I salti di specie di virus e batteri (spillover), le zoonosi unite alle malattie determinate dagli inquinamenti, dalla cattiva alimentazione e da pratiche mediche errate (iatrogenesi) provocano una “sindemia”, una interrelazione sinergica tra più malattie e cattive condizioni di vita. Secondo l’epidemiologo evoluzionista Rob Wallace (The Origins of Industrial Agricoltural Pathogens) la distruzione degli habitat ad opera dell’agroindustria crea le condizioni per lo sviluppo di nuovi patogeni e il loro passaggio dal mondo animale a quello umano alla velocità della circolazione delle merci attraverso le reti del commercio globale, seguendo le vie dell’urbanizzazione, trasformando le megalopoli in epicentri di contagio, impattando su sistemi sanitari pubblici distrutti da decenni di politiche neoliberiste. Siamo una specie invasiva, per quel che siamo e, soprattutto, per quel che mangiamo. Ci informa Telmo Pievani, filosofo delle scienze biologiche: “Gli esseri umani sono il 36% del peso di tutti i mammiferi, mentre gli animali di allevamento arrivano al 60%. Praticamente un terzo dei mammiferi (noi) campa mangiando gli altri due terzi. La fauna selvatica, dalle tigri asiatiche agli orsi dei Carpazi, dai capidogli ai canguri arriva appena al 4% della biomassa” (Il peso delle cose, La Lettura, n. 483, 2021). In altri termini, la biomassa animale ha raggiunto quantità e concentrazioni preoccupanti. Alleviamo a scopo alimentare: 22,7 miliardi di polli, 1,47 miliardi di bovini, 1,17 miliardi di pecore, 1 miliardo di capre, 981 milioni di suini, 1,2 milioni di anitre. Questo per dire solo uno dei fattori che concorrono al surriscaldamento dell’atmosfera, alla perdita di biodiversità, alla deforestazione. Poi ci sono le centrali termoelettriche, i motori a combustione interna, le materie plastiche e i prodotti sintetici tossici derivati dal petrolio, gli edifici non coibentati e una enormità di oggetti d’uso comune che ricoprono come una crosta velenosa la superficie della terra e le profondità degli oceani.
Un’ulteriore
conferma del sovrautilizzo delle risorse naturali emerge dalla crescita
inaudita dei flussi di materiali impiegati dal sistema economico, come documentato
da una singolare ricerca pubblicata da Nature (volume 588,
2020). Si stima che dall’anno scorso la “massa antropogenica”
costituita dagli stock di materiali solidi incorporati e accumulati negli
oggetti prodotti dagli esseri umani (edifici, strade, macchinari, oggetti di
consumo e così via) ancora in uso abbia oramai superato in “peso secco”
(esclusa l’acqua) il volume della biomassa vivente animale e vegetale globale
complessiva.
Tacciati gli
ultimi negazionisti del cambiamento climatico (troppe le evidenze empiriche della devastazione
antropogenica dello spazio vitale del pianeta per poter continuare ad
occultarle), sono comparsi gli “inattivisti”, come li apostrofa
Michael Mann, climatologo statunitense di grande competenza che dedica la sua
attività a contestare la disinformazione e il depistaggio nella “guerra”
al warming climate (La nuova guerra del clima, Edizioni
Ambiente). Io li chiamerei cacadubbi alla ricerca di qualsiasi scusa utile per
procrastinare gli interventi necessari ad uscire dall’era dei combustibili
fossili. Li si sono visti all’opera nell’ultima Conferenza internazionale
dell’Onu sui cambiamenti climatici, la 26a svoltasi nel novembre scorso a
Glasgow. Schiere di frenatori inseriti nelle delegazioni sono riusciti ancora
una volta a svuotare l’accordo finale da ogni impegno vincolante per gli stati.
