giovedì 13 ottobre 2022

CAGLIARI CALCIO, DINAMO SASSARI E MOLTO ALTRO: LO SPORT IN SARDEGNA - Omar Onnis

  

Lo sport professionistico, nel mondo odierno, ha risvolti sociali, culturali e politici notevoli. Il suo peso economico è consistente, intrecciato com’è col mondo della finanza e degli affari e, più in generale col potere. Gli sport di maggiore successo sono ormai l’emblema stesso della globalizzazione. Toccano ogni angolo del pianeta, coinvolgono direttamente milioni di praticanti, interessano la stragrande maggioranza dell’umanità. 

Lo sport produce identificazione. La produce da prima che esso fosse assoggettato alle regole del profitto. Gli sport maggiori, nati e diffusi tra la seconda metà del XIX secolo e i primi del XX, in parallelo con l’affermarsi dello stato-nazione borghese, furono precocemente usati come strumento di consenso e di costruzione delle appartenenze nazionali. I passatempi un tempo circoscritti a fasce sociali piuttosto definite divennero rapidamente pratiche di massa, sfruttate da chi deteneva il potere economico e/o politico a proprio vantaggio. 

Nel secondo dopoguerra, gli sport si svilupparono e diffusero ulteriormente, tanto nella loro pratica amatoriale quanto nelle loro massime espressioni agonistiche. La retorica del dilettantismo virtuoso contro il professionismo venale persistette per qualche tempo (nel tennis, per esempio; più a lungo nelle Olimpiadi), fino a cedere davanti alla realtà di attività sempre più organizzate e dispendiose, richiedenti investimenti adeguati alle necessità pratiche e logistiche, nonché alla crescente remunerazione degli atleti e delle figure di servizio (allenatori, preparatori, selezionatori, intermediari, dirigenti e impiegati delle federazioni, ecc.).  

Col crescere della popolarità dello sport, in alcuni casi il processo di identificazione sfuggì al controllo dei proprietari e delle organizzazioni istituzionali e assunse i connotati della contrapposizione sociale, o della rivendicazione politica e/o territoriale. Gli esempi sono molti, qui basterà ricordarne due relativamente recenti: l’ostensione della ikurrina, la bandiera basca, da parte dei due capitani delle squadre di calcio dell’Athletic club di Bilbao e della Real Sociedad di Donostia-San Sebastián, il 5 dicembre 1976, a regime franchista ancora vigente (l’uso pubblico di bandiere che non fossero quella del Regno di Spagna era vietato, così come quello delle lingue diverse dal castigliano); l’esperienza della cosiddetta “democrazia corinthiana”, ossia l’epopea calcistica della squadra brasiliana del Corinthians, gestita direttamente e collettivamente dai giocatori, nel periodo della dittatura in Brasile, alla fine degli anni Settanta e ai primi anni Ottanta del Novecento.

Oggi i maggiori sport professionistici sono una voce consistente delle economie statali, muovendo fatturati ingenti. La sola Serie A di calcio in Italia ha un valore stimato di più di 3 miliardi di euro; e non siamo ai livelli più alti, in ambito internazionale. La sola compagine del Real Madrid (il club calcistico dal valore più alto al mondo, seguito dal  Manchester United) ha il medesimo valore dell’intera serie A italiana. Per farci un’idea più precisa, parliamo di una cifra che equivale grosso modo all’intero bilancio della sanità sarda. Se guardiamo alle cosiddette franchigie professionistiche negli USA, i valori salgono ulteriormente. Una franchigia di fascia più alta nell’NBA (basket) ha un valore di più di 5 miliardi di dollari. Questi sono solo i valori stimati delle società sportive, senza considerare tutto l’indotto: i servizi accessori alle pratiche sportive, l’abbigliamento e le attrezzature, la logistica (trasporti di merci e di persone), ecc. Nel suo insieme, dunque, lo sport muove quantità impressionanti di denaro, a livello globale. Non sembra ci sia più molto spazio per gli aspetti romantici e le connotazioni extra-sportive. Tuttavia questo è vero solo in parte. Trattandosi di fenomeni di massa, di portata così cospicua, è inevitabile che ancora oggi implichino, sia pure indirettamente o senza un preciso intento in tal senso, ulteriori significati e valori. 

