L’epidemia di influenza aviaria ad alta
patogenicità che ha colpito l’Europa tra l’aprile del 2021 e quello del 2022 è
la più grande mai registrata. Lo afferma un report congiunto di EFSA – European Food Safety
Authority – ECDC – European Centre for Disease Prevention and Control e
Laboratorio di referenza europeo (EURL) per l’influenza aviaria dell’IZSVe –
Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie.
Secondo i loro dati, in dodici mesi ci sono stati quasi 2500 focolai nel pollame domestico, con 48 milioni
di uccelli abbattuti negli stabilimenti colpiti. Anche l’estensione geografica
dell’epidemia, spiegano in una nota stampa, è senza precedenti: dalle isole
Svalbard in Norvegia fino al sud del Portogallo, ad est fino all’Ucraina,
colpendo 37 paesi europei. Recentemente in Italia si è registrato un nuovo caso, sottotipo H5N1, in un allevamento di polli broiler in provincia
di Treviso, e come da prassi si è proceduto all’abbattimento degli
animali. Nella stagione 2021-2022, i focolai nel nostro Paese sono stati 317,
registrati principalmente in Veneto.
A questo proposito abbiamo intervistato Ernesto Burgio,
medico pediatra ed esperto in epigenetica e biologia molecolare, già presidente
del comitato scientifico della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) e
membro del consiglio scientifico di ECERI (European Cancer and Environment
Research Institute) di Bruxelles.
Dottor Burgio, può spiegarci perché il fatto che
l’influenza aviaria continui a diffondersi negli allevamenti intensivi italiani
dovrebbe preoccuparci?
Tra l’autunno 2021 e la primavera del 2022 i focolai nei domestici sono
stati oltre 300, nello stesso periodo 2020-2021 soltanto 3. I virus aviari sono
da decenni il problema più temuto da virologi ed epidemiologi esperti di zoonosi e malattie infettive in genere. Nel 1997
la morte di un bambino a Hong Kong a causa di una polmonite drammaticamente
grave e rapida e il successivo isolamento di H5N1 da parte dei CDC di Atlanta
determinò una prima allerta planetaria, confermando che un sottotipo di virus
aviario che non aveva mai infettato l’uomo era ormai in grado di fare il temuto spillover o salto di specie.
L’allarme era motivato visto che, con ogni probabilità, qualcosa di simile
era successo nel 1918, allorché un virus aviario passato nell’uomo aveva
causato la più drammatica pandemia moderna: la cosiddetta Spagnola, che aveva ucciso 30-50 milioni di esseri
umani (circa 4 volte più della Prima Guerra Mondiale, appena terminata). Questi
dati sono significativi, anche perché attestano che il tanto temuto spillover
avviene raramente. Al contrario, dagli anni ’90 a questa parte, in moltissimi
allevamenti avicoli emergono sempre nuovi sottotipi che hanno la capacità di
infettare l’uomo e che, evolvendo molto rapidamente, potrebbero acquisire
le mutazioni in grado di renderli oltre che
virulenti, altamente contagiosi. In Italia ci sono numerosi allevamenti,
soprattutto in Veneto e Emilia Romagna, in cui vengono segnalati da anni gli
H5N1 e altri ceppi pericolosi.
Per questo motivo si procede a frequenti, brutali esecuzioni di migliaia di animali. Ma non è
certamente questa la soluzione. Il fatto che un nuovo ceppo virulento e al
contempo contagioso emerga in un allevamento intensivo in Italia, o in
Danimarca o in Francia cambia poco. Lo abbiamo visto col SARS-CoV-2: in pochi
mesi il nuovo virus ha fatto il giro del pianeta. C’è la leggenda che i Paesi
asiatici siano messi peggio, ma non è più così. I
virus aviari ad alta patogenicità sono ormai in tutto il mondo. Il problema si
risolverebbe semplicemente eliminando gli allevamenti intensivi,
ma si tratta di una soluzione impraticabile in tempi brevi.
Lei si è espresso apertamente contro gli allevamenti
intensivi in diverse occasioni. Ci sono altri suoi colleghi o istituti che lo
fanno?
Da vent’anni parliamo dell’aviaria come di un pericolosissimo “spettro” che
si aggira per il mondo. Ma anche in questo caso ci sono i “pompieri” che
sostengono che è difficile che il virus muti e si trasformi in pandemico. Ma
molti di noi sono molto preoccupati. Sono ormai vent’anni che diciamo che gli
allevamenti intensivi sono il vero problema, che si tratta di vere e
proprie “bombe ecologiche” a orologeria, ma come vede non
abbiamo ottenuto nessuna risposta. Spesso in questi casi l’allarme viene
recepito troppo tardi: e in questo senso la pandemia in atto dovrebbe essere un
campanello d’allarme.
Il fatto che il 65% dei mammiferi sulla Terra viva in questi veri e propri
“purgatori” è un dato di fatto allucinante. Se poi ci mettiamo anche i
volatili, ci rendiamo conto che quasi tutti gli animali sul pianeta Terra sono nostri prigionieri e non hanno una vita loro.
Bisognerebbe dire basta agli allevamenti intensivi, che sono crudeli per gli
altri animali, dannosi per l’ambiente, pericolosi per la salute umana. Ma gli
interessi sono anche in questo campo enormi. Dobbiamo cercare di informare e
formare i giovani e sperare in loro.
Sappiamo che si sta lavorando a un vaccino contro l’influenza
aviaria destinato agli animali. Può servire?
Anche questa è una soluzione estremamente aleatoria. I virus aviari ad alta
patogenicità sono ormai numerosissimi e l’efficacia di un ipotetico vaccino, lo abbiamo visto con il SARS-CoV-2, è legata
all’estrema specificità della reazione tra antigeni virali e anticorpi. Un
vaccino per essere efficace ha bisogno di essere praticamente identico, nella
sua componente antigenica, al virus. E non è prevedibile, in questo momento,
quale sarà il sottotipo con potenziale pandemico che finirà con l’emergere.
Inoltre, al ritmo di mutazione dei virus influenzali (che è molto superiore a
quello dei Coronavirus), passerebbe troppo
tempo prima di poter trovare la soluzione. Bisogna chiuderli. Gli allevamenti
intensivi sono crudeli per gli animali,
dannosi per l’ambiente e pericolosi per
la salute globale. L’unica soluzione è chiuderli al più presto.
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