In questa categoria si distinguono i politici “realisti e pragmatici” che
temono ripercussioni economiche e rivolte sociali nell’eventualità che la
“transizione ecologica” procedesse troppo in fretta (sic!) e le fabbriche più
energivore dovessero chiudere i battenti, portando disoccupazione e miseria. La
rivolta dei gilet gialli in Francia – innescata da un aumento delle accise sui
carburanti – è stata più volte evocata come uno spettro che si aggira sulle
buone intenzioni dell’ambientalismo. Ma, anche qui, è troppo smaccato l’intento
strumentale di mettere i ceti popolari contro le politiche ambientali. È
evidente che le tasse sulle emissioni di carbonio e le altre misure necessarie
a realizzare una conversione energetica a favore di fonti rinnovabili
alternative dovrebbero essere convenienti non solo per la conservazione della
natura, ma anche per le tasche dei cittadini. Se ciò non avviene è solo a causa
delle politiche dei governi che continuano ad incentivare i combustibili
fossili e a penalizzare le fonti rinnovabili. Oltre a ciò serve immaginare,
come hanno fatto i democratici negli Stati Uniti con la legge Protecting the Right to
Organize, una garanzia per i lavoratori che rischiano di
perdere il posto a causa delle misure sulla decarbonizzazione dell’industria.
Infine,
esiste una terza categoria di nemici della transizione ecologica, i fautori del
salto della quaglia, tecnologico, si intende. Secondo costoro, la soluzione di ogni problema
ambientale dipenderebbe dall’innovazione tecnologica tale per cui tutti i
nostri bisogni e desideri, presenti e futuri, verrebbero soddisfatti con meno
energia, meno materie prime, meno inquinamenti, meno consumo di suolo e meno
dispendio di tempo di lavoro necessario. Una nuova rivoluzione industriale (la
quarta o la quinta) resa possibile da una combinazione di automazione,
intelligenza artificiale, robotica, telecomunicazioni, bio-informatica,
nanotecnologie, geoingegneria, riconfigurazione della materia a livello
atomico, modifiche genetiche. E così via a grandi passi verso un mondo
distopico. Tutto pur di non mettere in discussione le relazioni economiche e sociali
dominanti, i comportamenti e gli stili di vita ordinari.
In un modo o
nell’altro la “transizione ecologica” è diventata il principale campo d’azione
delle politiche economiche a livello mondiale. “Reset Capitalism” è il
vessillo sventolato dagli innovatori che agiscono nel campo delle grandi
imprese e dell’alta finanza. Vorremmo fidarci, ma in questo libro mi chiedo se
sia mai credibile un sistema economico di mercato di stampo capitalista
ecologicamente sostenibile. A molti – io tra questi – sembra
che vi sia una contraddizione tanto evidente quanto insanabile tra la logica
che muove il sistema economico dominato dalla crescita senza limiti e la
preservazione dei cicli biogeochimici che regolano la vita sulla Terra.
L’imperativo della crescita perpetua del valore di scambio delle merci immesse
nel mercato non può che trascinare con sé la mercificazione delle risorse
naturali, la continua estrazione di materie prime, l’aumento degli scarti
inquinanti, la progressiva artificializzazione della superficie terrestre. La
logica predatoria, individualista ed egoistica indotta dal sistema economico di
stampo capitalista è penetrata anche nel nostro modo di pensare, ha performato
i nostri comportamenti e ottenebrato la nostra stessa intelligenza. Inoltre,
come ha scritto Mario Pezzella, pensando a Benjamin che descrive la borghesia
tedesca alla vigilia del nazismo, il rimpianto per la perdita di condizioni di
relativa sicurezza, è “talmente acuto, da rendere stupidi, ottusi, di fronte
alla minaccia effettiva” e conduce alla “rimozione della causa del proprio
dolore”. (Terzogioranle, 6 ottobre 2021). Una sorta di schiavitù più o meno
volontaria ci condiziona e ci lega agli automatismi dei meccanismi riproduttivi
del sistema che agisce sia psicologicamente (pensiamo alla pubblicità e
all’industria culturale in genere) sia, molto banalmente, trascinandoci nella
spirale dell’euforia del consumo a debito. Leggevo che il Pil mondiale è 84.000
miliardi di dollari, mentre il debito aggregato (privato, degli stati, delle imprese,
e quant’altro) ad inizio 2021 è di 281.000 miliardi di dollari (355% del Pil
mondiale) che “genera” 100.000 miliardi di interessi. Un flusso di denaro che
alimenta le rendite finanziarie di coloro che posseggono i “titoli di debito”,
emessi nelle loro svariate forme (sovrani, bond, ecc.). È così che il surplus
si incanala in una determinata strada, si accumula e si concentra nelle tasche
di quel 0,8% della popolazione del mondo più ricco che controlla il 25% del Pil
mondiale. L’economia è intrappolata dal debito (privatizzato) e tutti noi siamo
costretti a lavorare per ripagarlo, con gli interessi.