Anche in Sardegna lo sport ha da tempo una dimensione di massa e in diverse discipline esprime realtà professionistiche, o comunque di alto livello. L’isola ha anche prodotto scuole sportive eccellenti. Basti ricordare la pesistica e la boxe, l’hockey su prato, la pallamano, il tennistavolo, il calcio femminile, il judo, la stessa atletica leggera: tutti ambiti in cui si è creato, nel tempo, un insieme di fattori umani, organizzativi, culturali che hanno prodotto risultati eccellenti, a volte a livello internazionale. Anche nel rugby, gioco di squadra molto di nicchia nell’ambito italiano, in Sardegna si sono create alcune realtà di base consolidatesi negli anni, pur non accedendo mai ai massimi livelli agonistici. Venendo agli sport di squadra più seguiti, il discorso non può che focalizzarsi sulle realtà più importanti e che hanno raggiunto i risultati più significativi. Le glorie nell’ambito della pallavolo ci sono state, ma sono restate più fugaci, rispetto a basket e calcio. Nondimeno, il volley è ancora una disciplina molto praticata e con molto seguito. Basket e calcio godono in Sardegna di un ruolo privilegiato in virtù dei successi delle due compagini maggiori, la Dinamo Sassari e il Cagliari calcio. Due società diventate, sia pure in tempi non coincidenti, simbolo dell’intera isola, con una tifoseria ampia e radicata, ben più consistente del mero seguito cittadino della maggior parte delle squadre di pari livello in ambito italiano. 

La vicenda del Cagliari, specie relativamente all’epopea di Gigi Riva e compagni, con lo scudetto del 1970, ha intersecato una fase nodale della nostra storia recente: l’industrializzazione, i movimenti sociali e culturali tra anni Sessanta e Settanta, la repressione del banditismo, il fallimento del Piano di Rinascita. La stessa riscoperta e risemantizzazione dei quattro mori deve moltissimo ai successi del Cagliari di Gigi Riva. L’auto-rappresentazione di sé delle persone sarde ha trovato in quelle vicende calcistiche un forte catalizzatore. 

Senza avere lo stesso peso mediatico, recentemente la Dinamo Sassari, nel basket, ha in qualche modo raccolto il testimone del Cagliari, conquistando successi e portando la Sardegna su palcoscenici mai calcati prima. Il precedente più significativo dei successi della Dinamo è la vicenda, effimera, della Brill Cagliari, compagine di proprietà di Nino Rovelli, allora proprietario della SIR di Porto Torres, dell’Unione sarda e della Nuova Sardegna, grosso modo negli stessi anni del Cagliari scudettato. Esperimento non riuscito, a livello di continuità e di radicamento popolare, anche per via del rapido declino dell’impero di Rovelli, ma che contribuì a diffondere il basket nell’isola. Il basket è un gioco molto diverso dal calcio, non solo per un fatto di regole e di condizioni di gioco, ma anche per cultura e seguito. Più difficile da maneggiare come instrumentum regni. Resta un gioco seguito e praticato anche nell’isola, più di nicchia rispetto al calcio, ma che può essere a sua volta veicolo di identificazione e di promozione commerciale, come sta dimostrando in questi anni la Dinamo Sassari, soprattutto dall’ascesa nel massimo campionato italiano (2011) e con i titoli conquistati tra il 2014 e il 2019 (uno scudetto, due Coppa Italia, due Supercoppe italiane, un’Europe Cup a livello internazionale).

