Lo sport professionistico, nel mondo
odierno, ha risvolti sociali, culturali e politici notevoli. Il suo peso
economico è consistente, intrecciato com’è col mondo della finanza e degli
affari e, più in generale col potere. Gli sport di maggiore successo sono ormai
l’emblema stesso della globalizzazione. Toccano ogni angolo del pianeta,
coinvolgono direttamente milioni di praticanti, interessano la stragrande
maggioranza dell’umanità.
Lo sport produce identificazione. La
produce da prima che esso fosse assoggettato alle regole del profitto. Gli
sport maggiori, nati e diffusi tra la seconda metà del XIX secolo e i primi del
XX, in parallelo con l’affermarsi dello stato-nazione borghese, furono
precocemente usati come strumento di consenso e di costruzione delle
appartenenze nazionali. I passatempi un tempo circoscritti a fasce sociali
piuttosto definite divennero rapidamente pratiche di massa, sfruttate da chi
deteneva il potere economico e/o politico a proprio vantaggio.
Nel secondo dopoguerra, gli sport si
svilupparono e diffusero ulteriormente, tanto nella loro pratica amatoriale
quanto nelle loro massime espressioni agonistiche. La retorica del
dilettantismo virtuoso contro il professionismo venale persistette per qualche
tempo (nel tennis, per esempio; più a lungo nelle Olimpiadi), fino a cedere
davanti alla realtà di attività sempre più organizzate e dispendiose,
richiedenti investimenti adeguati alle necessità pratiche e logistiche, nonché
alla crescente remunerazione degli atleti e delle figure di servizio
(allenatori, preparatori, selezionatori, intermediari, dirigenti e impiegati
delle federazioni, ecc.).
Col crescere della popolarità dello
sport, in alcuni casi il processo di identificazione sfuggì al controllo dei
proprietari e delle organizzazioni istituzionali e assunse i connotati della
contrapposizione sociale, o della rivendicazione politica e/o territoriale. Gli
esempi sono molti, qui basterà ricordarne due relativamente recenti:
l’ostensione della ikurrina, la bandiera basca, da parte dei due
capitani delle squadre di calcio dell’Athletic club di Bilbao e della Real
Sociedad di Donostia-San Sebastián, il 5 dicembre 1976, a regime franchista
ancora vigente (l’uso pubblico di bandiere che non fossero quella del Regno di
Spagna era vietato, così come quello delle lingue diverse dal castigliano);
l’esperienza della cosiddetta “democrazia corinthiana”, ossia l’epopea
calcistica della squadra brasiliana del Corinthians, gestita direttamente e
collettivamente dai giocatori, nel periodo della dittatura in Brasile, alla
fine degli anni Settanta e ai primi anni Ottanta del Novecento.
Oggi i maggiori sport
professionistici sono una voce consistente delle economie statali, muovendo
fatturati ingenti. La sola Serie A di calcio in Italia ha un valore stimato di
più di 3 miliardi di euro; e non siamo ai livelli più alti, in ambito
internazionale. La sola compagine del Real Madrid (il club calcistico dal
valore più alto al mondo, seguito dal Manchester United) ha il medesimo
valore dell’intera serie A italiana. Per farci un’idea più precisa, parliamo di
una cifra che equivale grosso modo all’intero bilancio della sanità sarda. Se
guardiamo alle cosiddette franchigie professionistiche negli USA, i valori
salgono ulteriormente. Una franchigia di fascia più alta nell’NBA (basket) ha
un valore di più di 5 miliardi di dollari. Questi sono solo i valori stimati
delle società sportive, senza considerare tutto l’indotto: i servizi accessori
alle pratiche sportive, l’abbigliamento e le attrezzature, la logistica
(trasporti di merci e di persone), ecc. Nel suo insieme, dunque, lo sport muove
quantità impressionanti di denaro, a livello globale. Non sembra ci sia più
molto spazio per gli aspetti romantici e le connotazioni extra-sportive.
Tuttavia questo è vero solo in parte. Trattandosi di fenomeni di massa, di
portata così cospicua, è inevitabile che ancora oggi implichino, sia pure
indirettamente o senza un preciso intento in tal senso, ulteriori significati e
valori.
