(Articolo pubblicato su DinamoPress il 3 giugno 2022)
Il dibattito che contrappone la direttiva Bolkestein,
e la conseguente promozione dell’ingresso di grandi capitali, alla tutela dei
privilegi dei balneari è una narrazione tossica dalla quale occorre uscire
sottolineando la necessità di un intervento statale di regolazione e
pianificazione.
Ogni anno, in questo periodo che (nonostante il clima
sia già arido) anticipa l’inizio dell’estate, nel dibattito pubblico si
riaffacciano due questioni ancora irrisolte relative al turismo balneare e alla
gestione dei flussi economici che genera. Quest’industria è importantissima in
tutto il mondo e ancor di più nel Belpaese, dove il Mediterraneo lambisce le
coste di ben 15 regioni su 20 e oltre 3000 km di spiaggia sono a disposizione
di bagnanti e vacanzieri. Non sorprende quindi il periodico riaprirsi del
sipario a cui stiamo assistendo.
Da un lato ci sono le nauseanti dichiarazioni di
ricchi e celebri imprenditori (da Borghese ad Albano e Briatore, per dirne solo
alcuni) che lamentano la mancanza di personale senza interrogarsi su
retribuzioni e orari, accusando invece lo strumento del reddito di cittadinanza
che allontanerebbe i giovani dal lavoro. Dall’altro l’ormai ultradecennale
dibattito sulle concessioni balneari sviluppatosi a partire dalla direttiva
europea Bolkestein del 2006 che regola le norme in materia di concorrenza.
L’Unione Europea da allora richiede vengano messe a
bando le aree di costa che da quasi mezzo secolo sono affidate in gestione agli
stessi privati, che ne hanno potuto disporre a un prezzo irrisorio (circa 2
euro a metro quadro) e in alcuni casi hanno persino subaffittato o venduto le
licenze.
A questa richiesta si contrappongono le associazioni
imprenditoriali di categoria e buona parte dei partiti politici nazionali che
hanno sinora difeso strenuamente questo privilegio ottenendo continui rinvii.
Per quanto riguarda la prima questione relativa al
lavoro dei cosiddetti stagionali non sono mancate prese di posizione anche
radicali in entrambe le direzioni. Da quella dell’ex primo ministro Renzi, che
ha annunciato una raccolta di firme per l’abolizione del RdC, a quelle di segno
opposto di movimenti sociali e sindacati di base che ne richiedono innalzamento
delle quote, abbassamento dei requisiti di accesso ed estensione che lo
svincoli dal ricatto della ricerca di lavoro.
Sulle concessioni balneari invece il dibattito sembra
essere appiattito tra due soluzioni che corrispondono a due facce speculari e
complementari di un modello di capitalismo estrattivista e rapace che guarda ai
territori solo come risorse strategiche per l’economia e non contempla nemmeno
la possibilità di una gestione pubblica.
Nemmeno ora che l’incedere della crisi ecologica
globale dovrebbe indurci a ripensare nuove forme di sviluppo compatibili con la
tutela dell’ambiente (che comprende ovviamente anche quella delle coste e dei
mari). Ma prima di arrivare a parlare di quella che secondo me potrebbe essere
una soluzione (sicuramente perfettibile e provvisoria) per uscire da questa
impasse neoliberale, proviamo a ricostruire brevemente gli eventi che si sono
susseguiti fino a oggi.
La normatività italiana è entrata in conflitto con la
direttiva europea Bolkestein perché prevedeva per le concessioni balneari
quello che viene definito “diritto d’insistenza”, ovvero un diritto di prelazione
esercitabile dai proprietari degli stabilimenti nei confronti degli altri
candidati.
A questo si aggiungeva il rinnovo automatico dei
titoli ogni 6 anni, garantendo di fatto la disponibilità a vita di quel terreno
ai primi arrivati. La direttiva europea firmata nel 2006 prende il nome dal
membro del partito liberale olandese che l’aveva promossa e dovrebbe imporre
invece la libera concorrenza di tutti gli operatori privati europei per
l’assegnazione di spazi pubblici nei singoli stati nazione.
Nel 2008, mentre la maggior parte degli Stati
dell’Unione si apprestavano a recepire la norma, ha inizio un lungo percorso
fatto di lettere di reclamo e procedure d’infrazione aperte (e poi cancellate)
da parte dell’UE a fronte di ipotesi di adeguamento poi smentite da continue
proroghe da parte del governo italiano.