Cagliari calcio e Dinamo basket sono oggi le due compagini professionistiche rappresentative dell’intera isola. È un aspetto che non manca mai di colpire chi si interessa di queste discipline, tra gli addetti ai lavori come tra gli osservatori e gli appassionati. Non c’è partita del Cagliari e della Dinamo, sui campi e nei palazzetti italiani e extra-italiani, che non veda la  partecipazione (a volte ridotta, a volte decisamente consistente) del proprio seguito, bandiera dei quattro mori rigorosamente presente. Se il senso di identificazione generato dalle due maggiori squadre professionistiche sarde è indubbio, c’è da chiedersi quali siano le componenti di questo processo di identificazione, che immagine della Sardegna veicolino i due club e quale portata abbia, in termini commerciali, culturali e politici, il grande senso di appartenenza delle due tifoserie. Non sono quesiti oziosi. Ribadita la strettissima relazione tra sport, economia e politica, solo con estrema superficialità si può ritenere che in Sardegna tale relazione non sussista. Andrebbe indagata in modo approfondito e interdisciplinare. A cominciare da una corretta collocazione delle realtà sportive sarde nel contesto italiano.

In Italia (anche) nello sport esiste una distanza abissale tra Nord, Sud, Sicilia e Sardegna.

 

Sono gli scudetti conquistati nell’intera storia del calcio italiano. Un’analoga cartina relativa al basket sarebbe quasi sovrapponibile, con Caserta al posto di Napoli e Sassari al posto di Cagliari, per i successi esterni all’area settentrionale. Già quest’immagine restituisce una rappresentazione di divari non solo e non tanto sportivi, quanto soprattutto socio-economici. Non c’è niente di casuale. E forse contestualizzando i successi del Cagliari e della Dinamo in questo quadro è più facile comprenderne il significato sportivo ed extra-sportivo.

Tali successi tuttavia hanno sempre costituito un problema di difficile gestione, per la politica e, nel suo insieme, la classe “dirigente” locale. Se la politica istituzionale ha sempre fatto presto a saltare sul carro del vincitore, cercando di brillare di luce riflessa, ha però sempre fatto poco per sostenere il mondo dello sport in modo serio, pianificato, socialmente emancipativo. Anche i contributi pubblici allo sport di base hanno acquisito più i tratti della coltivazione di sacche clientelari, che quella della promozione sociale. La scarsità di investimenti in infrastrutture è un indice di questa visione solo utilitaristica e di basso profilo. La Regione Sardegna da molto tempo sponsorizza sistematicamente lo sport professionistico, attribuendo ad esso una vaga funzione di promozione territoriale, ma senza mai definirne maggiormente le finalità né valutarne realmente l’impatto. Da un altro punto di vista, le istituzioni pubbliche hanno anche sempre evitato caldamente di attribuire ai successi sportivi un significato troppo politico. Sottolineare i successi, facendone motivo di emulazione e di maggiori ambizioni in altri ambiti, contrasterebbe col luogo comune della perenne arretratezza e inadeguatezza del tessuto socio-culturale sardo e creerebbe qualche dubbio di troppo riguardo la necessità “naturale” di ricevere tutele dall’esterno. Appartenenza va bene, insomma, ma che non diventi motivo di aspettative ulteriori. 

Si è parlato a lungo del senso di riscatto diffuso, generato dai successi del Cagliari di Gigi Riva (e, negli stessi anni, in modo meno profondo e duraturo, dalla Brill Cagliari di basket), in un momento in cui le persone sarde erano considerate generalmente criminali per propria natura, arretrate e incompatibili con la civiltà. Sono noti, anche per le testimonianze dello stesso Gigi Riva, gli insulti di stampo razzista che accoglievano il Cagliari negli stadi del centro-nord Italia. Va sottolineato quanto risultasse contro-intuitivo e perturbante che una squadra rappresentativa di una periferia negletta e arretrata potesse competere, magari vincendo, con le ricche squadre del nord Italia. Tuttavia, le manifestazioni di pregiudizi anti-sardi non sono cessate con la fine dei successi del Cagliari. È un fenomeno ancora attuale, semplicemente derubricato a goliardia da stadio. Non riguarda nemmeno solo la Sardegna e il Cagliari, per altro. Nelle tifoserie settentrionali italiane è diffusissimo il pregiudizio anti-meridionale. L’attenzione mediatica e politica è ultimamente rivolta soprattutto alle manifestazioni discriminatorie più facilmente riconoscibili come razziste, che col tempo si sono diffuse un po’ ovunque, in concomitanza col crescere dell’immigrazione straniera in Italia. Tale fenomeno è direttamente proporzionale all’aumento e alla legittimazione della xenofobia e del razzismo nel discorso pubblico italiano. Alcuni club calcistici sono noti per avere tifoserie particolarmente inclini a espressioni razziste. Persino tra le tifoserie a loro volta oggetto di sfottò razziali (quella sarda e alcune tifoserie del meridione italiano) ha preso piede, almeno marginalmente, qualche episodio del genere, benché mai come manifestazioni di gruppi consistenti, tanto meno di massa. Singolare che tra la tifoseria del Cagliari sia presente un radicato sentimento anti-meridionale e anti-napoletano in particolare, così come capita che tra tifoserie meridionali italiane emerga un certo razzismo anti-sardo. Si tratta di aspetti paradossali, oltre che poco edificanti, del tifo calcistico. In questa sede non è possibile indagarli e nemmeno proporre spiegazioni di alcun genere, ma è giusto tenerli presenti.