Anche in Sardegna lo sport ha da
tempo una dimensione di massa e in diverse discipline esprime realtà
professionistiche, o comunque di alto livello. L’isola ha anche prodotto scuole
sportive eccellenti. Basti ricordare la pesistica e la boxe, l’hockey su prato,
la pallamano, il tennistavolo, il calcio femminile, il judo, la stessa atletica
leggera: tutti ambiti in cui si è creato, nel tempo, un insieme di fattori
umani, organizzativi, culturali che hanno prodotto risultati eccellenti, a
volte a livello internazionale. Anche nel rugby, gioco di squadra molto di
nicchia nell’ambito italiano, in Sardegna si sono create alcune realtà di base
consolidatesi negli anni, pur non accedendo mai ai massimi livelli agonistici.
Venendo agli sport di squadra più seguiti, il discorso non può che focalizzarsi
sulle realtà più importanti e che hanno raggiunto i risultati più
significativi. Le glorie nell’ambito della pallavolo ci sono state, ma sono
restate più fugaci, rispetto a basket e calcio. Nondimeno, il volley è ancora
una disciplina molto praticata e con molto seguito. Basket e calcio godono in
Sardegna di un ruolo privilegiato in virtù dei successi delle due compagini
maggiori, la Dinamo Sassari e il Cagliari calcio. Due società diventate, sia
pure in tempi non coincidenti, simbolo dell’intera isola, con una tifoseria
ampia e radicata, ben più consistente del mero seguito cittadino della maggior
parte delle squadre di pari livello in ambito italiano.
La vicenda del Cagliari, specie relativamente
all’epopea di Gigi Riva e compagni, con lo scudetto del 1970, ha intersecato
una fase nodale della nostra storia recente: l’industrializzazione, i movimenti
sociali e culturali tra anni Sessanta e Settanta, la repressione del
banditismo, il fallimento del Piano di Rinascita. La stessa riscoperta e
risemantizzazione dei quattro mori deve moltissimo ai successi del Cagliari di
Gigi Riva. L’auto-rappresentazione di sé delle persone sarde ha trovato in
quelle vicende calcistiche un forte catalizzatore.
Senza avere lo stesso peso
mediatico, recentemente la Dinamo Sassari, nel basket, ha in qualche modo
raccolto il testimone del Cagliari, conquistando successi e portando la
Sardegna su palcoscenici mai calcati prima. Il precedente più significativo dei
successi della Dinamo è la vicenda, effimera, della Brill Cagliari, compagine
di proprietà di Nino Rovelli, allora proprietario della SIR di Porto Torres,
dell’Unione sarda e della Nuova Sardegna, grosso modo negli stessi anni del
Cagliari scudettato. Esperimento non riuscito, a livello di continuità e di
radicamento popolare, anche per via del rapido declino dell’impero di Rovelli,
ma che contribuì a diffondere il basket nell’isola. Il basket è un gioco molto
diverso dal calcio, non solo per un fatto di regole e di condizioni di gioco,
ma anche per cultura e seguito. Più difficile da maneggiare come instrumentum
regni. Resta un gioco seguito e praticato anche nell’isola, più di nicchia
rispetto al calcio, ma che può essere a sua volta veicolo di identificazione e
di promozione commerciale, come sta dimostrando in questi anni la Dinamo
Sassari, soprattutto dall’ascesa nel massimo campionato italiano (2011) e con i
titoli conquistati tra il 2014 e il 2019 (uno scudetto, due Coppa Italia, due
Supercoppe italiane, un’Europe Cup a livello internazionale).
Cagliari calcio e Dinamo basket sono
oggi le due compagini professionistiche rappresentative dell’intera isola. È un
aspetto che non manca mai di colpire chi si interessa di queste discipline, tra
gli addetti ai lavori come tra gli osservatori e gli appassionati. Non c’è
partita del Cagliari e della Dinamo, sui campi e nei palazzetti italiani e
extra-italiani, che non veda la partecipazione (a volte ridotta, a volte
decisamente consistente) del proprio seguito, bandiera dei quattro mori
rigorosamente presente. Se il senso di identificazione generato dalle due
maggiori squadre professionistiche sarde è indubbio, c’è da chiedersi quali
siano le componenti di questo processo di identificazione, che immagine della Sardegna
veicolino i due club e quale portata abbia, in termini commerciali, culturali e
politici, il grande senso di appartenenza delle due tifoserie. Non sono quesiti
oziosi. Ribadita la strettissima relazione tra sport, economia e politica, solo
con estrema superficialità si può ritenere che in Sardegna tale relazione non
sussista. Andrebbe indagata in modo approfondito e interdisciplinare. A
cominciare da una corretta collocazione delle realtà sportive sarde nel
contesto italiano.
