mercoledì 8 giugno 2022

Spiagge bene comune, contro Bolkestein e status quo - Matteo Lupoli

 

 (Articolo pubblicato su DinamoPress il 3 giugno 2022)

Il dibattito che contrappone la direttiva Bolkestein, e la conseguente promozione dell’ingresso di grandi capitali, alla tutela dei privilegi dei balneari è una narrazione tossica dalla quale occorre uscire sottolineando la necessità di un intervento statale di regolazione e pianificazione.

Ogni anno, in questo periodo che (nonostante il clima sia già arido) anticipa l’inizio dell’estate, nel dibattito pubblico si riaffacciano due questioni ancora irrisolte relative al turismo balneare e alla gestione dei flussi economici che genera. Quest’industria è importantissima in tutto il mondo e ancor di più nel Belpaese, dove il Mediterraneo lambisce le coste di ben 15 regioni su 20 e oltre 3000 km di spiaggia sono a disposizione di bagnanti e vacanzieri. Non sorprende quindi il periodico riaprirsi del sipario a cui stiamo assistendo.

Da un lato ci sono le nauseanti dichiarazioni di ricchi e celebri imprenditori (da Borghese ad Albano e Briatore, per dirne solo alcuni) che lamentano la mancanza di personale senza interrogarsi su retribuzioni e orari, accusando invece lo strumento del reddito di cittadinanza che allontanerebbe i giovani dal lavoro. Dall’altro l’ormai ultradecennale dibattito sulle concessioni balneari sviluppatosi a partire dalla direttiva europea Bolkestein del 2006 che regola le norme in materia di concorrenza.

L’Unione Europea da allora richiede vengano messe a bando le aree di costa che da quasi mezzo secolo sono affidate in gestione agli stessi privati, che ne hanno potuto disporre a un prezzo irrisorio (circa 2 euro a metro quadro) e in alcuni casi hanno persino subaffittato o venduto le licenze.

A questa richiesta si contrappongono le associazioni imprenditoriali di categoria e buona parte dei partiti politici nazionali che hanno sinora difeso strenuamente questo privilegio ottenendo continui rinvii.

Per quanto riguarda la prima questione relativa al lavoro dei cosiddetti stagionali non sono mancate prese di posizione anche radicali in entrambe le direzioni. Da quella dell’ex primo ministro Renzi, che ha annunciato una raccolta di firme per l’abolizione del RdC, a quelle di segno opposto di movimenti sociali e sindacati di base che ne richiedono innalzamento delle quote, abbassamento dei requisiti di accesso ed estensione che lo svincoli dal ricatto della ricerca di lavoro.

Sulle concessioni balneari invece il dibattito sembra essere appiattito tra due soluzioni che corrispondono a due facce speculari e complementari di un modello di capitalismo estrattivista e rapace che guarda ai territori solo come risorse strategiche per l’economia e non contempla nemmeno la possibilità di una gestione pubblica.

Nemmeno ora che l’incedere della crisi ecologica globale dovrebbe indurci a ripensare nuove forme di sviluppo compatibili con la tutela dell’ambiente (che comprende ovviamente anche quella delle coste e dei mari). Ma prima di arrivare a parlare di quella che secondo me potrebbe essere una soluzione (sicuramente perfettibile e provvisoria) per uscire da questa impasse neoliberale, proviamo a ricostruire brevemente gli eventi che si sono susseguiti fino a oggi.

La normatività italiana è entrata in conflitto con la direttiva europea Bolkestein perché prevedeva per le concessioni balneari quello che viene definito “diritto d’insistenza”, ovvero un diritto di prelazione esercitabile dai proprietari degli stabilimenti nei confronti degli altri candidati.

A questo si aggiungeva il rinnovo automatico dei titoli ogni 6 anni, garantendo di fatto la disponibilità a vita di quel terreno ai primi arrivati. La direttiva europea firmata nel 2006 prende il nome dal membro del partito liberale olandese che l’aveva promossa e dovrebbe imporre invece la libera concorrenza di tutti gli operatori privati europei per l’assegnazione di spazi pubblici nei singoli stati nazione.

Nel 2008, mentre la maggior parte degli Stati dell’Unione si apprestavano a recepire la norma, ha inizio un lungo percorso fatto di lettere di reclamo e procedure d’infrazione aperte (e poi cancellate) da parte dell’UE a fronte di ipotesi di adeguamento poi smentite da continue proroghe da parte del governo italiano.