Ai tempi del grande Cagliari dello scudetto, la funzione diversiva dello sport si rivelò ampiamente controbilanciata da un’esaltazione collettiva, i cui esiti non erano facili da governare. Non è forse un caso che quell’esperimento sia stato lasciato morire e non lo si sia ripetuto. Il disimpegno della famiglia Moratti dalle sorti del Cagliari (dopo il 1970) e il contemporaneo indebolimento dell’investimento politico furono piuttosto repentini. Il mondo si trovava allora in un passaggio storico difficile. In parallelo con le istanze di rinnovamento promosse dalle fasce più giovani della popolazione e dal mondo del lavoro e con le apettative generate e subito tradite dalla decolonizzazione e dalle nuove istanze democratiche in America latina, Africa e Asia, prendeva avvio la grande crisi socio-economica che a ondate è arrivata fino al presente (denuncia degli accordi di Bretton Woods da parte dell’amministrazione Nixon, 1971; pubblicazione del Rapporto Meadows sui “limiti dello sviluppo”, 1972; primo choc petrolifero, 1973). Infine, dal 1979, si impose il nuovo paradigma ideologico neo-liberista, promosso dalle amministrazioni Thatcher, nel Regno Unito, e Reagan, negli USA, in larga misura ancora oggi dominante. In Sardegna, in quegli anni, si faceva largo un rinnovamento del pensiero sardista, con la nascita dell’indipendentismo contemporaneo, e maturava una prima rilettura critica della storia sarda recente (con i vari Cicitu Masala, Antoni Simon Mossa, Placido Cherchi, Mialinu Pira e altri ancora). La risposta del rifinanziamento del Piano di Rinascita, nel 1974, non pareva sufficiente a sedare del tutto gli animi. L’identificazione prodotta dai successi del Cagliari era ormai un elemento di disturbo, più che un sedativo sociale. Nello stesso 1976 in cui, in Euskal Herria, si ostendeva pubblicamente la bandiera basca, il Cagliari retrocedeva in serie B. Da quel momento in poi la squadra sarda non sarebbe più riuscita a lottare realmente per i massimi successi, salvo ritagliarsi in qualche momento e a sprazzi un ruolo da outsider. 

Il discorso identitario, in qualche modo connaturato per forza di cose a una compagine rappresentativa dell’intera Sardegna, da allora è stato utilizzato solo saltuariamente e in termini edulcorati, giusto a scopo di marketing, ma mai in senso più direttamente politico. Niente a che fare con quanto accade per esempio in Euskal Herria con l’Athletic club di Bilbao, o col Barcellona in Catalogna, o con le stesse squadre corse (Bastia e Ajaccio) nella vicina Corsica. Non troverete mai una dichiarazione pubblica di dirigenti del Cagliari o di suoi giocatori in merito a questioni sociali, di costume o politiche. Non esiste alcun tratto rivendicativo, che sia di indole nazionalista o di conflitto sociale,  nella comunicazione ufficiale del Cagliari calcio. La stessa lingua sarda è usata pochissimo e di solito molto male. Il calcio resta dunque relegato in un ambito squisitamente economico e promosso esclusivamente come un fattore di distrazione di massa. 