Chiediamoci
allora come si può fermare questa spirale distruttiva.
Il primo
passo è sicuramente aumentare la consapevolezza del baratro dentro cui stiamo
precipitando. Ma la
sofferenza e il dolore non possono demoralizzarci e paralizzarci. Gli oppressi,
i dominati, gli esclusi debbono trovare una loro via di resistenza e di
liberazione. Le giovani generazioni ci stanno insegnando molto. Le donne ancora
di più. Gli oppressi, i dominati, gli esclusi debbono trovare una loro via di
resistenza e di liberazione. Le giovani generazioni ci stanno insegnando molto.
Le donne ancora di più. L’origine di ogni distruzione, al fondo, sta nell’idea
folle del dominio dell’uomo (inteso proprio come individuo maschio, bianco,
adulto, sano e benestante) su tutto ciò che riesce a sottomettere. Patriarcato,
colonialismo, imperialismo, estrattivismo, classismo, specismo sono le varie
forme conosciute di questa dominazione.
Ma non basta sapere.
Per avere la forza di reagire bisogna anche sentire dentro di
sé le sofferenze del mondo, entrare in una relazione solidale con gli altri e con la natura. La vita
è una rete di connessioni tra le specie. Per attivarci dovremmo
coinvolgere anche la dimensione spirituale dell’essere. Non sto proponendo
nessuna “pappetta new age”(come ci rimprovera Mario Tronti), nessun
romanticismo estetizzante, nessuna fuga nel trascendentale, ma al contrario
l’avvio di un processo di liberazione dai condizionamenti eteronomi, dalla
sottomissione alle logiche tecnocratiche falsamente neutrali, dalla delega ai
poteri costituiti. Un vero conflitto, insomma, con i poteri costituti e una
lotta con noi stessi per decolonizzare le nostre menti dall’immaginario
produttivista e consumista. L’idea è quella della costruzione di una società
della post-crescita come progetto di autogoverno comunitario.
Decoupling magico
Il
modo mainstream di pensare alla transizione ecologica fa
affidamento all’innovazione tecnologica. La ricerca scientifica – si proclama e si crede –
troverà le soluzioni più idonee per risolvere i danni che la rivoluzione
industriale ha arrecato. Peggio. Si dice che la riconversione degli apparati
industriali aprirà nuovi asset e nuove opportunità per i
capitali finanziari che oggi fluttuano in cerca di investimenti alla ricerca di
buone remunerazioni.
La “green
economy” è presentata come una strategia win-win, poiché promette
di “disaccoppiare” (decoupling) la curva del Pil (che deve continuare a
salire) da quella dell’impatto ambientale. Ma tutte le evidenze empiriche ci
dicono il contrario. Più aumenta l’efficienza tecnologica nell’estrazione e
nell’impiego delle risorse naturali, più aumenta il loro impiego. La
fame di acciaio, cemento, alluminio, carta, vetro, materiali sintetici… non si
ferma. La “dematerializzazione” dei cicli produttivi è una chimera:
marciamo a 100 miliardi di tonnellate all’anno di materiali vergini estratti
dalla Terra. La guerra per l’accaparramento delle “terre rare” (metalli
indispensabili per fabbricare i dispositivi elettronici) ci dice quanto sia
pesante la pressione sulle matrici naturali esercitata dalle nuove tecnologie.