In Italia (anche) nello sport esiste
una distanza abissale tra Nord, Sud, Sicilia e Sardegna.
Sono gli scudetti conquistati
nell’intera storia del calcio italiano. Un’analoga cartina relativa al basket
sarebbe quasi sovrapponibile, con Caserta al posto di Napoli e Sassari al posto
di Cagliari, per i successi esterni all’area settentrionale. Già quest’immagine
restituisce una rappresentazione di divari non solo e non tanto sportivi,
quanto soprattutto socio-economici. Non c’è niente di casuale. E forse
contestualizzando i successi del Cagliari e della Dinamo in questo quadro è più
facile comprenderne il significato sportivo ed extra-sportivo.
Tali successi tuttavia hanno sempre
costituito un problema di difficile gestione, per la politica e, nel suo
insieme, la classe “dirigente” locale. Se la politica istituzionale ha sempre
fatto presto a saltare sul carro del vincitore, cercando di brillare di luce
riflessa, ha però sempre fatto poco per sostenere il mondo dello sport in modo
serio, pianificato, socialmente emancipativo. Anche i contributi pubblici allo
sport di base hanno acquisito più i tratti della coltivazione di sacche
clientelari, che quella della promozione sociale. La scarsità di investimenti
in infrastrutture è un indice di questa visione solo utilitaristica e di basso
profilo. La Regione Sardegna da molto tempo sponsorizza sistematicamente lo
sport professionistico, attribuendo ad esso una vaga funzione di promozione
territoriale, ma senza mai definirne maggiormente le finalità né valutarne
realmente l’impatto. Da un altro punto di vista, le istituzioni pubbliche hanno
anche sempre evitato caldamente di attribuire ai successi sportivi un
significato troppo politico. Sottolineare i successi, facendone motivo di
emulazione e di maggiori ambizioni in altri ambiti, contrasterebbe col luogo
comune della perenne arretratezza e inadeguatezza del tessuto socio-culturale
sardo e creerebbe qualche dubbio di troppo riguardo la necessità “naturale” di
ricevere tutele dall’esterno. Appartenenza va bene, insomma, ma che non diventi
motivo di aspettative ulteriori.
Si è parlato a lungo del senso di
riscatto diffuso, generato dai successi del Cagliari di Gigi Riva (e, negli
stessi anni, in modo meno profondo e duraturo, dalla Brill Cagliari di basket),
in un momento in cui le persone sarde erano considerate generalmente criminali
per propria natura, arretrate e incompatibili con la civiltà. Sono noti, anche
per le testimonianze dello stesso Gigi Riva, gli insulti di stampo razzista che
accoglievano il Cagliari negli stadi del centro-nord Italia. Va sottolineato
quanto risultasse contro-intuitivo e perturbante che una squadra
rappresentativa di una periferia negletta e arretrata potesse competere, magari
vincendo, con le ricche squadre del nord Italia. Tuttavia, le manifestazioni di
pregiudizi anti-sardi non sono cessate con la fine dei successi del Cagliari. È
un fenomeno ancora attuale, semplicemente derubricato a goliardia da stadio.
Non riguarda nemmeno solo la Sardegna e il Cagliari, per altro. Nelle tifoserie
settentrionali italiane è diffusissimo il pregiudizio anti-meridionale.