A questa collocazione del fenomeno Cagliari calcio contribuiscono in modo determinante gli stessi mass media, solitamente “voce del padrone”, perciò ben attenti a non associare alle imprese sportive alcuna portata troppo impegnativa. Salvo però sfruttare gli insuccessi come strumento di auto-flagellazione e di debilitazione morale della tifoseria e, di conseguenza, di una larga fetta di popolazione. Solo pochi giorni fa, all’indomani della recentissima, ennesima retrocessione in serie B, la prima pagina dell’Unione Sarda titolava: “La retrocessione di un’isola” (prima pagina del 24 maggio 2022). Non la retrocessione di una squadra mal assemblata e mal diretta, o della sua dirigenza. Non del presidente Giulini, milanese, di estrazione interista, padrone della Fluorsid. L’insuccesso deve essere scaricato sull’intera collettività sarda, come specchio della nostra pochezza storica. L’effetto di questi fatti e di questa retorica non è così blando e insignificante come si potrebbe pensare. Il fallimento sportivo, in questo caso, ha realmente dei risvolti ulteriori, anche solo di immagine. Se essi non risultano apertamente drammatici è dovuto solo allo scarso peso mediatico e politico che il Cagliari ha in Italia e a livello internazionale. Scarso peso a sua volta non casuale né dovuto solo a cause oggettive. Un profilo più alto, più impegnativo, porterebbe con sé alcuni vantaggi, almeno a livello di promozione territoriale, ma anche rischi. Tant’è vero che lo stesso presidente Giulini, come giustificazione dell’ultimo drammatico insuccesso, ha portato il presunto eccesso di ambizione in cui lui e i suoi collaboratori sarebbero incorsi in questi ultimi anni. Un eccesso di ambizione solo retorico e superficiale, senza nerbo né sostanza, come testimoniano i risultati concreti. Tant’è che la tifoseria, sia quella organizzata sia quella spontanea e diffusa, non la pensano affatto allo stesso modo. Ma queste sono questioni che possiamo tralasciare in questa disamina, sia pure rilevandone la consistenza e sottolineando le contraddizioni che segnalano. 

Le cose cambiano se spostiamo lo sguardo dal Cagliari e dal calcio al basket e alla Dinamo Sassari. Quella della Dinamo è una popolarità cresciuta più di recente, per via dei successi conseguiti, e consolidatasi rapidamente in un contesto culturale, sociale e mediatico diverso da quello calcistico. Nel caso della Dinamo Sassari, il discorso dell’appartenenza è decisamente più sfruttato e anche in modo abbastanza efficace. L’uso del sardo è più diffuso e più corretto, il legame con la Sardegna espresso chiaramente in ogni forma e circostanza. Basti pensare alle coreografie allestite in occasione di qualche partita che cadeva per combinazione il 28 aprile (Die de sa Sardigna), cosa che nel calcio non si è mai vista. Lo stesso legame istituito, a livello comunicativo e grafico, tra i giganti del basket (nel senso di uomini di alta statura) e i Giganti di Monte Prama è una trovata comunicativamente efficace. E così per la promozione di eventi o di realtà culturali e/o produttive isolane. Non c’è dubbio che l’immagine della Dinamo Sassari sia volutamente più “identitaria” di quella del Cagliari calcio. Naturalmente, anche dietro questa scelta c’è una precisa strategia di marketing e una ricerca di visibilità. Il distinguersi, l’enfatizzare l’appartenenza a un territorio e a una comunità umana specifica, vengono sfruttati in termini di riconoscibilità, anche all’estero. È un approccio commerciale intelligente, che non a caso viene sostenuto da diversi sponsor locali di primo piano. Beninteso, anche la Dinamo mostra una certa attenzione a non eccedere nella veicolazione di contenuti esplicitamente politici, ma si tratta di una cautela ponderata e in ogni caso  comprensibile.