Auto elettriche comprese. Non ci viene in aiuto nemmeno l’“economia circolare”.
L’ultimo rapporto (The Circlularity Gap 2021 Report) ci dice che
l’economia mondiale recupera e ricicla solo l’8,6% di materiali, addirittura in
peggioramento sull’anno precedente (9,1% nel 2019). Nessun decoupling è
in atto.
L’obiettivo
del decoupling non è sbagliato in sé, sono sbagliati i mezzi
che vengono usati per raggiungerlo, ovvero gli strumenti del mercato. L’idea,
cioè, che i beni e i servizi vitali che la natura ci offre possano essere
trattati allo stesso modo delle merci, valutati in termini economici e
interscambiabili in valuta corrente. Le risorse naturali rispondono ad altri
parametri, ad altre leggi (quelle delle scienze della vita) e hanno bisogno di
essere rispettate in sé e per sé. Non sono, cioè, misurabili con la metrica del
denaro, nemmeno se le ribattezziamo “capitale naturale” e se diamo un prezzo ai
“servizi ecosistemici”: l’acqua potabile, l’aria pulita, il suolo fertile, la
fotosintesi clorofilliana, l’impollinazione degli insetti, il vento e la luce
del sole.
Il denaro è
una unità di misura come ce ne sono tante altre. I chilogrammi servono a
misurare il peso di un oggetto, i metri la lunghezza, i minuti/secondi il tempo
di moto, i gradi Celsius la temperatura, i cavalli/vapore la forza, i Tesla i
campi magnetici e così via. Poi ci sono cose e fenomeni impalpabili come la
bellezza, l’empatia con i propri simili e con la natura, il senso di verità e
giustizia e le virtù morali che rispondono a canoni estetici ed etici complessi
e variabili, socialmente definiti e storicamente condivisi. Dareste voi un
valore in chilogrammi ad una statua di Michelangelo? In hertz ad un brano
musicale? Eppure, c’è un genere di scienziati – gli economisti – che pretendono
di misurate il valore di qualsiasi cosa (non solo la fisiologia della natura,
ma persino le emozioni e i sentimenti), con un unico strumento: il denaro.
Per riuscire
a compiere l’economicizzazione del mondo – questa violenta e mortifera
riduzione di ogni cosa in denaro – gli economisti hanno bisogno di applicare un
procedimento logico-razionale tanto semplice quanto rozzo. Per loro le cose non
hanno un valore in sé, per sé stesse, ma solo se vengono sottratte dal loro
contesto vitale naturale e utilizzate da qualcuno per produrre degli utili
misurabili in moneta corrente. Siamo così giunti al paradosso per cui per poter
apprezzare il valore di qualsiasi cosa, anche di qualcosa che preesiste
indipendentemente dall’apporto umano, bisogna inventarci un mercato in cui
poterla scambiare.
Ecocene vs
Plastocene
Non vi potrà
mai essere una “transizione ecologica” senza una profonda trasformazione dei
quadri di riferimento concettuali scientifici ed etici dentro cui concepire le
relazioni sociali. Si tratta di avviare un cambiamento culturale e
antropologico. Si tratta
di intraprendere un sentiero inedito (almeno per le culture occidentali
moderne) di civilizzazione. Entrati quasi senza accorgersene nell’era geologica
dell’antropocene (androcene, capitalocene, eurocene, palstocene, econocene… a
scelta) dovremmo ora scegliere consapevolmente di immaginare una Ecocene.
Il filosofo
Christopher Preston, che insegna filosofia ambientale presso
l’Università del Montana, sulla scia del Nobel per la chimica Paul Crutzen –
inventore dell’Antropocene – popone una nuova denominazione della nostra era
geologica: The Synthetic Age.