Fino allo scorso novembre 2021, quando la situazione sembrerebbe essersi sbloccata grazie a una sentenza del Consiglio di Stato che accoglie il ricorso (contro le proroghe concesse dal governo ai balneari fino al 2034) promosso del Sindaco di Lecce, dopo che il Tar aveva accolto le richieste opposte dei balneari. Stando a quest’ultima sentenza, il governo avrebbe tempo fino alla fine del 2023 per procedere alla liberalizzazione e istituire nuovi bandi.

La levata di scudi delle associazioni di imprenditori (da Asso Balneari fino all’intera Confindustria) in difesa delle rendite acquisite e in nome di un protezionismo economico nazionale, trova immediatamente sponda nelle dichiarazioni di Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

Fratelli d’Italia e la Lega confermano da subito la loro contrarietà all’applicazione della Bolkestein affermando che questa lascerebbe i litorali in mano ai grandi capitali stranieri, mettendo sul lastrico migliaia di famiglie italiane. Al di là della consueta e fuorviante opposizione creata ad arte tra capitali stranieri asserviti al capitale finanziario e invece la buona e piccola impresa nazionale (come se in Italia non esistessero grandi imprese, con magari potenti holding alle spalle, in grado di inserirsi nei nuovi bandi e uscirne vittoriose o che già magari detengono il possesso di questi territori) c’è un fondo di verità in questa critica.

Questa direttiva europea, come molte altre norme nazionali e internazionali, non fa che spingere in avanti un processo di ultra-liberalizzazione proponendo di fatto la sostituzione di una rendita di successione con una rendita dovuta al proprio posizionamento sui mercati. Allo stesso tempo però credo sia indifendibile la posizione di chi per decenni ha non solo goduto del privilegio delle concessioni, ma su queste ha costruito un’economia insostenibile tanto su un piano ecologico-ambientale quanto su quello socio-economico.

Mentre i canoni concessori delle spiagge rimanevano sostanzialmente inalterati, è cresciuto invece il costo dei lettini e degli ombrelloni, per non parlare di tutti gli altri servizi accessori. Intanto il lavoro degli stagionali di quest’industria è rimasto sempre precario e sottopagato.

In molti casi crediamo sia passato da un regime di totale informalità a quello attuale di semi-legalità grazie alla deregolamentazione del mercato del lavoro, che ha concesso una gamma di contratti e formule di assunzione così ampia da divenire una tutela per i datori di lavoro più che per i lavoratori stessi (che possono essere assunti con contratti a chiamata o altre formule atipiche più facili da aggirare che da applicare). In ogni caso rimane scarsamente retribuito e ampiamente sfruttato.

E un mercato così profittevole non poteva che espandersi a vista d’occhio divorando letteralmente i pochi km. di spiaggia rimasti liberi. Solo lo scorso anno Legambiente dichiarava nel suo report “Spiagge 2021” un aumento di oltre il 12% delle concessioni a privati nei tre anni precedenti (comprendenti quindi anche il periodo pandemico, alla faccia delle lamentele degli imprenditori del settore). In alcuni comuni, come quello di Rimini, oltre il 90% della costa balneabile è data in concessione a privati.

Da questo nodo occorrerebbe ripartire, da una tutela del territorio che dovrebbe passare per la sua ri-pubblicizzazione. Le spiagge dovrebbero essere aperte a tutti perché sono un bene comune, minacciato per altro dalla continua erosione prodotta dall’innalzamento dei mari e dal loro inquinamento.

Ma non ci aspettiamo certo che siano questo governo (o il prossimo) e l’Unione Europa a procedere autonomamente in questa direzione: crediamo che questa istanza possa o debba invece essere assunta pienamente dai movimenti che si battono per la difesa del pianeta.

Quanto al dibattito che contrappone la direttiva Bolkestein, e la conseguente promozione dell’ingresso di grandi capitali, alla tutela dei privilegi dei balneari crediamo sia una narrazione tossica dalla quale uscire sottolineando la necessità di un intervento statale di regolazione e pianificazione.

L’industria turistica ha da sempre goduto dell’assenza di interventi regolatori e possiamo dire che al contempo ne stia pagando anche le conseguenze. Alla lunga non basterà allargare la frontiera della turistificazione colonizzando nuove aree per sfuggire all’inquinamento dei mari ed alla distruzione dei litorali che quest’economia produce, perché il turismo è dipendente dalle stesse risorse che consuma e deteriora. Lasciare tutto in mano agli interessi del mondo dell’impresa, piccola o grande che sia, nazionale o estera, non può che produrre un peggioramento ulteriore.

da qui

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