L’attenzione mediatica e politica è ultimamente rivolta soprattutto alle
manifestazioni discriminatorie più facilmente riconoscibili come razziste, che
col tempo si sono diffuse un po’ ovunque, in concomitanza col crescere
dell’immigrazione straniera in Italia. Tale fenomeno è direttamente
proporzionale all’aumento e alla legittimazione della xenofobia e del razzismo
nel discorso pubblico italiano. Alcuni club calcistici sono noti per avere
tifoserie particolarmente inclini a espressioni razziste. Persino tra le
tifoserie a loro volta oggetto di sfottò razziali (quella sarda e alcune
tifoserie del meridione italiano) ha preso piede, almeno marginalmente, qualche
episodio del genere, benché mai come manifestazioni di gruppi consistenti,
tanto meno di massa. Singolare che tra la tifoseria del Cagliari sia presente
un radicato sentimento anti-meridionale e anti-napoletano in particolare, così
come capita che tra tifoserie meridionali italiane emerga un certo razzismo
anti-sardo. Si tratta di aspetti paradossali, oltre che poco edificanti, del
tifo calcistico. In questa sede non è possibile indagarli e nemmeno proporre
spiegazioni di alcun genere, ma è giusto tenerli presenti.
Ai tempi del grande Cagliari dello
scudetto, la funzione diversiva dello sport si rivelò ampiamente
controbilanciata da un’esaltazione collettiva, i cui esiti non erano facili da
governare. Non è forse un caso che quell’esperimento sia stato lasciato morire
e non lo si sia ripetuto. Il disimpegno della famiglia Moratti dalle sorti del
Cagliari (dopo il 1970) e il contemporaneo indebolimento dell’investimento
politico furono piuttosto repentini. Il mondo si trovava allora in un passaggio
storico difficile. In parallelo con le istanze di rinnovamento promosse dalle
fasce più giovani della popolazione e dal mondo del lavoro e con le apettative
generate e subito tradite dalla decolonizzazione e dalle nuove istanze
democratiche in America latina, Africa e Asia, prendeva avvio la grande crisi
socio-economica che a ondate è arrivata fino al presente (denuncia degli
accordi di Bretton Woods da parte dell’amministrazione Nixon, 1971;
pubblicazione del Rapporto Meadows sui “limiti dello
sviluppo”, 1972; primo choc petrolifero, 1973). Infine, dal 1979, si impose il
nuovo paradigma ideologico neo-liberista, promosso dalle amministrazioni
Thatcher, nel Regno Unito, e Reagan, negli USA, in larga misura ancora oggi
dominante. In Sardegna, in quegli anni, si faceva largo un rinnovamento del
pensiero sardista, con la nascita dell’indipendentismo contemporaneo, e
maturava una prima rilettura critica della storia sarda recente (con i vari
Cicitu Masala, Antoni Simon Mossa, Placido Cherchi, Mialinu Pira e altri
ancora). La risposta del rifinanziamento del Piano di Rinascita, nel 1974, non
pareva sufficiente a sedare del tutto gli animi. L’identificazione prodotta dai
successi del Cagliari era ormai un elemento di disturbo, più che un sedativo
sociale. Nello stesso 1976 in cui, in Euskal Herria, si ostendeva pubblicamente
la bandiera basca, il Cagliari retrocedeva in serie B. Da quel momento in poi
la squadra sarda non sarebbe più riuscita a lottare realmente per i massimi
successi, salvo ritagliarsi in qualche momento e a sprazzi un ruolo da
outsider.
Il discorso identitario, in qualche
modo connaturato per forza di cose a una compagine rappresentativa dell’intera
Sardegna, da allora è stato utilizzato solo saltuariamente e in termini
edulcorati, giusto a scopo di marketing, ma mai in senso più direttamente
politico. Niente a che fare con quanto accade per esempio in Euskal Herria con
l’Athletic club di Bilbao, o col Barcellona in Catalogna, o con le stesse
squadre corse (Bastia e Ajaccio) nella vicina Corsica. Non troverete mai una
dichiarazione pubblica di dirigenti del Cagliari o di suoi giocatori in merito
a questioni sociali, di costume o politiche. Non esiste alcun tratto
rivendicativo, che sia di indole nazionalista o di conflitto sociale,
nella comunicazione ufficiale del Cagliari calcio. La stessa lingua sarda è
usata pochissimo e di solito molto male. Il calcio resta dunque relegato in un
ambito squisitamente economico e promosso esclusivamente come un fattore di
distrazione di massa.