Il Cagliari è una risorsa importante nel panorama sardo. Potrebbe essere un fattore non solo di identificazione positiva, veicolando valori civici all’altezza dei tempi, promuovendo pratiche virtuose in vari ambiti, compreso quello economico. Basti pensare al settore turistico o a quello delle produzioni locali. Il marchio Cagliari calcio potrebbe essere una testa di ponte, a livello internazionale, per altre realtà isolane. Se solo ci si investisse in modo più intelligente e più sistematico. Cosa che però non può interessare a una proprietà come quella attuale e, più in generale, a qualsiasi proprietà che contempli esclusivamente il lato affaristico della questione. Il che significa che neppure un cambio di padrone, da Giulini a qualche altra figura, magari internazionale (si vocifera di interessamenti cinesi e/o qatarioti), garantirebbe un salto di qualità decisivo. Il modello del Cagliari dovrebbero essere le squadre tedesche o quelle di ambito iberico, possedute in larga misura dalle stesse tifoserie, legate in modo molto stretto al territorio (nell’Athletic di Bilbao storicamente militano giocatori esclusivamente baschi, o di origine basca o, più recentemente, naturalizzati baschi), forti del proprio senso di appartenenza e veicolo della medesima su qualsiasi palcoscenico. Sarebbe necessario un mutamento di paradigma, da società padronale, espressione della borghesia “compradora”, o da giocattolo nelle mani di avventurieri – sardi o no, poco cambia – in cerca di facili affari, a squadra realmente espressione di una comunità e di un territorio, con tutti i risvolti che tale condizione implicherebbe. 

È facile prevedere che tale esito sarà scongiurato con ogni mezzo da tutte le parti in causa, o almeno da chi ha il potere di scongiurarlo. Non per questo verrà meno il tifo per il Cagliari, benché oggi ai minimi termini. La tifoseria del Cagliari è stabilmente, da molti anni, tra le prime dieci del calcio italiano. Ciò significa che la potenzialità esiste. Se non si traduce in termini sportivi proporzionati, non è solo a causa del divario economico tra Settentrione italiano e Sardegna, ma anche per via di volontà ostili a una tale evoluzione.

Il diverso percorso intrapreso dalla Dinamo Sassari, se può essere giudicato più efficace e intelligente, appare però ancora in divenire e tutto da verificare nei suoi ulteriori esiti. Senza dimenticare che comunque il basket è uno sport meno popolare del calcio e che gode di una copertura mediatica notevolmente – benché ingiustificatamente – inferiore.

A proposito di auto-rappresentazione e di appartenenza, va segnalata l’esistenza, da qualche anno, della Federatzione Isport Natzionale Sardu (FINS), nata con l’obiettivo di promuovere la creazione di rappresentative isolane nei vari sport. Primo tra tutti il calcio, gioco per cui esiste già e si è già esibita una rappresentativa nazionale sarda, chiaramente in un ambito di semi-riconoscimento internazionale. Non potendo aderire alla FIFA (l’organizzazione di tutte le federazioni statali mondiali), la Natzionale aderisce alla CONIFA (Confederation of Indipendent Football Associations), la federazione delle rappresentative dei popoli senza stato. È un esperimento, chiaramente, che ha senza dubbio finalità politiche. Ma è anche il tentativo di colmare una sorta di vuoto nell’auto-rappresentazione della comunità sarda (quella residente e quella della diaspora), sempre desiderosa di riconoscimento. Come testimonia il fatto che non ci sia manifestazione sportiva o di spettacolo in cui non sventoli almeno una bandiera dei quattro mori, e non solo in Italia. Anche su questo sarebbe necessaria una riflessione strutturata, non condizionata da pregiudizi né ideologicamente vincolata.

Nel complesso, a parte i due casi maggiormente significativi del Cagliari e della Dinamo, è l’intero movimento sportivo sardo a meritare una maggiore attenzione in termini di analisi e di studio. Anche lo sport di massa è il frutto della complicata “modernizzazione” dell’isola. Come tale, presenta risvolti molteplici, spesso contraddittori, ma di non poca rilevanza. Un approccio multidisciplinare e decolonizzato, anche in questo caso, potrebbe fornirci molte indicazioni utili sulla nostra storia recente e sul nostro presente….

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