Fino allo scorso novembre 2021, quando la situazione
sembrerebbe essersi sbloccata grazie a una sentenza del Consiglio di Stato che
accoglie il ricorso (contro le proroghe concesse dal governo ai balneari fino
al 2034) promosso del Sindaco di Lecce, dopo che il Tar aveva accolto le
richieste opposte dei balneari. Stando a quest’ultima sentenza, il governo
avrebbe tempo fino alla fine del 2023 per procedere alla liberalizzazione e
istituire nuovi bandi.
La levata di scudi delle associazioni di imprenditori
(da Asso Balneari fino all’intera Confindustria) in difesa delle rendite
acquisite e in nome di un protezionismo economico nazionale, trova
immediatamente sponda nelle dichiarazioni di Matteo Salvini e Giorgia Meloni.
Fratelli d’Italia e la Lega confermano da subito la
loro contrarietà all’applicazione della Bolkestein affermando che questa
lascerebbe i litorali in mano ai grandi capitali stranieri, mettendo sul
lastrico migliaia di famiglie italiane. Al di là della consueta e fuorviante
opposizione creata ad arte tra capitali stranieri asserviti al capitale
finanziario e invece la buona e piccola impresa nazionale (come se in Italia
non esistessero grandi imprese, con magari potenti holding alle spalle, in
grado di inserirsi nei nuovi bandi e uscirne vittoriose o che già magari
detengono il possesso di questi territori) c’è un fondo di verità in questa
critica.
Questa direttiva europea, come molte altre norme
nazionali e internazionali, non fa che spingere in avanti un processo di
ultra-liberalizzazione proponendo di fatto la sostituzione di una rendita di
successione con una rendita dovuta al proprio posizionamento sui mercati. Allo
stesso tempo però credo sia indifendibile la posizione di chi per decenni ha
non solo goduto del privilegio delle concessioni, ma su queste ha costruito
un’economia insostenibile tanto su un piano ecologico-ambientale quanto su
quello socio-economico.
Mentre i canoni concessori delle spiagge rimanevano
sostanzialmente inalterati, è cresciuto invece il costo dei lettini e degli
ombrelloni, per non parlare di tutti gli altri servizi accessori. Intanto il
lavoro degli stagionali di quest’industria è rimasto sempre precario e
sottopagato.
In molti casi crediamo sia passato da un regime di
totale informalità a quello attuale di semi-legalità grazie alla
deregolamentazione del mercato del lavoro, che ha concesso una gamma di
contratti e formule di assunzione così ampia da divenire una tutela per i
datori di lavoro più che per i lavoratori stessi (che possono essere assunti
con contratti a chiamata o altre formule atipiche più facili da aggirare che da
applicare). In ogni caso rimane scarsamente retribuito e ampiamente sfruttato.
E un mercato così profittevole non poteva che
espandersi a vista d’occhio divorando letteralmente i pochi km. di spiaggia
rimasti liberi. Solo lo scorso anno Legambiente dichiarava nel suo report
“Spiagge 2021” un aumento di oltre il 12% delle concessioni a privati nei tre
anni precedenti (comprendenti quindi anche il periodo pandemico, alla faccia
delle lamentele degli imprenditori del settore). In alcuni comuni, come quello
di Rimini, oltre il 90% della costa balneabile è data in concessione a privati.
Da questo nodo occorrerebbe ripartire, da una tutela
del territorio che dovrebbe passare per la sua ri-pubblicizzazione. Le spiagge
dovrebbero essere aperte a tutti perché sono un bene comune, minacciato per
altro dalla continua erosione prodotta dall’innalzamento dei mari e dal loro
inquinamento.
Ma non ci aspettiamo certo che siano questo governo (o
il prossimo) e l’Unione Europa a procedere autonomamente in questa direzione:
crediamo che questa istanza possa o debba invece essere assunta pienamente dai
movimenti che si battono per la difesa del pianeta.
Quanto al dibattito che contrappone la direttiva
Bolkestein, e la conseguente promozione dell’ingresso di grandi capitali, alla
tutela dei privilegi dei balneari crediamo sia una narrazione tossica dalla
quale uscire sottolineando la necessità di un intervento statale di regolazione
e pianificazione.
L’industria turistica ha da sempre goduto dell’assenza
di interventi regolatori e possiamo dire che al contempo ne stia pagando anche
le conseguenze. Alla lunga non basterà allargare la frontiera della
turistificazione colonizzando nuove aree per sfuggire all’inquinamento dei mari
ed alla distruzione dei litorali che quest’economia produce, perché il turismo
è dipendente dalle stesse risorse che consuma e deteriora. Lasciare tutto in
mano agli interessi del mondo dell’impresa, piccola o grande che sia, nazionale
o estera, non può che produrre un peggioramento ulteriore.
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