A questa collocazione del fenomeno
Cagliari calcio contribuiscono in modo determinante gli stessi mass media,
solitamente “voce del padrone”, perciò ben attenti a non associare alle imprese
sportive alcuna portata troppo impegnativa. Salvo però sfruttare gli insuccessi
come strumento di auto-flagellazione e di debilitazione morale della tifoseria
e, di conseguenza, di una larga fetta di popolazione. Solo pochi giorni fa,
all’indomani della recentissima, ennesima retrocessione in serie B, la prima
pagina dell’Unione Sarda titolava: “La retrocessione di un’isola” (prima pagina
del 24 maggio 2022). Non la retrocessione di una squadra mal assemblata e mal
diretta, o della sua dirigenza. Non del presidente Giulini, milanese, di
estrazione interista, padrone della Fluorsid. L’insuccesso deve essere
scaricato sull’intera collettività sarda, come specchio della nostra pochezza
storica. L’effetto di questi fatti e di questa retorica non è così blando e
insignificante come si potrebbe pensare. Il fallimento sportivo, in questo
caso, ha realmente dei risvolti ulteriori, anche solo di immagine. Se essi non
risultano apertamente drammatici è dovuto solo allo scarso peso mediatico e
politico che il Cagliari ha in Italia e a livello internazionale. Scarso peso a
sua volta non casuale né dovuto solo a cause oggettive. Un profilo più alto,
più impegnativo, porterebbe con sé alcuni vantaggi, almeno a livello di
promozione territoriale, ma anche rischi. Tant’è vero che lo stesso presidente
Giulini, come giustificazione dell’ultimo drammatico insuccesso, ha portato il
presunto eccesso di ambizione in cui lui e i suoi collaboratori sarebbero
incorsi in questi ultimi anni. Un eccesso di ambizione solo retorico e
superficiale, senza nerbo né sostanza, come testimoniano i risultati concreti.
Tant’è che la tifoseria, sia quella organizzata sia quella spontanea e diffusa,
non la pensano affatto allo stesso modo. Ma queste sono questioni che possiamo
tralasciare in questa disamina, sia pure rilevandone la consistenza e
sottolineando le contraddizioni che segnalano.
Le cose cambiano se spostiamo lo
sguardo dal Cagliari e dal calcio al basket e alla Dinamo Sassari. Quella della
Dinamo è una popolarità cresciuta più di recente, per via dei successi
conseguiti, e consolidatasi rapidamente in un contesto culturale, sociale e
mediatico diverso da quello calcistico. Nel caso della Dinamo Sassari, il
discorso dell’appartenenza è decisamente più sfruttato e anche in modo
abbastanza efficace. L’uso del sardo è più diffuso e più corretto, il legame con
la Sardegna espresso chiaramente in ogni forma e circostanza. Basti pensare
alle coreografie allestite in occasione di qualche partita che cadeva per
combinazione il 28 aprile (Die de sa Sardigna), cosa che nel calcio non si è
mai vista. Lo stesso legame istituito, a livello comunicativo e grafico, tra i
giganti del basket (nel senso di uomini di alta statura) e i Giganti di Monte
Prama è una trovata comunicativamente efficace. E così per la promozione di
eventi o di realtà culturali e/o produttive isolane. Non c’è dubbio che
l’immagine della Dinamo Sassari sia volutamente più “identitaria” di quella del
Cagliari calcio. Naturalmente, anche dietro questa scelta c’è una precisa
strategia di marketing e una ricerca di visibilità. Il distinguersi, l’enfatizzare
l’appartenenza a un territorio e a una comunità umana specifica, vengono
sfruttati in termini di riconoscibilità, anche all’estero. È un approccio
commerciale intelligente, che non a caso viene sostenuto da diversi sponsor
locali di primo piano. Beninteso, anche la Dinamo mostra una certa attenzione a
non eccedere nella veicolazione di contenuti esplicitamente politici, ma si
tratta di una cautela ponderata e in ogni caso comprensibile.
