e che proteggevano solo dalle forme più
gravi della malattia, in parte evitabili se affrontata in tempo. E
senza mai varare un’indagine epidemiologica per misurarne efficacia e reazioni
avverse, di cui peraltro la maggioranza dei medici è spinta in vario modo a non
prendere atto.
Anche
l’ostracismo verso i non vaccinati, soprattutto se medici, ha poi finito per
consolidare il monopolio del vaccino a spese di altre terapie nel frattempo
validate.
C’è
comunque un temine che unisce le attenzioni verso le condizioni che
caratterizzano il benessere dell’essere umano, che è il concetto stesso di
salute, e quelle che contraddistinguono un ambiente sano, cioè la sua capacità
di riprodursi e rigenerarsi. Quel termine è cura. È un termine che non fa solo riferimento alle attività a
cui sono professionalmente preposti i medici, perché include soprattutto quelle
a cui dalla notte dei tempi sono relegate le donne; tanto che molto spesso la
cura viene equiparata al cosiddetto “lavoro riproduttivo”, in quanto
contrapposto al lavoro produttivo: quello che produce merci, valore, profitto.
Ma quel
concetto include non solo le attività, in gran parte misconosciute, legate alla
riproduzione della vita e della famiglia, ma anche quelle ancora più
misconosciute, che consistono nel tenere insieme una comunità attraverso una
serie di legami informali di cui ci si accorge solo quando vengono meno.
Come
succede, per esempio, in quei territori dove una massiccia emigrazione di donne
poi addette alla cura di famiglie lontane in qualità di colf o di badanti priva
la comunità di quel tessuto che la teneva in piedi: gli uomini rimasti, per lo
più in condizioni di dipendenza e di emarginazione non sanno mantenerlo; non sanno
prendersene cura.
Ora, di
fronte alla crisi climatica e ambientale che incombe su tutta l’umanità,
qual è la cura del pianeta a cui si deve dedicare chi intende battersi per
cercare di fermare questa deriva? Quella cura è la conversione ecologica: un
concetto introdotto nel lessico politico da Alex Langer quasi trent’anni fa e
ripreso con forza da papa Francesco nell’enciclica Laudato sì.
Badate che i termini transizione e conversione non sono
equivalenti, anche quando entrambi si fregiano dello stesso aggettivo
– ecologico – e spesso vengono usati in modo interscambiabile.
Transizione
ecologica (così come è stata
intesa da Roberto Cingolani) è un passaggio destinato a “salvare”,
cioè conservare quanto più possibile, non solo l’attuale apparato produttivo –
e, conseguentemente, anche le sue produzioni, compresa quella sempre più
importante di armi – riducendone l’impatto sull’ambiente. Certo, con le fonti
rinnovabili; ma soprattutto con la cattura del carbonio, continuando a
usare i fossili, e con il nucleare, che mettono ad alto rischio la salute di
tutti. In attesa dell’araba fenice della fusione, che “un giorno”, certo ancora
lontano, ci procurerà senza scorie e senza danni tutta l’energia di cui avremo
bisogno. “Come fa il sole”, permettendo alla civiltà di continuare la sua corsa
lungo il percorso già tracciato della crescita, dello sviluppo e del progresso.
La
conversione ecologica è un’altra cosa:
più difficile da concepire e ancor più da realizzare, ma più realistica, perché
fa i conti con i limiti del nostro pianeta e non chiama in causa
solo la necessità di abbandonare una serie di produzioni che fanno male a chi
ci lavora, a chi ne subisce gli impatti e a chi ne fa uso. Ma impone anche un
diverso stile di vita, improntato alla sobrietà nei consumi, alla condivisione
dei beni comuni e al primato affidato alla qualità delle relazioni, non solo
con il nostro prossimo umano, ma anche con il territorio e con tutti gli esseri
viventi animali e vegetali che lo abitano: cioè al perseguimento della
salute, nella accezione larga di un benessere complessivo.
Certamente,
come insegnava Alex Langer, perché la conversione ecologica possa affermarsi
bisogna che diventi socialmente desiderabile. E certo la cultura dominante, non
facilita questo cambio di prospettiva. Ma sarà sempre meno desiderabile anche
l’alternativa che ci prospettano i sostenitori della transizione ecologica e,
meno ancora, quella dei sostenitori dello status quo, negazionisti della crisi
climatica e ambientale nella pratica quando non anche in linea teorica.
Perché
ormai è chiaro, e lo sarà sempre di più, che l’alternativa alla
conversione ecologica non è un “benessere” fondato su un consumo
crescente e diffuso e su un PIL in continuo aumento, ma è un
regime sempre più discriminatorio di “austerità”, una disoccupazione e una
precarietà crescenti. E poi, la guerra.
Sì,
perché invece della conversione ecologica; anzi, per accelerare i tempi della
crisi climatica, di cui gli esperti hanno collocato il tipping point,
cioè la soglia dell’irreversibilità, al 2030, cioè tra otto anni – e magari per
anticiparlo con una ecatombe nucleare – agli impegni assunti al vertice di
Parigi e malamente confermati a quello di Glasgow, i “Grandi della terra”, cioè
i nostri governanti, hanno deciso di anteporre il ricorso al più antico, e oggi
il più distruttivo, sistema per attentare alla nostra salute, al nostro
benessere, alle nostre vite: la guerra.
Contributo
al convegno di Medicina Democratica
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