«Quando l’ultimo albero sarà abbattuto, l’ultimo pesce mangiato, e l’ultimo fiume avvelenato, vi renderete conto che non si può mangiare il denaro». Cosi disse nel 1876 Toro Seduto, capo tribù dei nativi americani Sioux Hunkpapa, qualche mese prima della leggendaria battaglia del Little Bighorn.
Toro seduto non era uno scienziato dell’Ipcc dell’Onu, ma la sua sintesi
meriterebbe di essere scritta in tutti gli edifici pubblici del Paese, in
questo inizio estate che ci costringerà a fare davvero i conti con la
profondità della crisi eco-climatica.
Paradigmatica è la situazione del Po, il più grande fiume italiano, il cui
bacino attraversa la pianura padana e l’intera Italia del Nord. Sono le regioni
in cui si sono storicamente concentrate un’agricoltura e un allevamento
intensivi, una massiccia industrializzazione, la grande industria energetica,
nonché grandi concentrati di popolazione urbana e metropolitana.
Tutte figlie del medesimo paradigma, che è la cifra del modello
capitalistico: l’idea della crescita economica come termometro del benessere
della società, accompagnata dall’uso di beni comuni presenti in natura dei
quali si presuppone l’illimitata disponibilità.
Una situazione accelerata dal modello liberista e dal preponderante ruolo
assunto dalla finanza, che ha visto il progressivo ritiro delle istituzioni
pubbliche tanto dall’intervento diretto in campo economico, quanto da qualunque
idea di programmazione e pianificazione dello stesso, delegate alla
‘autoregolazione dei mercati’.
Peccato che esista una contraddizione strutturale fra come la vita delle
persone si organizza nello spazio e nel tempo rispetto a come si declina
l’economia di mercato.
La vita delle persone si svolge dentro uno spazio limitato, la comunità di
riferimento, e si dipana dentro un tempo lungo che attraversa l’intera
esistenza.
Al contrario del mercato che si organizza in uno spazio potenzialmente
infinito, l’intero pianeta, ma declina le proprie scelte dentro un tempo
estremamente ridotto, l’indice di Borsa del giorno successivo. E’ questa
differenza a far sì che gli interessi di mercato siano quasi sempre in diretto
contrasto con i bisogni della vita delle persone.
L’economia della pianura padana lasciata al mercato, oltre ad aver prodotto
pesanti livelli di inquinamento complessivo che hanno trasformato il serio
problema sanitario prodotto dalla pandemia da Covid19 in una tragedia di massa,
ha messo in campo un’idea di agricoltura, allevamento, industria e
produzione energetica vocate al massimo rendimento nel minimo arco temporale.
Una relazione predatoria nei confronti del suolo, dell’aria, dell’acqua,
dell’energia e della salute delle persone che ha prodotto grandi risultati di
fatturato per le industrie dell’agro-business e di utili in Borsa per le
multiutility dell’acqua e dell’energia.
Permettendo alle stesse di comportarsi come quell’uomo del film “L’odio” che,
cadendo da un palazzo di 50 piani, man mano che passa da un piano all’altro
continua ripetersi «fino a qui, tutto bene», misurando il ‘qui ed ora’ della
caduta e non l’esito dell’atterraggio.
Esito che nella pianura padana è arrivato con la più grave crisi idrica
degli ultimi 70 anni e il Po ridotto a un rigagnolo circondato da distese di
sabbia.
Prima che gli interessi delle grandi lobby scendano in campo per far ricadere
la crisi ancora una volta sulle spalle degli abitanti, è il momento che le
comunità locali insorgano per prendersi cura del ramo su cui siamo seduti
contro chi continua a segarlo.
Magari rivendicando che i soldi del Pnrr vadano alla cura e alla manutenzione
dei territori invece che a nuove basi militari dentro parchi naturali.
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