Il Cagliari è una risorsa importante
nel panorama sardo. Potrebbe essere un fattore non solo di identificazione
positiva, veicolando valori civici all’altezza dei tempi, promuovendo pratiche
virtuose in vari ambiti, compreso quello economico. Basti pensare al settore
turistico o a quello delle produzioni locali. Il marchio Cagliari calcio
potrebbe essere una testa di ponte, a livello internazionale, per altre realtà
isolane. Se solo ci si investisse in modo più intelligente e più sistematico.
Cosa che però non può interessare a una proprietà come quella attuale e, più in
generale, a qualsiasi proprietà che contempli esclusivamente il lato
affaristico della questione. Il che significa che neppure un cambio di padrone,
da Giulini a qualche altra figura, magari internazionale (si vocifera di
interessamenti cinesi e/o qatarioti), garantirebbe un salto di qualità
decisivo. Il modello del Cagliari dovrebbero essere le squadre tedesche o
quelle di ambito iberico, possedute in larga misura dalle stesse tifoserie,
legate in modo molto stretto al territorio (nell’Athletic di Bilbao storicamente
militano giocatori esclusivamente baschi, o di origine basca o, più
recentemente, naturalizzati baschi), forti del proprio senso di appartenenza e
veicolo della medesima su qualsiasi palcoscenico. Sarebbe necessario un
mutamento di paradigma, da società padronale, espressione della borghesia
“compradora”, o da giocattolo nelle mani di avventurieri – sardi o no, poco
cambia – in cerca di facili affari, a squadra realmente espressione di una
comunità e di un territorio, con tutti i risvolti che tale condizione
implicherebbe.
È facile prevedere che tale esito
sarà scongiurato con ogni mezzo da tutte le parti in causa, o almeno da chi ha
il potere di scongiurarlo. Non per questo verrà meno il tifo per il Cagliari,
benché oggi ai minimi termini. La tifoseria del Cagliari è stabilmente, da
molti anni, tra le prime dieci del calcio italiano. Ciò significa che la
potenzialità esiste. Se non si traduce in termini sportivi proporzionati, non è
solo a causa del divario economico tra Settentrione italiano e Sardegna, ma
anche per via di volontà ostili a una tale evoluzione.
Il diverso percorso intrapreso dalla
Dinamo Sassari, se può essere giudicato più efficace e intelligente, appare
però ancora in divenire e tutto da verificare nei suoi ulteriori esiti. Senza
dimenticare che comunque il basket è uno sport meno popolare del calcio e che
gode di una copertura mediatica notevolmente – benché ingiustificatamente –
inferiore.
A proposito di auto-rappresentazione
e di appartenenza, va segnalata l’esistenza, da qualche anno, della
Federatzione Isport Natzionale Sardu (FINS), nata con l’obiettivo di promuovere
la creazione di rappresentative isolane nei vari sport. Primo tra tutti il
calcio, gioco per cui esiste già e si è già esibita una rappresentativa
nazionale sarda, chiaramente in un ambito di semi-riconoscimento
internazionale. Non potendo aderire alla FIFA (l’organizzazione di tutte le
federazioni statali mondiali), la Natzionale aderisce alla CONIFA
(Confederation of Indipendent Football Associations), la federazione delle
rappresentative dei popoli senza stato. È un esperimento, chiaramente, che ha
senza dubbio finalità politiche. Ma è anche il tentativo di colmare una sorta
di vuoto nell’auto-rappresentazione della comunità sarda (quella residente e
quella della diaspora), sempre desiderosa di riconoscimento. Come testimonia il
fatto che non ci sia manifestazione sportiva o di spettacolo in cui non
sventoli almeno una bandiera dei quattro mori, e non solo in Italia. Anche su
questo sarebbe necessaria una riflessione strutturata, non condizionata da
pregiudizi né ideologicamente vincolata.
Nel complesso, a parte i due casi
maggiormente significativi del Cagliari e della Dinamo, è l’intero movimento
sportivo sardo a meritare una maggiore attenzione in termini di analisi e di
studio. Anche lo sport di massa è il frutto della complicata “modernizzazione”
dell’isola. Come tale, presenta risvolti molteplici, spesso contraddittori, ma
di non poca rilevanza. Un approccio multidisciplinare e decolonizzato, anche in
questo caso, potrebbe fornirci molte indicazioni utili sulla nostra storia
recente e sul nostro presente….
Nessun commento:
Posta un commento