venerdì 17 luglio 2020

La società della cura - Antonio De Lellis



Nelle piccole comunità di cura che prefigurano le società della cura, esistono storie che vale la pena raccontare. Rivoluzione è questo vivere l’arte dell’incompiuto, convertire l’ordine delle cose, dare importanza alle pratiche sociali che sopravvivono e resistono nonostante il sistema capitalistico. Da queste pratiche dobbiamo prendere spunto quando parliamo di società della cura. La comunità Il Noce di Termoli è una piccola casa con una grande famiglia, un luogo fisico, ma soprattutto psichico e relazionale, un luogo intermedio tra il dentro e il fuori, è il luogo proprio dell’apprendimento e l’apprendimento più radicale è apprendere a separarsi. Separarsi per esistere Si impara a separarsi dalle sostanze di cui si è schiavi, dagli stili di vita dannosi, dalle relazioni nocive. In un percorso comunitario si avvia una evoluzione, autonoma per il singolo e integrata nel gruppo, e si fa l’esperienza della separazione, necessaria all’esistenza vera, un passaggio obbligato che aprirà la possibilità di nuove comprensioni, nuove esperienze, nuovi legami.

Te-ambaré e te-a-pèrd: letteralmente “devo insegnarti e devo perderti”. Nel nostro dialetto insegnare si dice imparare: insegnare e imparare sono sinonimi, descrivono una relazione reciproca nella quale i ruoli si sovrappongono, chi insegna sta imparando e chi impara sta insegnando. Nel nostro dialetto imparare è un verbo transitivo (ti imparo una cosa) che descrive una trasformazione diretta: ti imparo equivale a ti trasformo. “Ti insegnerò tante cose e ti perderò”: la relazione è la destinazione (alcune frasi sono tratte da Eppure il vento soffia ancora di Felice Di Lernia, edizioni Bordeaux). Te-ambaré e te-a-pèrd è un monito, un mandato di libertà, una promessa di non possesso: devo insegnarti e non devo tenerti, devo insegnarti per non tenerti, devo insegnarti e lasciarti andare, devo insegnarti a lasciarti andare. Oggi, a distanza di ventisette anni di travagliata vita, la comunità Il Noce di Termoli festeggia il fine programma di altri due giovani che, con storie diverse, ci ricordano che la vita è sempre un’opportunità, una responsabilità, un diritto. Ventinove anni fa alcune famiglie approvarono lo statuto dell’associazione, Famiglie Contro l’Emarginazione e la droga (Fa.C.E.D.), da cui nacque la comunità Il Noce, sorella maggiore della Città Invisibile, per dire che “Accoglienza” è una parola per cui vale la pena vivere. Cominciammo con i tossicodipendenti, ma ci facemmo carico del grande rischio che correva la nostra coscienza di benpensanti, tutta dedita ad alzare muri verso i drogati, i migranti, gli omosessuali, i malati di aids, i detenuti, le vittime della tratta. Eravamo animati dai volti dei nostri fratelli e sorelle che avevano subìto la schiavitù della droga, ma ce l’avevano fatta grazie all’accoglienza e oggi direi grazie alla misericordia che è il ridare a tutti opportunità di vita. Non vogliamo raccontare i numeri, ma i tanti volti che tratteggiano un’umanità sofferente, ferita, responsabile dei propri sbagli e tesa a trovare una strada, una vita possibile. Vorremmo però non dimenticare le notti insonni, le lacrime che abbiamo asciugato, la paura per ciò che non conoscevamo perché chi si mette sulla strada e sulle frontiere non conosce l’inedito e l’imprevedibile, ma quello che ricordiamo è anche quello che viviamo oggi con tanta difficoltà e tanti debiti. Vantiamo anche un grande credito di umanità donata e ricevuta perché abbiamo accompagnato chi faceva fatica e restava da solo. Abbiamo anche affrontato il saccheggio e la devastazione di un sistema che usa il volto buono del volontariato per poi abbandonarlo al proprio destino, specie quando questo non è funzionale all’ordine delle cose, diventando scomodo. Spiccano però, su tutte, le storie a lieto fine di quei volti fieri e timorosi che si riaffacciavano alla vita con tremore e un fremito di incoscienza vitale, come oggi i volti di C. e P., soprattutto grazie all’aiuto di coraggiosi volontari e professionisti della cura, che lavorano attendendo quello stipendio che il nostro sistema sanitario pubblico regionale riconosce solo dopo diversi mesi. Vorremmo dire che tanti hanno abusato della nostra accoglienza per disonestà e calcolo, soprattutto chi non ha capito e chi ha contrastato, con le petizioni, con gli attacchi personali, ma molti di più hanno fatto strada con noi nella semplicità e nella disponibilità perché comprendevano che nonostante la nostra apparente ingenuità e fragilità c’era qualcosa che il mondo stava smarrendo e che noi, insieme a tanti, custodivamo, investendolo ogni giorno in abbracci, sorrisi, parole e sostegno sociale, psicologico e pratico. Questo qualcosa si chiama: Accoglienza.
Questa parola è il vero volto disumanizzato di questo quarto di secolo che porta una grande speranza con sé. Abbiamo visto le lacrime tramutarsi in sorrisi, il dolore in gioia, la disperazione in speranza, la sfiducia in fiducia, la morte nella vita. Abbiamo visto il patire, il morire e la risurrezione nei volti dei senza volto, nei nomi dei senza nome e abbiamo conosciuto ciò che il paradiso può rappresentare: un mondo al contrario in cui gli ultimi, i vulnerabili, i poveri diventano i primi, i coraggiosi, i ricchi e i privilegiati. Ne è valsa la pena per quanti hanno creduto, lottato e vissuto per un ideale che è diventato pratica sociale di accoglienza, di ascolto e di protagonismo anonimo. Sotto la cenere c’è vita!
In ciò che scartiamo c’è il fondamento di una nuova umanità che ogni tanto fa capolino per dire al mondo che la costruzione dei muri, l’emarginazione dell’unica razza umana sta facendo paura e che solo chi tende la mano fa la storia, come quella eccezionale e coraggiosa di questi due nostri figli ai quali va la nostra profonda riconoscenza per averci insegnato che la vita non muore mai. La festa di C. e P. non è solo la nostra, ma anche quella di un’intera comunità che, con volontà e coraggio, si sforza di costruire, insieme agli invisibili, la società della cura e una nuova economia della custodia del vivente.

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