“Ormai non
solo la nostra specie si circonda di nuovi materiali, ma sta anche acquisendola
capacità di riprogettare un certo numero di processi planetari
fondamentali.Stiamo imparando a sintetizzare e a cucire insieme nuove
disposizionidi Dna per creare organismi originali e utili. Stiamo fabbricando
nuovestrutture atomiche e molecolari per creare materiali con proprietà
completamentenuove. Stiamo modificando la composizione delle specie presenti
negli ecosistemi, sperimentando al contempo le tecniche per riportare in vita
animali estinti. Stiamo studiando come utilizzare tecnologie chepossano
riflettere la luce del Sole per mantenere fresco il pianeta. In ciascuno di
questi modi, l’umanità sta imparando a sostituire alcune delle attività
naturali che sono state piú importanti nel corso della storia con altre
sintetiche progettate da noi”. (Christopher Preston, L’era sintetica.
Einaudi). E non è fantascienza!
Proprio la
pandemia ha accelerato le applicazioni tecnologiche delle ricerche scientifiche
più spinte. Hanno
scritto Kevin Sneader e Shubham Singhal commentando un
rapporto del McKinsey Global Institute (La prossima normalità: le tendenze aziendali per il
2021, McKinsey). “Lo
sviluppo di vaccini COVID-19 è solo l’esempio più convincente del potenziale di
ciò che MGI chiama la ‘Bio Rivoluzione’: biomolecole, biosistemi, biomacchine e
biocomputing. (…) L’urgenza ha creato slancio, ma la storia più significativa è
come una vasta e diversificata gamma di funzionalità, tra cui bioingegneria,
sequenziamento genetico, informatica, analisi dei dati, automazione,
apprendimento automatico e intelligenza artificiale, si sono unite. Anche i
regolatori hanno reagito con velocità e creatività, stabilendo linee guida
chiare e incoraggiando una collaborazione ponderata. Senza allentare i
requisiti di sicurezza ed efficacia, hanno dimostrato quanto velocemente
possono raccogliere e valutare i dati. Se queste lezioni vengono applicate ad
altre malattie, potrebbero svolgere un ruolo significativo nel gettare le basi
per uno sviluppo più rapido dei trattamenti. (…) le tecnologie di modifica
genetica potrebbero frenare la malaria, che uccide più di 250.000 persone
all’anno. Le terapie cellulari potrebbero riparare o addirittura sostituire le
cellule e i tessuti danneggiati. Nuovi tipi di vaccini potrebbero essere
applicati alle malattie non trasmissibili, tra cui il cancro e le malattie
cardiache”. La McKinsey è la più nota e forse la più grande compagnia
di consulenza del mondo. Nichole Aschoff, editorialista di Jacobin
Mag, ci informa che si tratta di “una potenza globale che conta trentamila
consulenti in sessantacinque paesi” che offre consulenze a imprese
private, agenzie pubbliche e governi, ma opera anche per proprio conto con un
fondo di investimenti e partecipando a varie società. Si occupa di qualsiasi
cosa: ristrutturazioni aziendali, investimenti finanziari, servizi pubblici tra
cui le carceri e, ovviamente, industrie farmaceutiche. Nei soli Stati Uniti la
McKinsey ha avuto contratti per 100 milioni di dollari del quadro delle azioni
per fronteggiare la pandemia (Nichole M. Aschoff, Il lavoro
sporco, Jacobin Italia, Estate 2021).
Come dopo
ogni guerra, anche la “guerra al virus SarsCov2” è servita per mettere al
lavoro nuove invenzioni e nuove tecnologie. Sono state la chimica dopo la Prima
guerra mondiale e il nucleare dopo la Seconda. Ora è la volta delle
biotecnologie molecolari. Sarà bene tenere d’occhio i nuovi doctor Frankenstein
prima che mettano in circolazione nuovi mostri!
È forse
giunto il momento di porre un argine alle applicazioni scientifiche. Almeno a
quelle megalomane che pensano di poter dominare a piacimento la natura, viziate
dal delirio di onnipotenza, asservite alla retorica del progresso senza limiti
della crescita economica.
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